1. La golosità è peccato.
2. Disordini e danni della gola.
3. La gola degrada l’uomo.
4. Il dovere della sobrietà.
1. LA GOLOSITÀ
È PECCATO. – Una vita spesa nelle gozzoviglie è in
verità, dice S. Bernardo (Serm. XLVIII,
in Cantic.), «una morte e l’ombra
della morte; poiché una tale vita sta tanto vicino
all’inferno, quanto l’ombra è vicina al corpo che la produce».
Queste parole sono il commento di quella sentenza di S. Paolo: «La
persona che se la gode tra i diletti è morta mentre ancora
vive» (I Tim. V,
6). S. Gerolamo scriveva a Giuliano (Epist.
XXXIV, ad Iulian.): «È
difficile, per non dire impossibile, che uno possa godere dei
presenti e dei futuri piaceri; che si riempia quaggiù il
ventre di vivande e lassù la mente di diletti; che passi dalle
delizie della terra a quelle del cielo»
Il goloso impingua la sua carne
per le fiamme eterne… Un vivere troppo delicato, una mensa troppo
ghiotta, un cibo troppo abbondante conduce alla morte dell’anima bene
spesso e non di rado a quella del corpo; si cangiano queste
allegrezze in una tristezza eterna… Ne abbiamo l’esempio
nell’Epulone del Vangelo, che da una splendida tavola precipitò
nell’inferno.
«Dal troppo
lauto vivere nasce il mal fare», dice il Salmista (Psalm.
LXXII. 7). Deh! non ci cada mai di mente la minaccia di Gesù
Cristo: «Guai a voi che siete satolli, perché avrete
fame!» (Luc. VI,
25).
2. DISORDINI E DANNI
DELLA GOLA. – «Dal solo vizio della gola, dice S. Gregorio,
escono mille eserciti di vizi a combattere contro l’anima (Lib. V, in
Lib. Reg. c. I)»:
la quale dice S. Bernardo, «se si abitua ai ghiotti cibi, si
macchia di molte sozzure (Epist. CLII)».
Gli eccessi della mensa traggono
alla lussuria, alla maldicenza, all’orgoglio, alla collera, agli
spergiuri, alle risse, agli odi, alle dispute…; distruggono la
ragione scrive Teodoreto, e fanno del corpo dell’uomo un sepolcro in
cui egli si corica, vi si chiude e si putrefà.
I principali effetti della gola
sono: 1° di rendere ottuso lo spirito, stupido e inetto
l’uomo…2° Cagiona dolori al capo ed allo stomaco, febbri,
apoplessie, paralisi e vari altri malanni che accorciano la vita…
3° Riduce spesso l’uomo sul lastrico. Donde viene poi il furto,
la disperazione e talvolta il suicidio… 4° Distrugge l’armonia
delle facoltà; spegne le idee nobili e generose: rende l’uomo
petulante, rissoso, provocatore, litigioso… 5° Toglie
l’attitudine e la voglia del lavoro, delle fatiche, dello studio,
della lotta contro le tentazioni del mondo, del demonio, della carne:
in una parola abbrutisce la persona.
I golosi sono
incapaci di disciplina: chiudono il cuore alla grazia divina,
all’azione dei sacramenti e delle verità eterne… La gola è
la perdita della sanità del tempo, dell’onore, della fortuna,
della castità del corpo e dello spirito… «Nessuno,
dice il Crisostomo, è tanto stretto amico del diavolo, quanto
il crapulone, il goloso, perché questo vizio è la
sorgente, il principio, l’origine di tutti i vizi. Il ghiottone non
si differenzia dal demoniaco; egli fa della sua bocca, dei suoi
occhi, del suo odorato e degli altri suoi sensi altrettante
impurissime cloache di voluttà (Homil.
XVIII, in Matth.)».
Vecchiezza prematura,
sensi istupiditi, pensieri languidi e animaleschi, ecco i frutti
della ghiottoneria. Lo spirito è annebbiato, il corpo
rassomiglia a nave logora per lungo uso, che fa acqua da ogni parte e
naufraga per troppo carico… Ora perché, domanda il
Crisostomo, perché v’impiegate voi ad ingrassare il vostro
corpo? non è forse per condurlo alla morte o presentarlo morto
alla mensa? (Homil.
ad pop.).
Gli eccessi della tavola producono
abbondanza di umori morbosi, turbano il sonno, intorpidiscono le
membra, portano con sé infermità e dolori. Tutte le
facoltà dell’anima, volontà, memoria, intelligenza,
tutto si affievolisce, si snerva e scompare.
Il fuoco e l’acqua,
dice S. Bernardo, non possono stare insieme e così le carnali
delicatezze sono incompatibili, nella stessa persona, con le delizie
spirituali. Là dove s’innalza il fumo di ricercati e rari
intingoli, il pane celeste lascia l’anima a dente asciutto (Epist.
III ad Fulcon)».
Tanto più che la raffinata
delicatezza della gola non è mai paga, come già notava
Clemente Alessandrino (Lib. II Stromat.),
ma va di eccesso in eccesso.
