Il Giansenismo, quinta colonna nella Chiesa. Il Giansenismo minava la fede ed estingueva la pietà. Tra giansenisti ed ortodossi, una terza forza. Costituzionali, appellanti, moderati. L’arma della terza forza: salvare l’unità. I cripto-giansenisti ostentano devozione e zelo apostolico. I maggiori responsabili della diffusione del giansenismo. Fallimento della conciliazione ad ogni costo….
IL GIANSENISMO E LE SUE MODALITA’ D’AZIONE
Come è noto, la Rivoluzione francese fu il frutto di una profonda preparazione ideologica, che, dal Rinascimento e dal protestantesimo, passando attraverso il deismo e l’illuminismo, giunse alla completa empietà, espressa con tutta chiarezza nelle realizzazioni politiche e religiose del sollevamento repubblicano del 1792.
IL GIANSENISMO, QUINTA COLONNA NELLA CHIESA
A una prima considerazione, la lotta sulla fine del secolo XVIII sembrerebbe delinearsi in termini molto chiari: da una parte la Chiesa, dalla parte opposta l’insieme di correnti e sette dichiaratamente empie – protestantesimo, filosofismo, illuminismo, ecc. – che si potrebbe chiamare l’anti-Chiesa. In realtà il panorama era più complesso. L’anti-Chiesa non aveva tutti i suoi seguaci collocati nelle file esplicitamente eterodosse; aveva infatti trovato modo di disporre suoi elementi in grande numero all’interno delle stesse file cattoliche. E questi elementi non erano isolati gli uni dagli altri e non agivano ciascuno separatamente. Costituivano tutta una rete di attività sapientemente eseguite, che miravano a fare all’interno della Chiesa il gioco degli avversari di essa; in breve, ciò che oggi si chiamerebbe una quinta colonna.
L’obiettivo di questa quinta colonna consisteva nel minare la reazione cattolica. A questo fine aveva una duplice missione. In primo luogo, quella di diffondere, sotto veste di cattolicesimo genuino, sistemi teologici e morali erronei, che avvicinassero i fedeli alle tendenze empie e li allontanassero dagli insegnamenti di Roma. In secondo luogo, quella di introdursi, nella misura del possibile, nei posti chiave: cattedre universitarie; direzione spirituale dei seminari e comunità religiose, di troni e principati; parrocchie importanti; e, soprattutto, sogli episcopali. In questo modo l’eresia cercava di infiltrarsi il più profondamente possibile nelle viscere stesse della Chiesa e delle monarchie cristiane e otteneva il risultato di disorientare e di perdere i fedeli, insegnando loro quasi con l’autorità della Chiesa stessa gli errori da questa condannati.
Tale fu il giansenismo, eresia nefasta che con cinici sotterfugi si prese gioco delle varie condanne lanciate contro di essa dal Magistero infallibile, e cercò sempre di mantenersi nel seno del cattolicesimo, per corromperne le fonti vitali.
IL GIANSENISMO MINAVA LA FEDE ED ESTINGUEVA LA PIETÀ
L’obbedienza e la docilità al Santo Padre, la fedeltà alla Scolastica – questa mirabile sintesi della filosofia e della Rivelazione -, il fervore dei fedeli nella frequenza alla confessione e alla mensa eucaristica, e la devozione alla Madonna, assicurano nella Chiesa la conservazione di quella energia che la rende la pietra viva contro la quale si spezzano le armi infernali.
I giansenisti, nemici della Chiesa, tentano di restare apparentemente nel suo seno, per farla finita con tutto questo. Il loro rigorismo farisaico allontana i fedeli dai sacramenti.
La critica sofistica a cui sottoponevano le decisioni pontificie diede origine all’”opinionismo”, al “liberalismo cattolico”, alla libertà per ciascuno di pensare come vuole, poiché si tratta soltanto di opinioni che possono essere vere, come possono essere false; l’esaltazione della Patristica e della Chiesa primitiva, scuotendo la fiducia nella Scolastica, teologia più chiara, più precisa, più definita, dà origine alle incertezze della intelligenza operando in un campo ancora nebuloso, e conferma profondamente gli spiriti nella convinzione che si tratta sempre di opinioni ugualmente rispettabili.
Questo è l’intento del giansenismo così come si può ricavare dalla sua storia. In realtà esso si presentava come difensore della teologia di sant’Agostino, interpretata in senso protestantico, come se il Dottore della Grazia ammettesse la duplice predestinazione come frutto necessario della grazia divina o della sua assenza. Infatti, per i giansenisti, vi sono precetti divini per il cui adempimento mancano all’uomo le energie necessarie; e nel caso riceva queste energie, ossia la grazia di Dio, ormai non è più libero di compiere l’opera buona: l’aiuto divino spinge necessariamente la sua volontà.
