GIANSENIO (JANSENS), CORNELIO e GIANSENISMO

  • Categoria dell'articolo:Apologetica

Voce tratta dall’Enciclopedia cattolica, Città del Vaticano 1951

GIANSENIO (JANSENS), CORNELIO e GIANSENISMO


 


1. VITA


Giansenio Cornelio, nipote del precedente, vescovo di Ypres, nacque il 28 ott. 1585 ad Ackoy, villaggio di Leerdam, provincia dell’Olanda meridionale, e morì a Lovanio il 6 maggio 1638. Studiò ad Utrecht nel Collegio di S. Gerolamo, poi a Lovanio presso i Gesuiti. L’Università di Lovanio, detta dal Pallavicino «un grande campo d’arme contro le forze di Lutero» (l. XV, 97), in quegli anni era agitata dalle dispute che le controversie sulla Grazia e sulla predestinazione su­scitavano tra i seguaci di Banez e del Molina. A Lovanio aveva insegnato Baio, e contro Baio s’erano schierati Leonardo Lessio e Giovanni Du Hamel. In questa polemica dottrinale che a Lovanio ferveva sotto il no­me e sulla dottrina di Baio, Giansenio viene introdotto da Giacomo Janson, direttore del Collegio di Adriano VI, e da Du Vergier de Hauranne, celebre abate di St‑Cyran. L’influenza del Du Vergier sarà decisiva e costante nella vita e nell’opera di Giansenio. Quando nel 1604 egli si trasferisce a Parigi, dopo aver ulti­mati i suoi studi filosofici, per completare alla Sorbona quelli teologici, St‑Cyran s’unisce a lui non solo come amico, ma come collaboratore nel desiderio di una riforma teologica morale e disci­plinare della Chiesa ispirandosi soprattutto alle teorie dell’agostinianismo rigido.


Giansenio pensava a liberare la teologia da un preteso filosofismo e razionalismo scolastico; Du Vergier a restituirne la disciplina e la morale nel rigore dei primi secoli. Giansenio era teorico, Du Vergier pratico. Ma un ostacolo sembrava loro impedire la riforma: la Compagnia di Gesù che corrompeva la scienza teologica con il molinismo, la vita cristiana con il probabilismo. La loro riforma avrebbe attaccato la Compagnia di Gesù nei suoi aspetti teologici e morali.


Nel 1617, quando Du Vergier fu eletto abate di St‑Cyran, Giansenio ritornò a Lovanio, dove ricostruì e poi diresse per qualche tempo il Collegio di S. Pulcheria, conseguendo la laurea dottorale in teologia nel 1619, e dal 1630 tenendo la cattedra di S. Scrittura. Nel 1635 fu nominato vescovo di Ypres dalla corte di Madrid, ed in seguito all’approvazione di Urbano VIII, prese nel 1636 possesso della sede episcopale. Ma dopo soli diciotto mesi di ministero, consumato dalle fatiche e dal contagio, moriva piamente. Aveva accolto con simpatia il De republica Christiana di Marcantonio De Dominis, il Sinodo protestante di Dordrecht (1619) il quale ripeteva la dottrina di Calvino contro gli arminiani e i cattolici: e queste accettazioni avrebbero potuto metterlo in sospetto d’eresia; ma insieme aveva pubblicato: Alexipharmacum (Lovanio 1630), che aveva difeso con una Spongia notarum (ivi 1631), contro Gilberto Voet, e Mars gallicus (s. l. 1635), nel primo dei quali difendeva le verità della Chiesa cattolica, negando ai protestanti l’autorità di riformare la Chiesa, e nel secondo, sotto lo pseudonimo di Alessandro Patrizio Armacano, denunciava con pungente satira le alleanze strette dai re di Francia con i protestanti tedeschi, svedesi, olandesi contro una tesi propugnata nel 1634 dal teologo di Lione Besian Arròy. Aggiungeva a queste opere il Tetrateuchus (Lovanio 1639), commentario ai Vangeli, il Pentateuchus (ivi 1641) e Analecta (ivi 1644) commentari cioè al Pentateuco, ai Proverbi, all’Ecclesiaste, alla Sapienza, ad Abacuc, a Sofonia. Nulla quindi di grave o di censurabile si sarebbe potuto citare contro il defunto vescovo di Ypres, se, postumo, non fosse apparso l’Augustinus, seu doctrina s. Augustini de humanae naturae sanitate, aegritudine, medicina adversus Pelagianos et Massilienses (Lovanio 1640), che subito ristampato in Parigi nel 1641 ottenne un incredibile successo di edizioni e di diffusione.