S. Agostino crede che
la gola sia stata la madre della lussuria: Per la loro intemperanza,
dice, Adamo ed Eva divengono voluttuosi; finché si contennero
nei limiti della sobrietà e della temperanza, rimasero
vergini; non appena cedono alla golosità, eccoli schiavi della
concupiscenza: per il tempo che furono sobri, si mantennero casti,
poiché la sobrietà è l’amica della verginità,
la nemica della carne corrotta; mentre l’intemperanza tradisce la
castità e fomenta l’impurità (Serm.
LXXVII, de Temp.).
«Chi ama
banchettare andrà mendicando», leggiamo nei Proverbi
(XXI, 17): «e chi nutre con delicatezza il suo schiavo (cioè
la sua carne), lo dovrà sentire ribelle e insolente»
(Id. XXIX, 21). Il
corpo è lo schiavo dell’anima quand’essa lo regge col freno
della temperanza: al contrario l’anima diventa schiava del corpo,
quando la gola fa da padrona. Chi cura troppo la propria carne,
l’avrà ribelle e l’anima ne sarà ben presto ferita a
morte.
Il destino dell’uomo nei disegni del Creatore è
ch’egli viva spiritualmente. L’anima deve comandare la carne; a lei
tocca regnare, al corpo servire e obbedire. L’anima, come spirituale,
deve in certo modo spiritualizzare il corpo. Ora che cosa avviene nel
goloso? La carne regna nell’anima e la rende carnale. O orribile
sconvolgimento! La cura eccessiva del corpo è l’oblio della
virtù: dal momento che si accarezza il corpo, si trascura
l’anima; quando si nutrisce con delicatezza il corpo, l’anima patisce
la miseria e muore di fame. Anche qui si può applicare il
detto di Gesù Cristo: «Nessuno può servire due
padroni a un tempo; se amerà l’uno, odierà l’altro: se
obbedirà l’uno, sprezzerà l’altro» (MAITH. VI.
24).
Cratete, vedendo un
giovine darsi alla gozzoviglia: «Lascia, o misero, gli disse,
di fortificare la prigione contro te stesso (Test.
Maximo, Serm. XXVII)».
«Quando si ha
troppa cura del corpo e lo si ingrassa, l’anima diventa languida e
intorpidita e non può compiere bene le proprie funzioni. Al
contrario, se l’anima è in forze e s’innalza con l’esercizio
delle buone opere alla sua grandezza, ne segue necessariamente che il
corpo venga mortificato (Apud Anton. in
Meliss., p. II, cap. XXXIX) ».
«L’insonnia,
strazi di viscere e dolori saranno le eredità del ghiottone»
(Eccli. XXXI, 23):
«Poiché i molti cibi producono malattie e la golosità
conduce fino alla colica. O quanti furono uccisi dall’intemperanza!
mentre l’uomo sobrio prolunga la sua vita » (Id.
XXXVII, 33-34). La scuola Salernitana dava per avviso, che chi vuole
riposare tranquillo la notte, prenda la sera parco cibo; perché
il molto mangiare diventa allo stomaco un peso soffocante.
I santi Padri non
sanno trovare parole bastanti a sfolgorare questo vizio, mettendo
all’aperto i danni che reca. «Danni e molestie genera spesso la
voluttà», dice Clemente di Alessandria; « ma il
troppo alimento produce sempre cattive voglie, l’oblio dei propri
doveri, la perdita della saviezza (Lib. II
Stromat.), che anzi accascia il corpo, e
abbatte l’anima», soggiunge S. Gerolamo (Epist.
ad Iulian.). S. Gregorio Nazianzeno chiama
vivo sepolcro, il corpo di colui che si empie di cibo e di vino (In Carmin. de diverso vitae generibus);
mette in un fascio la crapula, la lussuria, l’invidia e i demoni,
perché tutti ci tolgono il senno quando ci vincono (In
Tetract.); per lui la gozzoviglia è
madre della vergogna e dell’insolenza (In
Distich.). «Non vi è tiranno
casi esigente come il ventre (De inter. Domo.
cap. XLVI), dice S. Bernardo, e la golosità piomba l’uomo
nell’oblio e nella penuria dei beni eterni» (Serm.
I de Adventu). Perciò
S. Gerolamo saggiamente ammonisce Paolino, di fuggire i conviti, come
se fossero catene di voluttà, di disonore, di ruina (Ep.
XIII).
3. LA GOLA DEGRADA
L’UOMO. – All’uomo dato alla crapula si potrebbe dire con S. Basilio:
«Se in te fosse un’anima da maiale, la tratteresti tu
diversamente? Poiché col non gustare altro se non le vili cose
e col tenere per tuo dio il ventre, diventi tutt’intero carne e
impasto di viziosi affetti (Homil. in
Evang.)». Il Crisostomo sentenzia che
«la crapula cambia gli uomini in porci (Homil.