In apparenza, quindi, il giansenismo divide gli spiriti semplicemente su un terreno teologico. Di fatto, si tratta di una congiura, del tipo di una quinta colonna odierna, per scalzare la Chiesa.
LA QUINTA COLONNA SMASCHERATA
Si comprende facilmente che questa setta eretica avrebbe realizzato la sua impresa infernale con successo se fosse riuscita a rimanere completamente occulta all’interno degli ambienti cattolici. Ma non andò così. Vigorosamente combattuta da teologi e polemisti di valore, fu costretta a difendersi.
E, uscendo in campo aperto, mise in mostra non solo gli artigli, ma tutta la muscolatura. Il suo obiettivo essenziale restava così, almeno in parte, frustrato. Roma, messa in allarme, aveva condannato il sistema. I fedeli erano quindi premuniti. I giansenisti che si dicevano cattolici, ormai non potevano più agire nell’ombra, come una quinta colonna.
Restava loro da costituire. mantenendo l’apparenza di cattolici, una specie di “chiesa dentro la Chiesa”, raccogliendo gli spiriti più orgogliosi, più temerari, più dissoluti, per combattere continuamente i figli della luce, in una incessante guerriglia di cavilli e di sofismi contro i cattolici autentici. A questo modo, era più facile ordire la cospirazione dei figli delle tenebre fuori dagli accampamenti della Chiesa.
TRA GIANSENISTI E ORTODOSSI, UNA TERZA FORZA
Sulla rivista Annales – attualmente, come è noto, uno dei migliori organi specializzati in storia – Emile Appolis pubblica un articolo di valore e di molto interesse, nel quale, riunendo fatti già noti e nuovi documenti da lui raccolti, giunge a dimostrare, con una chiarezza impressionante, che il giansenismo, individuato, condannato, perseguitato, ma sempre radicato negli ambienti cattolici, produsse a sua volta quasi una terza forza – un terzo partito, dice Appolis – costituita da ecclesiastici di diverse categorie, che svolsero il compito molto delicato di fornire ai giansenisti sopportabili condizioni di esistenza in seno alla Chiesa, nonostante tutta la pressione contraria (1).
In primo luogo tali ecclesiastici non si dichiaravano giansenisti. Anzi, in linea generale il loro modo di agire dava la illusione che fossero d’accordo con Roma. In realtà, però, non combattevano il giansenismo, e sostenevano la tesi che questo sarebbe tranquillamente scomparso se gli antigiansenisti avessero smesso qualsiasi campagna contraria, e la Santa Sede si fosse astenuta da ogni misura di rigore che avesse carattere personale.
Questa posizione, che dal punto di vista dottrinale non era quella dei giansenisti, e neppure quella degli antigiansenisti militanti, riuscì gradita a molti spiriti eminenti, desiderosi di impegnare tutta la loro influenza per togliere vigore alla lotta contro l’eresia.
A partire dal momento in cui questa tattica insidiosa trionfò, nelle file cattoliche si manifestarono tre atteggiamenti: quello dei giansenisti, in lotta aperta contro i seguaci di Roma; quello della terza forza, anch’essa opposta ai seguaci di Roma, che accusava di essere esagerati, intransigenti, fomentatori di lotte, nemici della carità; e quello dei seguaci di Roma, isolati, incompresi, scoraggiati perché contro di loro si volgevano non solo i giansenisti, ma anche molte persone illustri per le cariche che ricoprivano e degne per la loro pietà e austerità di vita, arruolate nella terza forza.
Il grande merito dello studio di Appolis consiste nel mettere in rilievo che gli uomini della terza posizione, sotto veste di neutralità, erano agenti devoti della causa giansenista e che prestavano alla setta il più prezioso dei servizi.
Questo importante punto della storia ecclesiastica riceve così una luce nuova. La nostra rivista, nel cui programma si inserisce lo stimolare l’interesse verso la storia della Chiesa, offre ai suoi lettori i principali passaggi dello studio di Émile Appolis. Sarà inutile ricordare a persone colte che la grande interferenza, allora operante, dei potere temporale nella nomina dei vescovi, pregiudicava in modo grave la libertà di movimenti della Santa Sede, così come la scelta di Pastori autenticamente imbevuti dello spirito di integrale fedeltà a Roma.
COSTITUZIONALI, APPELLANTI, MODERATI
Appolis prende come oggetto del suo studio la Francia del secolo XVIII. Il giansenismo come setta era nella sua ultima fase di vita (poi sopravvisse a sé stesso nello spirito liberale che infesta ancora oggi molte mentalità e movimenti cattolici). In quell’epoca la sua grande guida era Pasquier Quesnel, la cui opera Reflexions morales sur le Nouveau Testament fu, dopo varie vicissitudini, fulminata dalla bolla Unigenitus di Clemente XI, dell’8 settembre 1713.