Come nacque l’Augustinus di Giansenio? Vi si può vedere l’ambiguità di un compromesso. Le ragioni di questo compromesso, se partivano da motivi delle controversie dibattute nell’Università di Lovanio, avevano radici ben più lontane e profonde, cioè nelle stesse origini storiche del problema della Grazia quali appaiono nella dottrina di Pelagio e dei predestinaziani. Nella secolare polemica della Grazia e della predestinazione s’introduce l’Augustinus di Giansenio.


Tra il determinismo duro dei predestinaziani e dei riformatori e la dottrina cattolica, Giansenio pone il suo compromesso. Tenta in Agostino un terreno neutro, e getta il suo appello di conciliazione. Era stato preceduto da Baio, la cui lettura è necessaria per chi intenda studiare il movimento giansenista. Giansenio difende Baio così intimamente che, se altre fossero state le circostanze la parola baianesimo avrebbe potuto prendere nel vocabolario teologico il posto oggi occupato dalla parola giansenismo. Da Baio Giansenio imparò lo sforzo d’imporre, in nome di s. Agostino, la propria critica nella Rivelazione, fuori dell’autorità della Rivelazione, studiando la dottrina cattolica della Grazia fuori dei magistero ecclesiastico; o se affermò di affidarsi alla Chiesa, preferì quella antica diffidente della contemporanea. Con Baio credette che i Padri del Concilio di Trento avessero scagliato troppi anatemi contro i riformatori; e non intendendo l’equilibrio saggio delle definizioni conciliari, invece di postillare e giustificare gli articoli della condanna, postillò e giustificò le proposizioni condannate. Di contro alla infallibilità del romano pontefice, come Lutero, seguì il suo personale giudizio critico nella tradizione primitiva, e poiché nella Chiesa antica Agostino dominava con la sua dottrina e i volumi dei riformatori e i trattati cattolici si appoggiavano alla sua autorità e anche il Concilio di Trento più volte lo citava nei suoi decreti, Giansenio tenta di trovare nelle sue opere la carta di riconciliazione in modo più deciso di Baio. Baio infatti era troppo pelagiano per contentare i luterani e troppo luterano per appagare i cattolici. Non piacque agli uni, dispiacque agli altri, concludendo così la storia dell’agostinismo ed iniziando quella del giansenismo.


 


2. LA CONDANNA


Il 10 ago. 1641 la S. Congre­gazione dell’Indice e dell’Inquisizione condannò 18 opere, tra le quali l’Augustinus di C. Giansenio. Con questa condanna s’inizia la storia di un’eresia nata, a credere alle ultime parole del vescovo di Ypres, contro la volontà dei suo fondatore non espressamente eretico. Giansenio infatti nel suo Testamento (che alcuni ritengono falsificato), ma anche più esplicitamente in più luoghi del suo autentico Augustinus (cf., ad es., tomo II, cap. 29) protestava: «Sentio enim aliquid difficulter mutari posse: Si tamen Romana Sedes aliquid mutari velit, sum obediens filius, et illius Ecclesiae in qua semper vixi usque ad hunc lectum mortis obediens sum». « Sentio aliquid difficulter mutari posse» ed «obediens sum» : con un atto di orgoglio e con una protesta di fede s’inizia e si conclude la storia postuma non solo dell’Augustinus, ma di ogni opera giansenista.


L’Augustinus apparve in tre volumi in‑fol. Giansenio vi aveva lavorato ventidue anni, rileggendo dieci, venti e anche trenta volte gli scritti del grande Africano. Il primo tomo è diviso in 8 libri ed espone e confuta l’eresia di Pelagio con l’autorità di s. Agostino. Il secondo tomo, dopo aver delineato i limiti della ragione in teologia e dell’autorità di s. Agostino, tratta dello status naturae lapsae e dello status naturae purae. Il terzo direttamente propone la dottrina sulla Grazia, sulla libertà, sulla predestinazione e riprovazione. Termina con un parallelo critico tra la dottrina riprovata dei Marsigliesi e quella molinista dei Gesuiti. L’Augustinus è dunque prevalentemente un trattato sulla Grazia, una silloge di sviluppi dottrinali sulla Grazia documentati con testi isolati da s. Agostino.