LVIII, in Matth)». S. Eucherio scrive:
«Le gozzoviglie abbrutiscono l’uomo; questo tale, per nulla si
differenzia dagli animali immondi, poiché pone la sua felicità
nella carne, adora il suo ventre e fa oggetto di sua gloria il fango
e la vergogna (Epist.)».
Il goloso nutrisce e
ingrassa la sua carne per i vermi e la corruzione. Nobile uffizio!
gloriosa occupazione! impiegarsi a preparare un alimento ai vermi! Ah
infelici! quanto più guadagnereste, se dispensaste ai poveri
ciò che consumate in sì vergognosa maniera!… E non è
un’onta empiersi talmente di cibo, da non poterlo più
digerire? A questi tali dice il profeta Habacuc: «Guai a te! e
fino a quando ammassi contro te stesso mucchi di fango?» (II,
6). Ah sì, diciamo pure con Clemente di Alessandria (lib.
II Stromat.), che un tal uomo è un
essere ignobile e degradato; e col Crisostomo, ch’egli è un
mucchio di sterco, una sentina di fetore pestilenziale, peggiore di
un porco; poiché il porco si ravvoltola nel brago e si pasce
di sporcizie, ma il goloso si prepara più abominevole mensa:
egli vive solamente per il ventre ed è morto a tutti gli altri
sensi: più non vede quello che dovrebbe vedere; più non
ode quello che dovrebbe udire; più non dice quello che
dovrebbe dire; vive tutto sepolto nelle orge (Homil.
XLV, in Matth.). Anche San Massimo vede nella
pinguedine un denso fango di cui l’uomo si fabbrica un carcere dove
chiude ed incatena l’anima sua (Anton. in
Meliss. c. XXXIX).
S. Giovanni Climaco
dice con energica frase: «Il goloso si sforza di abbrutire il
suo spirito; getta dell’olio sul fuoco; il suo ventre impinzato
animalizza il cuore (Apud. Anton. in Meliss.
cap. XXXIX). Egli non ha più né anima, né
spirito, dice il Crisostomo. Mangiare a quattro palmenti è
cosa da orso e da leone; ma i dolori, la pesantezza del capo, la
stupidità dello sguardo, la stanchezza delle mani, il tremito,
le strazianti febbri ne sono le conseguenze» (Ut.
sup.).
Sofocle medesimo, parlando dell’uomo dedito ai
piaceri della gola, dice «di non credere che costui viva, ma lo
giudica un cadavere». Dite dunque con un filosofo: «Per
cosa ben più nobile io san nato, che non è quella di
rendermi schiavo del mio corpo (Teste Max. Serm. XXVII)».
La funzione più vile che faccia l’uomo è
quella del mangiare; in ciò non si distingue punto dal bruto.
Perciò chi mette nel cibo la sua felicità, cerca la
felicità delle bestie… Eppure qui il ghiottone mette l’unico
suo piacere!…
«Io ho detto
entro di me, confessa l’Ecclesiaste:
Andrò e mi inebrierò dei piaceri della tavola, godrò
e assaporerò ogni sorta di delizie; ma ho veduto per
esperienza, anche questo essere vanità e fumo» (II, 1).
In fatti, i piaceri della mensa sono pieni di corruzione, vani,
leggeri e di poca durata; il provvederseli costa grandi spese e molta
pena; sono un tossico; una ingiustizia verso i poveri, cui si deve in
coscienza il superfluo.
4. IL DOVERE DELLA
SOBRIETÀ. – Da Adamo sino a Noè, cioè per mille
seicento anni, gli uomini non mangiavano carne, non bevevano vino;
loro nutrimento erano frutti e legumi, loro bevanda l’acqua dei
fonti; e ciò nulla meno essi vivevano novecento anni. La
sobrietà è la madre della sanità, della
saviezza, della santità. «La frugalità, dice il
Crisostomo, è insieme alimento, diletto e sanità
(Homil.)». S.
Agostino confessa di avere imparato dal Signore a servirsi degli
alimenti, come di medicine (Confess.
lib. X, c. XXXI). E Filone dice: «La sanità e il vigore
accompagnano la temperanza» (Apud.
Anton. in Meliss.
c. XXXIX).
Udite a questo
proposito le belle sentenze del Savio: «Il principio della vita
dell’uomo sta nell’acqua, nel pane, nel vestimento» (XXIX, 28).
«L’uomo sobrio godrà di placido sonno, dormirà
fino al mattino e l’anima sua ne sarà ristorata» (XXXI,
4). «Chi vive frugale avrà lunga vita» (XXXVII,
34). La sobrietà è dunque la madre della sanità,
della sapienza, della castità, della longevità, della
santità. Questa verità troviamo anche confermata dai
filosofi pagani, tra i quali Epitteto, per es., lasciò
scritto: «Mentre siedi a tavola, pensa che a due convitati hai
da provvedere, al corpo cioè e all’anima; e che quanto dài
al corpo, entra per uscirne ben tosto; ma quello che dài
all’anima, vi durerà per sempre (Ita
LAERT.)».