Ma il giansenismo, grazie alla negligenza del potere secolare, aveva ormai rassodato le proprie radici in Francia.
Così, benché registrata dal parlamento e accolta dalla Assemblea del clero, tale bolla papale non ottenne obbedienza pacifica di tutto il paese; di fronte a essa i vescovi francesi si divisero in tre gruppi. Una parte accolse pienamente la parola di Roma, e applicò con ardore tutte le disposizioni della bolla: Aunolis li chiama “costituzionali” in virtù della loro adesione perfetta alla costituzione apostolica. Un’altra parte, dichiaratamente giansenista; rifiutò di sottomettersi alla decisione della Santa Sede e interpose appello contro la costituzione presso il futuro concilio generale: sono gli “appellanti”, che nel 1717 erano quattro, e poi furono in numero di venti. Una terza parte scelse una posizione intermedia, sottoscrisse la bolla, ma non fece nulla per applicarla: sono quelli che Appolis chiama la terza forza.
L’ARMA DELLA TERZA FORZA: SALVARE L’UNITA’
La ragione invocata da questo ultimo gruppo di prelati è il mantenimento della pace tra i fedeli, e della carità con tutti. Così, non prendono partito e non si preoccupano di sapere se nelle loro diocesi vi sono dei giansenisti. Tale fu mons. Pierre Clément, vescovo di Périgukx, che, morendo, meritò questo elogio: “II signor vescovo aveva, proprio fino alla sua morte, contribuito alla nostra pace; nessuno aveva preso partito [a favore o contro la Unigenitus] e non ci era stato assolutamente chiesto” (2).
Identico è l’atteggiamento di diversi altri prelati: del successore di mons. Pierre Clément a Périgueux; di mons. Denis-Alexandre Le Blanc, della diocesi di Sarlat; di mons. Louis-Charles des Alrvs de Rousset che nella sua diocesi, per quarant’anni, conservò una bonaccia inesistente nei vescovadi vicini; di mons. J.A. Phélypeaux, vescovo di Lodève, assolutamente indifferente alle bolle e alle dichiarazioni regali. Quando una di queste ultime, nel giugno del 1722, impose l’accettazione delle formule antigianseniste da parte di quanti ricevessero gli Ordini sacri, o ricevessero benefici ecclesiastici, mons. Phélypeaux non ebbe dubbi di sorta nel conferire ordini a molti suoi sudditi che avevano rifiutato di sottoscrivere il formulario, così come nel concedere prebende ecclesiastiche senza esigere dalle persone in tale modo favorite il preventivo adempimento di questa formalità.
Ma la terza forza in senso proprio non è costituita da costoro. La loro mancanza di zelo e una coloritura di spirito scettico fanno di essi una porzione meno degna delle cariche che ricoprono. Quelli del terzo partito hanno un atteggiamento analogo. ma non sono mossi da negligenza. bensì da un problema di dottrina, dal principio che la pace è un valore sommo, ed è quindi desiderabile conservarla a ogni costo, anche quando così facendo si indeboliscano le forze dei difensori della verità, e si apra il campo ai propagatori dell’errore.
Mantenendo tra loro rapporti molto cordiali, dice Appolis, formano un autentico partito intermedio tra gli “appellanti” e i loro avversari. Senza ricorrere a un futuro concilio e affermando sempre la loro sottomissione alla bolla di Clemente XI, tali prelati rifiutano, ciononostante, di allinearsi tra i “costituzionali” integralmente docili a Roma.
Come i giansenisti, anch’essi aspirano alla fine delle discussioni per “amore della pace” e “odio allo scisma”. Non vogliono considerare gli “appellanti” come sospetti di eresia, dal momento che costoro affermano di condannare le cinque proposizioni di Giansenio e di sostenere sulla grazia la dottrina di Sant’Agostino, per le cui tesi professano anch’essi una grande venerazione. In questo modo quei vescovi vogliono semplicemente mettere una pietra sul problema, i sostenitori di questo terzo partito, dunque – conclude Appolis -, aspirano a restaurare l’unità della Chiesa, non attraverso la ritrattazione dei giansenisti, ma attraverso l’instaurazione di una tolleranza della quale costoro sarebbero stati i beneficiari.
A questo proposito è significativa la pastorale dell’8 febbraio 1715 di, mons: Honoré de Quiqueran de Beaujeu, vescovo di Castres. Dopo aver fatto una dichiarazione di deferenza nei confronti della Santa Sede, e dopo aver parlato in termini commoventi “del rispetto e della sottomissione che dobbiamo a Cefa“; dichiara che intende conservare una posizione equilibrata tra i due gruppi avversari: “Prelati rispettabili per la loro scienza e per la loro pietà hanno ritenuto di doversi appellare al futuro concilio… Altri prelati ai quali dobbiamo un non minore rispetto hanno condannato questo appello e lo hanno dichiarato scismatico“. Per amore di pace, mons. de Beaujeu si mantiene fuori dalle dispute, e dà ai suoi diocesani ordini coerenti con questo proposito.