Definendo il metodo della teologia Giansenio dichiara la ragione filosofica «madre di tutte le eresie», chiama gli scolastici «cani che abbaiano nelle scuole», e vi oppone la «memoria», cioè la tradizione. Ma nella tradizione ha poca simpatia per i Padri greci, e di quelli latini non vede che Agostino «Pater Patrum, doctor doctorum, primus post scriptores canonicos, inter omnes vere solidus, subtilis, irrefragabilis, angelicus, seraphicus, excellentissimus et ineffabiliter mirabilis» ecc. Nelle questioni importa unicamente accertare quale sia il parere di s. Agostino e quando s’imbatte in una proposizione condannata: «Quid ad propositionem quam proscripsit Apostolica Sedes? ‑ egli si domanda ‑ Haereo, fateor. Sed quid ad doctrinam Augustini?… Nec enim ego quid verum aut falsum, quid tenendum et non tenendum in Catholicae Ecclesiae doctrina tradidi, sed quid Augustinus tenendum, asseruerit et docuerit». «Si quis vobis annuntiaverit ‑egli ripete parafrasando s. Paolo ‑ praeter id quod ex Augustino accepistis, anatherna sit» (tomo II, l. III, cap. 22; tomo III, cap. I, partitio dicendorum).


Nello stabilire la dottrina sulla Grazia, Giansenio riprende l’interpretazione di Baio, la dottrina del duplice amore (la duplex delectatio). Adamo prima di peccare era libero, poteva peccare perché aveva solo la Grazia sufficiente (detta da Agostino auxilium sine quo non). Dopo il peccato, perde la libertà ed ha bisogno per ogni atto buono della Grazia efficace (auxilium quo) che determini infallibilmente la volontà. L’uomo per il peccato è intrinsecamente corrotto e dominato dalla concupiscenza, e quindi trascinato al male senza potervi resistere, invincibilmente. La sua volontà è dominata dalla cupidità terrena o amore terrestre. Le sue opere non sono che peccati se non interviene la carità o amore celeste a determinare infallibilmente la volontà al bene. Questo duplice amore è il principio della nostra condotta fisica, morale, soprannaturale, e perciò si chiama «delectatio victrix». L’uomo sottoposto alla ferrea legge di un amore invincibile resta così schiavo o della terra o del cielo, senza merito o demerito personale, trascinato al bene o al male, alla salvezza alla dannazione, da un irresistibile diletto celeste terrestre.


Mentre baneziani e molinisti, salvando l’onnipotenza della Grazia e la libertà dell’uomo, ammettono che vi è una Grazia sufficiente, data da Dio a tutti gli uomini la quale conferisce loro il potere prossimo per compiere i comandamenti, e che riceve la sua efficacia o dall’azione soprannaturale in noi (baneziani) o dall’assenso della nostra libertà (molinisti). Giansenio sulle orme di Baio proclama che ogni grazia è efficace e perciò invincibile, e che sotto l’azione della Grazia efficace noi non possiamo fare nulla di nostro. Dio predestina all’inferno o al paradiso con volontà antecedente ad ogni considerazione di merito. Cristo è morto solo per i predestinati, e a loro solo dà la Grazia efficace. Non esiste quindi libertà, e se Giansenio parla di libertà è solo esenzione da violenza esteriore o da coazione fisica.


Tutto l’Augustinus è un immenso arsenale polemico e partigiano, come dimostreranno poi i suoi seguaci, in difesa della duplex delectatio portata al parossismo di un personale pregiudizio; la «magna charta» della teologia del giansenismo che Fénelon giustamente chiamerà «cousin germain du calvinisme».


 


3. SVILUPPI DEL GIANSENISMO


Sembra strano, e nessuno l’avrebbe immaginato, tanto meno Giansenio, che una dottrina così stirata e torva, e tanto diversa dalla dolce vivacità del genio francese, avrebbe incontrato in Francia e nei paesi latini una vasta e fortunosa conquista.


N’è rimasto sorpreso il Bremond: «J’attribuirai la naissance du jansénisme, à une sorte de génération spontanée. Le nez de Cléopatre… le jansénisme historique est pour moi un véritable monstre. En tant que monstre il n’a pu devoir sa naissance qu’à de bizarres et imprévisibles rencontres». Era invece il naturale rifugio degli insoddisfatti, degli scontenti in Francia e nel Belgio dopo la condanna dei calvinismo, di quanti cioè, senza pregiudicarsi con l’autorità civile ed ecclesiastica, vedevano nella dottrina di Giansenio un compromesso tra cattolicesimo e protestantesimo.