Nella sua diocesi egli desidera soltanto la pace e la carità: “…lasciamo ad altri la cura di chiarire e difendere la verità oscurata o attaccata dalle discussioni che guastano la carità nella quale soltanto vogliamo restare fermi e confermarvi con noi“.
Trabocca in modo particolare la sua carità verso gli “appellanti”: “Ci è di grande peso vedere nostri fratelli – e quali fratelli, mio Dio! -, ci è di grande peso vederli accusati di ribellione, ci è gravoso vederli trattati come scismatici e sappiamo che essi aborriscono lo scisma come il maggiore dei delitti. Ci è gravoso vederli accusati perché sappiamo che essi condannano le, cinque proposizioni di Giansenio e sostengono, sul tema della grazia, niente più della dottrina di san Tommaso e di sant’Agostino…“.
Non meraviglia quindi che i vescovi “appellanti” conservino rapporti di grande cordialità con gli uomini del partito intermedio.
IL CARDINALE FLEURY APPOGGIA LA TERZA FORZA
Quando il cardinale Fleury fu chiamato a ricoprire la carica di ministro di Luigi XV ed ebbe l’incarico di provvedere i benefici ecclesiastici, si rallegrò dell’esistenza del terzo partito. In esso il ministro vedeva gli uomini della pace, che avrebbero evitato ogni perturbazione nel regno. Così, benché desiderasse la sottomissione a Roma, considerava più urgente conservare la tranquillità pubblica. Questa preoccupazione orientò tutta la politica ecclesiastica di Fleury. Non gli piacevano i “costituzionali”. Né appoggiava apertamente gli “appellanti”. Le sue predilezioni andavano a quelli della Terza Forza, nonostante notasse in essi simpatie e tendenze gianseniste. Fleury reclutò i candidati all’episcopato nelle file della terza forza e, con la prudenza del caso, andò sostituendo nel governo delle diocesi i “costituzionali” con elementi del gruppo intermedio. A Carcassonne, al posto di mons. L. J. de Chateauneuf de Rochebonne, che aveva affidato il suo seminario ai gesuiti, Fleury colloca Bazin de Bezons; a Chalons-sur-Marne a mons. Tavannes, che aveva proibito alle orsoline gianseniste di ricevere i sacramenti, succede Choiseul-Beauf; a Mirepoix, mons. Ch.Jos. de Quiqueran de Beaujeu, nipote dell’altro Quiqueran de Beaujeu e considerato come cripto-giansenista; sostituisce il teatino mons. Boyer, ardente “costituzionale”, chiamato a essere precettore del Delfino; a Soissons, mons. Fitz-James è il secondo successore di mons. Languet de Gergy, altro ardente seguace della Unigenitus.
Perché si valuti il grado di ortodossia di questi elementi – e non furono gli unici: sono soltanto esempi – basti ricordare che Fleury dovette vincere scrupoli di coscienza nel caso della nomina di alcuni di essi, come Souillàc, vescovo di Lodkve, su cui pesavano non infondati sospetti di eresia.
Vi sono buone possibilità che queste voci negative circa la ortodossia dei seguaci della pace a qualsiasi prezzo, sia stata una delle ragioni che fece loro meritare l’appoggio del cardinale ministro. Fleury era certo che, in questa eventualità, sarebbero ricorsi a lui, e questo fatto gli dava in pratica la direzione di tutta la Chiesa di Francia. E accadde proprio così. Quando il giansenismo sviò verso i fatti miracolosi o mirabolanti, le convulsioni, le cure, ecc., tutti questi vescovi soffocarono i fatti, evitando qualsiasi rumore e seguendo docilmente le istruzioni di completa bonaccia del cardinale.
La terza forza ebbe un momento di panico quando alla morte del cardinale Fleury (1743), lo sostituì, nell’incarico di proporre alla Santa Sede, in nome, del re, i candidati all’episcopato lo stesso mons. Boyer allontanato da Mirepoix, per le sue idee ardentemente favorevoli alla bolla Unigenitus.
E se mons. Boyer non fosse morto nel 1755, in breve tempo la Chiesa di Francia sarebbe rimasta libera dagli “appellanti” e dagli intermedi, con l’episcopato interamente docile alle istruzioni di Roma. Purtroppo i suoi due successori – prima il cardinale de La Rochefoucauld, morto nel 1757, e poi mons. Jarente de la Bruyère, vescovo di Orléans -, ripresero la politica di Fleury, e si resero responsabili della nomina di molti prelati della terza forza.
I CRIPTO GIANSENISTI OSTENTANO DEVOZIONE E ZELO APOSTOLICO
Quanto fosse utile alla causa giansenista questo partito intermedio, è evidente per chi considera le eccezionali possibilità a disposizione dei prelati a essa affiliati di diffondere tutta una mentalità di inazione di fronte all’errore e alla eresia; possibilità rese maggiori dal tenore di vita di questi vescovi, di apparenza austera, zelante e pia, che li rendeva ancora più raccomandabili.
Tutti presentano, infatti, caratteristiche più o meno comuni. Se non tutti sono oratoriani (la Congregazione dell’oratorio, del cardinale de Berulle, fu un grande rifugio del giansenismo), quasi tutti avevano fatto i loro studi in istituti affidati agli oratoriani. Alcuni sono ex-alunni dei dottrinari.
Questa origine, che poteva renderli sospetti, era controbilanciata da altre qualità capaci di influenzare potentemente lo spirito del popolo. In generale avevano un alto concetto dei loro doveri episcopali. Osservanti scrupolosi della legge di residenza, assidui e infaticabili nelle visite pastorali, non tralasciavano mai di istruire il popolo con sermoni e catechesi. Mons. Souillac, il 20 novembre 1735, rimane sul pulpito per due ore e un quarto per chiudere la missione di Lodève.
Un altro aspetto capace di attirare la venerazione del popolo era costituito dalle pratiche di carità. Mons. La Chatre, mons. Souillac, mons. Beauteville e mons. Bazin de Bezons costituiscono eredi dei loro beni gli ospedali delle rispettive sedi episcopali.
In tema di danaro si mostrano assolutamente disinteressati. Rinunciano ad altri benefici per accontentarsi esclusivamente delle entrate delle proprie curie. Severi con sé stessi, li sono anche con il popolo. Appolis li accusa di essere rigoristi. Il capitolo della cattedrale di Alès, annunciando ai fedeli la morte di mons. de Beauteville, sottolinea che “aveva una opinione molto severa dei doveri degli uomini nei confronti di Dio e pensava che la via del cielo è stretta e difficile“. Mons. Souillac, nei suoi primi quattro anni di episcopato, si rifiuta di conferire ordini sacri per timore di ingannarsi nella scelta dei candidati. Bazin de Bezons si prepara per le ordinazioni con digiuni, mortificazioni e continue orazioni. Questo stesso prelato è il terrore del suo clero per l’eccessivo rigore nelle visite pastorali. Tra i vescovi della corrente intermedia questa severità è generale. Si sollevano anche contro le sregolatezze di Luigi XV, nelle stesse pubblicazioni destinate alla divulgazione, come istruzioni pastorali.
Coperto dalla inerzia dei vescovi della terza forza, non meraviglia che l’incremento del giansenismo sia stato enorme. A meta del secolo XVIII le condizioni erano ormai tali che Luigi XV concordò con Benedetto XIV non la revoca della bolla Unigenitus, come vogliono alcuni, ma una mitigazione del rigore nell’applicare le pene da essa stabilite.
LA TATTICA DELLA TERZA FORZA PER FAVORIRE L’ERESIA
È necessario sottolineare che i prelati del terzo partito non favorivano il giansenismo soltanto con il loro atteggiamento pacifista, non facendo nulla nel senso di reprimere la setta o di eseguire le misure imposte dalla Santa Sede e dagli ordini del re; essi erano preziosi soldati dell’eresia per tutto il loro modo di agire.
Non accettavano gli errori di Giansenio, condannavano le cinque proposizioni, accettavano la bolla Unigenitus, ma favorivano tutte quelle cose che denunciavano simpatia per la setta e ne diffondevano lo spirito.
Uno dei principi tattici del giansenismo consisteva nella esagerazione dello spirito parrocchiale: Messa e sacramenti soltanto nella chiesa madre. Il conciliabolo di Pistoia accentuò molto questa tendenza giansenista, che in futuro si sarebbe. concretizzata in una autentica campagna contro
le chiese degli Ordini e delle Congregazioni. Quindi tutti questi vescovi sono parrochialisti a oltranza. Mons. Bazin de Bezons e mons. Tourouvre perseguitano i fedeli che alla domenica non sentono la Messa nella chiesa parrocchiale. Tourouvre, già nel corso della sua prima visita pastorale, chiude una cappella e proibisce la celebrazione del Santo Sacrificio in diverse altre. Souillac scomunica i fedeli che per tre domeniche consecutive non sono presenti alla Messa nella chiesa parrocchiale. Bazin de Bezons con un atto del 3 dicembre 1751 condanna un professore di teologia – un gesuita – perché insegnava che la Messa in parrocchia non è di precetto né di obbligo. Mons. Tourouvre ammette alle nozze i neoconvertiti soltanto quando hanno dato prova di cattolicità assistendo assiduamente per sei mesi alla Messa, alle istruzioni e alle altre funzioni parrocchiali.