Inoltre le teorie di Giansenio poterono per alcuni spiriti insofferenti rappresentare la parte migliore della Riforma cattolica; i quali deviarono però il desiderio di una rinascita morale e religiosa ‑ che era necessaria ed urgente in quel secolo e in quella società ‑ nella scelta del principio riformatore, preferendo ai canoni del Concilio di Trento e all’autorità del pontefice romano gli equivoci della riforma e il criterio personale d’interpretazione e di giudizio.


Se tuttavia questo clima sociale e spirituale favorì lo sviluppo dell’eresia, incontri imprevedibili, come afferma il Bremond, facilitarono il suo cammino. Il giansenismo trova infatti nella psicologia piuttosto che nella metafisica religiosa la sua ragione di esistenza. Gli anatemi di Roma che segnano la progressiva morte delle altre eresie, divengono, per un periodo di tempo, la sua fortuna. Anzi nasce, si rivela, si consolida, tesse la sua storia nelle date e nelle forme delle diverse condanne pontificie. Quando i Gesuiti ebbero fra mano alcuni fogli di stampa dell’Augustinus, subito lo denunziarono. Urbano VIII si affrettò a proibire la continuazione della stampa che era curata in segreto da Fromond e da Calenus. Ma nonostante l’opposizione dei Gesuiti, dell’internunzio di Bruxelles, dell’Università di Lovanio, la stampa si continuò e si compì sotto la protezione del card. Ferdinando, infante di Spagna e governatore dei Paesi Bassi, al quale fu dedicata, ed uscì con i privilegi del re di Spagna e dell’imperatore Ferdinando III concessi nel gen. 1638 e nel feb. 1640, e con la censura favorevole di Enrico Calenus e di Giacomo Pontano che dichiaravano l’opera «celeste… necessaria ed utilissima alla Chiesa… conforme alla dottrina di s. Agostino». La diffusione e le ristampe furono molte, anche in Roma nel 1643 incontrando la più varia ed accesa polemica.


Saint‑Cyran affermava che dopo s. Paolo e s. Agostino, Giansenio era il terzo che aveva «parlato più divinamente della Grazia e creato il libro di devozione dei novissimi tempi». Rimessa l’opera al giudizio della S. Congregazione dell’Indice il 10 giugno 1643 fu condannata prima con un decreto dell’Inquisizione (4 marzo 1641), poi con la bolla In eminenti di Urbano VIII redatta da Francesco Albizzi (6 marzo 1642), con la cost. Cum occasione di Innocenzo X (31 maggio 1653), e infine con l’altra Ad Sacram beati Petri Sedem di Alessandro VII (16 ott. 1656).


Innocenzo aveva nominato cinque cardinali e tredici teologi per esaminare l’Augustinus. L’esame durò più di due anni in 36 sessioni. Alle prime dieci sessioni intervenne anche il Papa. Era consentito ai difensori di Giansenio sostenere la propria causa, ma la loro difesa non eluse la condanna che venne inclusa nelle cinque seguenti proposizioni che dichiarò temerarie, empie, blasfeme, degne di scomunica, eretiche (cf. Denz‑U, 1092‑96):
1) Alcuni precetti di Dio sono impossibili nonostante il buon volere degli uomini giusti, secondo le presenti forze della natura, perché manca ad essi quella Grazia che li rende possibili;
2) Alla Grazia interiore nello stato di natura decaduta non si resiste mai;
3) Per acquistare merito o demerito non si richiede la libertà dalla necessità interna, ma soltanto la libertà dalla coazione esterna;
4) I semipelagiani ammettevano per i singoli atti anche all’inizio della fede la necessità della Grazia interiore preveniente, ed erano eretici in quanto concedevano alla volontà umana il potere di resistere o di obbedire alle Grazia;
5) E’ un errore semipelagiano affermare che Cristo è morto per tutti.
Ma questa condanna non turbò gravemente gli ammiratori di Giansenio, alcuni dei quali volevano appellare dal Papa ad un Concilio ecumenico. Il Papa a loro giudizio era un incompetente. Ma tale appello avrebbe pregiudicato ancor più l’Augustinus.


Questa polemica con Roma rese più viva la controversia, allargando l’aspetto dogmatico dell’eresia nascente, inizialmente soteriologico, ad accogliere errori ecclesiastici come quello di ridurre il potere pontificio (il Papa era concepito primus inter pares tra i vescovi, primo per dignità non per autorità, inferiore e subordinato al Concilio ecumenico). Ma le teorie di Giansenio dovevano trovare il loro teatro di prova, la loro attuazione pratica a Port‑Royal in Parigi.


 


4. PORT‑ROYAL


Port‑Royal segna il passaggio dell’eresia giansenistica da un aspetto teologico ad una forma polemica ed ascetica non molto dissimile dallo scisma.