Altra caratteristica del giansenismo era la lotta feroce contro i gesuiti. In questa offensiva gli uomini della terza forza sono suoi alleati. Abbiamo visto come si è comportato mons. Bazin de Bezons con il gesuita professore del suo seminario. Insieme a lui, i vescovi Fitz-James, Rastignac e Souillac scendono in campo contro il libro del gesuita Pichon che sostiene la comunione frequente. FitzJames e Montazet scrivono contro L’Histoire du peuple de Dieu del gesuita Berruyer. Tale fobia nei confronti dei padri della Compagnia di Gesù meritò da parte della Corte condanne simili a quelle dirette contro gli «appellanti». Nella parte sullo spirito giansenista Appolis osserva che i prelati della terza forza adottano platealmente nelle liturgie diocesane principi caratteristici della setta.
Ma soprattutto nell’insegnamento catechistico si mostra chiaramente che questi vescovi erano favorevoli all’eresia. Non vi è nessuna arma tanto efficace per la diffusione dell’errore quanto questi piccoli libri che si mettono nelle mani ingenue dei bambini. E nei catechismi delle diocesi dirette da adepti della terza forza troviamo, più diluito, e quindi più pericoloso, il virus giansenista. Souillac adotta nella sua diocesi il catechismo del giansenista Colbert. Ma, mentre questi mette in risalto il mistero della doppia predestinazione sostenuto dagli eretici, Souillac lo insinua nel finale di una frase. Colbert dice:
« – D. Dio dà le stesse grazie a tutti gli uomini?
« – R. No. Dio dà più grazie ai cristiani che agli altri uomini; e, tra i cristiani, alcuni ricevono più grazie degli altri.
« – D. Perché Dio agisce così?
« – R. È per noi un mistero impenetrabile. Sappiamo soltanto che Egli ha misericordia di alcuni, e giustizia per altri».
Souillac sopprime la seconda risposta, nella quale appare chiaro il pensiero giansenista. Però gli cambia soltanto posto, insinuandolo alla fine della risposta alla domanda precedente, che e così redatta:
« R. No. Dio dà più grazie ai cristiani che agli altri uomini: e, tra i cristiani, alcuni ricevono più grazie di altri, per I’effetto della Sua misericordia e della Sua giustizia».
Non meraviglia che gli «appellanti» abbiano espresso i più vivi elogi per gli studi di compiuti nello stesso senso da Souillac e Rastignac: Conférences de Lodève e Instruction pastorale sur la justice chrétienne. «Non vi è nessun appellante, dice il giansenista Fourquevaux, che non riconosca in questi scritti il suo modo di pensare».
I CRIPTO-GIANSENISTI MANIFESTANO IL LORO AUTENTICO PENSIERO
Anche la sincerità nell’accettazione della bolla Unigenitus da parte di questi prelati della terza forza può essere messa in dubbio.
È certo che l’accolsero tutti e che la fecero accettare al loro clero e al popolo. Ve ne furono perfino, tra loro, che a questo scopo si servirono di mezzi violenti. Tuttavia si accontentavano della sottoscrizione del documento. Non andavano oltre. Si trattava di una obbedienza pro forma.
Lo spirito e la sincerità di questa obbedienza traspare in più di uno scritto. Mons. Souillac, nel suo testamento, spiega la ragione per la quale ha accettato la bolla Unigenitus: «Io ho accettato sinceramente la bolla, dal momento che mi parve che fosse generalmente promulgata e accolta dal corpo dei Pastori uniti al Papa, capo visibile della Chiesa e primo vicario di Gesù Cristo». In queste parole si insinua che l’esercizio del sommo pontificato è soggetto alla accettazione dei vescovi, proprio come pensavano gli «appellanti».
Più esplicito, mons. Beauteville – ch,e in tutta la sua vita non era mai insorto contro la bolla – si toglie la maschera e consegna al suo testamento questa affermazione testuale: «Sono ben lungi dal considerare la costituzione Unigenitus, pubblicata sotto il nome di Papa Clemente XI, come una decisione della Chiesa. Dichiaro; al contrario, di aderire con tutto il cuore all’appello interposto al futuro concilio dai Signori vescovi di Mirepoix, di Senez, di Mont-pellier e di Boulogne…».
Spiegando perché personalmente e formalmente non aveva fatto appello anche pubblico al concilio, dice che «aveva considerato la legge del silenzio come una riprovazione autentica e legale della costituzione Unigenitus, che toglie a essa il carattere di giudizio della Chiesa, sospende gli effetti che invano si è tentato di farle avere, e rende, di conseguenza, inutile o almeno non necessario e dispensabile un appello che, in altro modo, avrebbe dovuto essere di rigore e dovere assoluto, come quando fu sollevato, nel momento in cui si imponeva l’esecuzione della bolla». Termina chiarendo che, per tutto il tempo in cui rimase in carica, fece osservare religiosamente la legge del silenzio sulla Unigenitus.
Questo può essere considerato come un caso limite. In generale i partigiani della posizione intermedia lasciavano intendere il loro modo di considerare l’obbedienza dovuta al Papa attraverso la negligenza nella applicazione degli ordini, sia regali che pontifici.
Mons. Montazet non cura di esigere dai candidati agli ordini sacri la sottoscrizione del formulario antigiansenista di Alessandro VII, e ordina sacerdote Francois Jacquemont, che più tardi sarebbe stato il famoso parroco giansenista di Saint-Médard en Forez. Altri si comportano come lui.
Mons. Souillac, per esempio, usa diversi artifici: ora tace a proposito del formulario; ora protesta che il candidato lo ha già sottoscritto: ora dichiara che lo farà più tardi. E così consegna a giansenisti benefici vacanti. Insomma, questi vescovi praticano a fin di male quelle sottigliezze che la setta imputava ai gesuiti a fin di bene.
Il sospetto sulla lealtà di questi prelati nei confronti di Roma nasce, inoltre, dalle reiterate spiegazioni che si sentono obbligati a fornire. Mons. Souillac dichiara al cardinal Fleury: «Non ho ricevuto […] un’anima tanto vile da fare la parte di cui mi si vuole fare sospettare». Fitz-James scrive a Benedetto XIV: «Mai, grazie a Dio, ho dissimulato il mio modo di pensare, e oso dire che mai ho avuto in società la fama di uomo falso». In una lettera allo stesso pontefice ripete la vecchia lamentela dei giansenisti, cioè che la Santa Sede è male informata: «Tutti quelli che conoscono questo paese e giudicano le cose spassionatamente, sono assolutamente persuasi che qui non vi sono né eresie né eretici». E dà quindi una interpretazione tendenziosa alla bolla Unigenitus: con il pretesto che questa non commina pene, con la massima superficialità ammette i giansenisti a ricevere i sacramenti. Come se il documento pontificio condannasse si qualcuno, ma di altri popoli e di altre terre.
Nel 1755, nell’assemblea del clero, la terza forza compare accanto a quelli che reputavano lieve la disobbedienza dei giansenisti, e, nel 1765, quattro vescovi di tale partito, Montazet, Bazin de Bezons, Beauteville e Noé rifiutano la loro adesione agli atti dell’assemblea del clero che dichiarano i giansenisti indegni di ricevere i sacramenti.
I MAGGIORI RESPONSABILI, DELLA DIFFUSIONE DEL GIANSENISMO
Tutti questi fatti giustificano la conclusione di Appolis: «[…] a causa della loro [dei vescovi del terzo partito] tollerante simpatia verso gli avversari della bolla, un non piccolo numero di questi prelati ha una considerevole parte di responsabilità nello sviluppo del giansenismo all’interno delle loro diocesi. Per limitarci ad alcuni esempi, la diocesi di Lione avrebbe contato, alla morte di mons. Montazet, sessanta sacerdoti a “appellanti”. E lo stesso vicario generale di mons. Bazin de Bezons, il giansenista Guillaume Besaucèle, sarà così popolare tra i nemici della Chiesa da essere eletto, al tempo della Rivoluzione, vescovo costituzionale di Aude.
«Con questo terzo partito, molto più che con i giansenisti propriamente detti, bisogna mettere in rapporto, alla fine dell’Antico Regime, i riformatori del concilio di Pistoia – almeno nelIa loro grande maggioranza. Allo stesso partito apparterrà anche l’abbé Grégoire, il famoso vescovo rivoluzionario, che mai si solleverà contro la bolla e il formulario, nonostante la sua reputazione di Port-royaliste. Come ha bene osservato l’autore giansenista Gruder, egli sarà giansenista soltanto alla maniera di Rastignac, di Fitz-James, di Montazet».
UNA NECESSARIA RETTIFICA
Appolis, con il suo studio, ha contribuito molto a illuminare la situazione religiosa della Francia nel secolo XVIII.
Nel suo studio vi è però un passaggio che ci sembra da parte nostra esigere una spiegazione. Appolis, intendendo mostrare, alla luce dei documenti, l’evoluzione avuta dalla questione giansenista dopo la bolla Unigenitus, evoluzione in senso liberale verso una tolleranza sempre maggiore nei confronti dell’errore, sostiene che gli stessi Papi Benedetto XIII e Benedetto XIV si siano lasciati trascinare dalla corrente intermedia. Essi stessi sarebbero stati illustri rappresentanti della terza forza.
Ora, benché entrambi questi pontefici siano stati uomini inclini alle concessioni, anche se in grado diverso, né l’uno né l’altro giunse al punto di venire a patti con l’eresia, come lascia intendere, pur senza affermarlo, Appolis nel suo studio (3).