Già le condanne avevano rivelato l’ambiguità dell’Augustinus e della fede dei giansenisti, figli ribelli e insofferenti che non vogliono abbandonare la casa e vivono in famiglia in continuo litigio.


Il giansenismo si manifesta infatti una eresia in casa, uno scisma in famiglia.


Ma di questa ribellione in famiglia Saint‑Cyran incontrerà in Parigi il diplomatico controversista nella persona di Antonio Arnauld, sottile e astuto disquisitore che insegnerà al giansenismo la sua indefinibile tattica polemica. Autore della Logique de Port‑Royal, avvocato difensore dell’Augustinus, egli conosce le tergiversazioni, le amfibologie, gli equivoci della difesa e dell’offesa. Egli organizzò le idee giansenistiche, infuse loro un’anima, ne creò un sistema. Alla teologia unì l’ascetica, alla riforma dogmatica sulla Grazia associò un riforma sacramentale, pur non chiarendo mai le sue opinioni personali. Egli insegnò a non scoprirsi, a spargere nelle pagine in difesa dell’eresia osservazioni ortodosse e incensurabili. Se qualche volta è sospetto, subito se n’accorge, pronto ad affermare il contrario. Con Arnauld la parabola centrifuga dell’eresia ha il suo termine. Parte da Giansenio, il teologo, passa per Saint‑Cyran, l’ipermistico, si conclude in Arnauld, il diplomatico controversista. Si devono a lui le tergiversazioni alle condanne pontificie, per le quali Port‑Roval resterà celebre. Amauld ammoniva: «ne répondre jamais absolument, mais toujours par si. Par là on ne s’engagera à rien».


Perciò alla condanna delle cinque proposizioni, a quelli che chiamavano il Papa incompetente e volevano appellare ad un Concilio ecumenico, consigliò di condannare, insieme al Papa, le cinque proposizioni. Negava però che si trovassero nell’opera di Giansenio o, nel caso che vi si trovassero, affermava che non erano dannabili nel senso dell’autore, che era quello di s. Agostino, che il Papa senza dubbio non aveva riprovato né poteva riprovare.


Trentotto vescovi allora, coadiuvati da molti teologi, il 28 marzo 1654 dichiararono che le cinque proposizioni erano state insegnate da Giansenio e nel senso di Giansenio erano state condannate. Il Papa definì espressamente: «Quinque illas propositiones ex libro praememorati Comelii Jansenii Episcopi Yprensis, cui titulus Augustinus, excerptas ac in sensu ab codem Cornelio intento damnatas fuisse, declaramus et definimus».


Ma non bastò. In due lettere in difesa del duca di Liancourt nel feb. del 1655 Arnauld distingueva tra questione di diritto e questione di fatto. La Chiesa, il papa, è infallibile quando giudica delle questioni di dogma o di morale contenute nella Rivelazione e nella esposizione della loro dottrina (quaestio iuris), non nel giudizio portato sulla dottrina di un libro di un autore umano o sopra il vero senso che questi abbia dato alle sue parole (quaestio facti). Nella quaestio iuris è prescritto l’interiore assenso alle decisioni della Chiesa; nella quaestio facti la Chiesa non ha potere; al massimo può esigere un rispettoso silenzio (silentium obsequiosum). Del resto, aggiungeva con spirito tutto giansenistico, a s. Pietro, nella caduta, mancava la Grazia necessaria.


Insieme ad Arnauld assertore di questa politica equivoca è Pietro Nicole, al quale si debbono le opere: Les imaginaires ou lettres sur l’hérésie imaginaire e Tractatus de distinctione iuris et facti in causa janseniana, fondamentali per comprendere i raggiri e gli artifizi del giansenismo.


Dall’eresia si declina verso lo scisma, dall’errore sulla dottrina della Grazia all’errore sull’infallibilità pontificia. Il papa può condannare infallibilmente una dottrina come eretica, ripete Nicole, non determinare infallibilmente che quella dottrina si trova in un libro (Augustinus); le cinque proposizioni condannate non si trovano nell’Augustinus o almeno nel senso nel quale sono state condannate. Il papa è male informato o, se bene informato, non è infallibile per sé ma solo con il consenso della Chiesa universale. E se questo consenso è raggiunto (come nel Concilio di Trento) ci s’appella ad un concilio futuro (pronti a riappellarsi ancora all’infinito), come ci si appella alla disciplina della Chiesa antica per sovvertire la disciplina della Chiesa contemporanea.


Non s’accorgevano i giansenisti insistendo sul movimento riformatore d’autonomia della ragione dalla Fede di mettere insieme alla fede cattolica in agonia la propria fede.


A difesa di Arnauld, suo amico, anche Blaise Pascal rimase impigliato negli intrighi del partito giansenista. Aveva in Port‑Royal la sorella Jacqueline «sa directrice» com’egli la chiama. Per amore della sorella e per un impegno d’amicizia con Arnauld scrisse un «pamphlet», una apologia letteraria di Port‑Royal, una requisitoria antimolinista, Les provinciales (1656‑57), che potrebbero definirsi il piacere dello scherno canonizzato ai danni della Compagnia di Gesù. Ma Pascal come NicoIe ben presto compresero che tutta questa polemica diveniva «una pura commedia e uno scherzo di cattivo gusto» (Nicole) e che non si poteva fare «un idolo della stessa verità, perché la verità fuori della carità non è Dio, ed è immagine e idolo che non bisogna né amare né adorare» (Pascal), e si ritirarono dalle sottili e raffinate sottigliezze che non riuscivano a salvare né la carità né la verità.


 


5. DA PORT‑ROYAL A PISTOIA


Era naturale che allontanandosi dall’autorità spirituale della Chiesa il giansenismo cadesse, per sopravvivere, alla potenza temporale, dello Stato e a forme di superstizione. Alla prima fase della storia del giansenismo, imperniata sulla Grazia, la predestinazione ed il rigorismo sacramentale, ne succede così una seconda nella quale teologia e morale sembrano annegare nelle teorie gallicane ed in manifestazioni ipermistiche.


La polemica di Port‑Royal che continuava quella protestante gettando lo scherno sul magistero ecclesiastico ne aveva preparata la via. Già nel Petrus Aurelius di Saint‑Cyran si ritrovano essenzialmente le teorie di Richer e De Dominis, del Pithou e De Marca.


Il card. Richelieu aveva saldato la Francia in unità politica e religiosa, ma insieme aveva acuito il desiderio del re di Francia di prendere la Chiesa sotto la sua protezione. Roma appariva quasi una potenza straniera, e il gallicanesimo tentò di assoggettarla all’assolutismo statale di Luigi XIV. Sotto l’insegna del sentimento nazionale si divinizzarono forme storiche e politiche ai danni della dottrina e della vita cattolica e soprannaturale, le quali accomunarono il giansenismo con il protestantesimo presso le corti gallicane.


Se, come Lutero, il giansenismo aveva abbattuto ogni autorità in materia di fede, e a somiglianza del calvinismo aveva assunto un carattere democratico e rivoluzionario, con il criticismo ecclesiastico, poi, tanto affine al libero esame, spingeva non solo alla negazione della verità rivelata, ma alla ricerca di un punto d’appoggio al succedersi degli anatemi di Roma.


Per continuare nel loro criticismo e stornare o almeno salvaguardarsi dalle condanne pontificie, i giansenisti ripiegarono in un ibridismo religioso, che li costrinse ad una doppia vita. Non si può infatti confondere giansenismo e gallicanesimo. I veri giansenisti mal sopportavano l’autorità e l’infallibilità pontificia, ma erano pure insofferenti di ogni ingerenza statale, e quando si volsero verso i Parlamenti lo fecero per rifuggire le condanne ecclesiastiche.


Avevano però un punto comune: il papa è inferiore al concilio; le decisioni del papa, anche in materia di fede, non sono irreformabili se non dopo il consenso della Chiesa.


Se i giansenisti trovavano nei gallicani un rifugio, i gallicani trovavano nei giansenisti un pretesto. Ragioni nazionali e ragioni teologiche, e più ancora ragioni polemiche li resero vicini ed amici, tanto amici da crederli gemelli nati da uno stesso letto, ma la diversità esisteva. Bossuet, gallicano, fu sempre avversario dei Gesuiti. I gallicani, eredi di Filippo il Bello, sono decisi; i giansenisti, seguaci dì Arnauld, temporeggiano, non amano compromettersi, prendere posizione.


Si ripete che se le dottrine di Baio e di Giansenio si accostarono allo spirito gallicano fu per opera di Pascasio Quesnell. Non è esatto. L’unione fra i due moti è dovuta alla particolare situazione politico‑religiosa determinatasi in seguito alle lotte giurisdizionali tra la Corte francese e Roma. Le sue Réflexions morales (1671) ne sono una chiara testimonianza. Esse in forma capziosa ripeterono esattamente la dottrina di Giansenio e di Arnauld riaccendendone le controversie. Furono proibite da Clemente X nel 1675, ma tale proibizione dette luogo ad un pullulare di opuscoli polemici e non impedì che Quesnell, rivedendole e ampliandole, le ripubblicasse più volte e in diversi formati.