Benedetto XIII, ardente domenicano (anche da Papa baciava la mano al generale del suo Ordine), favorì, senza dubbio, la posizione teologica dei domenicani. Non, però, a scapito delle altre dottrine con uguali diritti di cittadinanza nella santa Chiesa. Il breve Demissas preces del 6 novembre 1724, richiesto dal generale dei domenicani, ai quali è diretto, contiene una esortazione a non dare importanza, con magnanimità, alle calunnie sollevate contro le loro opinioni dottrinali, specialmente quanto alla grazia di per sé efficace, e alla predestinazione anteriore alla previsione dei meriti. Tuttavia non dichiara né che deve essere condannata la posizione di Molina, né che gli autori delle calunnie contro i domenicani sono i molinisti. II breve lascia sufficientemente intravedere che i calunniatori dell’Ordine a cui si fa riferimento sono i giansenisti. Non ci si può dunque richiamare a questo breve come se in esso vi fosse una condanna della dottrina molinista.
Quanto all’elogio della dottrina di Sant’Agostino e di san Tommaso sulla grazia, è opportuno notare che il Papa distingueva bene la dottrina tradizionale della Chiesa che, da Bonifacio II, vede in Sant’Agostino il Dottore della Grazia, e le deturpazioni dell’Augustinus di Giansenio che i port-royalistes facevano passare come la dottrina del santo vescovo di Ippona. Forse anche per questo il breve di Benedetto XIII contiene un elogio della bolla Unigenitus, che qualifica come sentenza estremamente salutare e saggia di Clemente XI.
Anche Benedetto XIV, come misura disciplinare, accolse le esigenze della Corte di Francia nel senso di mitigare l’applicazione delle pene comminate contro coloro che disobbedivano alla bolla Unigenitus. Per grandi che siano state, tuttavia, le concessioni del Papa, questi non cedette alle istanze del re al punto da dichiarare che la bolla Unigenitus non doveva essere considerata come «regola di fede». E, di fatto, nella circolare indirizzata dal Papa all’assemblea del clero, anche se non si trova l’espressione «regola di fede», lo stesso pensiero è presentato in altri termini. Vi si dice che l’autorità di tale bolla è tanto grande e che esige un rispetto, una accettazione e una obbedienza così sinceri, che nessun fedele può negare a essa l’obbligatoria sottomissione e opporsi a essa in qualsiasi modo, senza pericolo per la sua salvezza eterna. Segue la pena contro le persone notoriamente disobbedienti alla bolla Unigenitus.
Luigi XV concordo con Benedetto XIV soltanto questo. E’ vero che nello stesso decreto reale sulla circolare di Benedetto XIV, il re, motu proprio, dichiarava che la bolla Unigenitus non era regola di fede. Questo però fu fatto senza il consenso del Papa, e contro la sua intenzione, come si deduce dalle trattative tra la Corte francese e quella pontificia. Non si può quindi dedurne che il Papa intese favorire la terza forza, ossia l’eresia, dal momento che Appolis dimostra molto bene che la terza forza era cripto-giansenista.
E se qualcuno osservasse che il pontefice non disse nulla dopo un così sleale comportamento del monarca, è necessario ricordare che Benedetto XIV era infermo, e probabilmente non fu informato del modo poco regale con cui agì Luigi XV. E’ anche possibile che abbia pensato meglio non ravvivare nuovamente tutta una questione che soltanto molto difficilmente avrebbe potuto condurre a termine allo stremo delle forze in cui si trovava.
FALLIMENTO DELLA CONCILIAZIONE A OGNI COSTO
Queste osservazioni dimostrano quanto sono nefaste le conseguenze di una politica di pace da palude. La pace è reale soltanto quando è alimentata dalla linfa della verità. In caso contrario, è una superficie di tenue vernice sotto la quale la divisione delle intelligenze alimenta e ravviva convulsioni talora vulcaniche. Per mantenere la pace in Francia, Fleury evitò il più possibile il trionfo della verità sull’errore, con una politica di pseudoequilibrio tra l’una e l’altro. Poco più di venti anni dopo, la situazione era tale che al re e al Papa non parve più possibile l’applicazione pura e semplice degli insegnamenti pontifici. Infatti era nato il liberalismo in materia religiosa. Fleury aveva alimentato nel seno della Francia la vipera che l’avrebbe avvelenata nel 1789.
NOTE
(1) Cfr. Emile Appolis, Entre Jansénistes et Costitutionnaires: un tiers parti, comunicazione al IX Congrès Inter. des Sciences Historiques (Paris, 1 settembre 1950), in Annales, aprile-giugno 1951, anno VI, n. 2, 4-171.
(2) Lettera inviata dal vicedelegato di Périgeux all’intendente di Bordeaux.
(3) «Egli sembra proseguire volentieri la politica di concessioni che Benedetto XIII era parso piuttosto subire» (Histoire generale de l’Eglise, L’Ancien Régime, Parigi 1920, pp. 127-8).