Tra tanta letteratura polemica destò rumore un opuscolo pubblicato nel 1702 dal titolo Un caso di coscienza se cioè si dovesse assolvere chi mantenesse un «ossequioso silenzio» circa la condanna delle cinque proposizioni. Clemente XI il 12 feb. 1702 proscrisse anche l’ossequioso silenzio e tre anni dopo (16 luglio 1705) confermò con la bolla Vineam Domini (Denz‑U, 1350) le condanne dei suoi predecessori.


Le monache di Port‑Royal, rimasto come centrale di propaganda e «foyer d’agitation frondeuse», le quali si opposero alla bolla pontificia, furono disperse e il monastero per decreto reale fu raso al suolo 1710).


Ma le Réflexions di Quesnell per decenni tennero vive le questioni gianseniste presso i Parlamenti, i vescovi, gli Ordini religiosi e il clero secolare, soprattutto per l’atteggiamento equivoco del card. Noailles che, dopo averlo approvato, aveva preso le difese del libro di Quesnell. Richiesto un intervento diretto e decisivo della S. Sede questo venne l’8 set. 1713 con la bolla Unigenitus (Denz‑U, 1351‑1451) che condannava 101 proposizioni di Quesnell, cioè tutta la dottrina teologica, ascetica, morale, ecclesiastica dei giansenismo. Si appellò da parte di alcuni giansenisti ad un Concilio ecumenico (1717) creando così il partito degli appellanti scomunicati da Clemente XI con la bolla Pastoralis officii (1718).


Dopo la morte del reggente Filippo d’Orléans (1723) e del Noailles (1729) i giansenisti ebbero l’unico appoggio nel Parlamento e così ribelli, faziosi divennero una setta politica‑filosofico‑religiosa con un accento sempre più aggressivo contro la teologia, la morale e la pietà della Compagnia di Gesù, in modo particolare contro il probabilismo e la devozione al S. Cuore di Gesù. Organo dei partito diventano dal 1727 le Nouvelles ecclésiastiques e punto di riferimento morale la Chiesa scismatica di Utrecht.


Il movimento dei convulsionari di S. Medardo e il figurismo contribuirono a separare piuttosto che ad unire gli animi (degenerando la dottrina in fatti e credenze superstiziose) nella controversia religiosa che perdurò per tutto il Settecento e nella quale s’immischiarono i Parlamenti finché Benedetto XIV nel 1756 non rinnovò le proibizioni della bolla Unigenitus.


Durante la Rivoluzione Francese, Grégoire, Mouton ed altri pochi preti giacobini ripeteranno nomi e fatti giansenistici, ma il vero giansenismo è ormai sopraffatto dalle nuove teorie illuministiche.


 


6. GIANSENISMO ITALIANO


La diaspora giansenistica, se è vasta individualmente, socialmente presenta solo due comparse territoriali: a Utrecht, e più propriamente a Pistoia.


Ma in Utrecht i giansenisti riconoscono solo un rifugio morale e ricevono un incitamento nella lotta con Roma. Sommersi dalle condanne essi si volgono ai vescovi scismatici olandesi per simpatia di persecuzione, come sogliono dire, identità di martirio per la verità, contro la tirannide romana.


In Italia invece l’eresia giansenistica sembra assumere un aspetto di continuità. Insieme al pensiero filosofico e scientifico entrano per vie parallele alla fine del Seicento, ma soprattutto nel Settecento, le questioni religiose. Port‑Royal è conosciuto attraverso Les provinciales di Pascal, e il giansenismo viene preparato dalle polemiche antigesuitiche, dalla politica gallicana delle corti, dalle controversie sulla Grazia e sulla morale.


Le figure ecclesiastiche più notevoli alle quali si deve un orientamento giansenistico, sebbene nessuno dei tre si professasse e fosse giansenista, sono il card. Noris, Fulgenzio Belelli, Lorenzo Berti, agostiniani, detti semigiansenisti perché affermavano la necessità della Grazia non ex necessitate, ma solo ex decentia. Difendevano cioè il sistema agostiniano rifiutando però l’interpretazione di Giansenio. Accusati di baianismo e di giansenismo energicamente si difesero contro queste accuse. Era loro intenzione insistere sulla distinzione dei due stati prima e dopo la caduta. Prima della caduta, dicevano, Adamo, sotto l’influenza di una grazia versatile poteva liberamente determinarsi al bene o al male; dopo la caduta, la scelta non è possibile che sotto l’influenza di una Grazia efficace ab intrinseco, tale cioè che dia possibilità e atto. L’efficacia di questa Grazia consiste nella dilettazione, non già relativa ossia per superiorità di gradi, ma assolutamente vittoriosa, per cui Dio muove infallibilmente la volontà al libero consenso. Vi è una Grazia sufficiente (auxilium sine quo) cui si può resistere e che rimane senza effetto se non sopravviene l’aiuto medicinale della Grazia efficace (auxilium quo).


Il Berti tiene a rilevare costantemente le differenze che separano, secondo la sua opinione, il suo dal sistema di Giansenio. La dilettazione ‑ egli afferma ‑ non viene necessariamente, ma infallibilmente senza offendere la libertà dell’uomo. Non solo presso gli Agostiniani, ma anche presso prelati come Giovanni Bottari e Francesco Foggini e presso cardinali come il Passionei trovano simpatia gli antigesuiti, i rigoristi, gli appellanti francesi; e in genere presso i Filippini. A Roma infatti all’Archetto e all’Oratorio nel Settecento si incontrano, allacciano relazioni e amicizie i principali giansenisti italiani: Tamburini, Zola, Scipione de’ Ricci, Serrao, G. Capecelatro.


Roma rappresenta nella prima metà del Settecento la fase formativa, anche se sotterranea, timida e incerta, del giansenismo italiano che troverà poi nella seconda metà dei secolo la generazione dei ribelli nei due cenacoli principali di Pavia e di Pistoia. Pavia centro di dispersione di idee con Pietro Tamburini, Pistoia campo di esperienza con Scipione de’ Ricci. Ma giansenisti si trovano pure a Genova; per citare solo alcuni nomi : Palmieri, Degola, Solari; a Napoli: Serrao, Capecelatro, Simioli, Natale; a Torino, a Milano, a Venezia.


Il giansenismo italiano è infatti un fenomeno aristocratico di piccoli gruppi, non un largo movimento come in Francia penetrato quasi in tutti gli strati sociali; non ha carattere unitario e originale ma varia da regione a regione, e spesso da persona a persona; non possiede che scarsi fondamenti teologici e motivi dottrinali. Alle dottrine primitive di Giansenio, di Saint‑Cyran, di Arnauld preferisce lo spirito quale si rivela in Quesnell e Duguet, derivando immediatamente dagli appellanti francesi tramite il conte Dupac de Bellegarde e i missionari della Chiesa scismatica di Utrecht, e accogliendo elementi febroniani, richeriani e illuministi.


Si ha così un giansenismo regalistico a Milano e a Pavia, un giansenismo rivoluzionario e repubblicano a Genova e un giansenismo ecclesiastico e liturgico a Pistoia. Unisce cioè un problema religioso (religione e Chiesa da riformare) ad uno sociale e politico (aspetto non giansenistico dell’eresia, ma pietra d’appoggio). Gli Annali ecclesiastici, sul tipo dell’omonima rivista francese, testimoniano come la teologia e la morale fossero travolte da preoccupazioni politiche e giurisdizionali. Diritto e teologia cambiano con gli avvenimenti, pur rimanendo negli epigoni la fede nelle teorie dei tre padri del giansenismo tradizionale.


In Austria e in Lombardia il punto di appoggio del giansenismo fu Giuseppe II, a Napoli il Tanucci, in Toscana Pietro Leopoldo (1765‑90). Scipione de’ Ricci ne divenne il fedele ministro di Grazia e di giustizia. Collaborano insieme, seppure con fine diverso: Leopoldo per scopi politici, Ricci per illusione religiosa. Nascono così le riforme ecclesiastiche, che, per opera del vescovo, ebbero Pistoia per centro sperimentale.


Ma non mancarono altri vescovi, come mons. Sciarelli vescovo di Colle e mons. Pannilini vescovo di Chiusi e Piacenza, a dare alle riforme un aspetto regionale.


Vi contribuivano, oltre alle due tipografie vescovili Bracali in Pistoia e Vestri a Prato, altri centri di propaganda editoriale a Torino, Venezia, Lugano, Firenze, Napoli, Pavia. Riforme in parte lodevoli, ma minate da un sottile veleno scismatico ed ereticale che ebbe la sua concreta attuazione nel Sinodo di Pistoia, nel 1786, alla presenza di 234 preti detti «padri del Concilio ». Il Sinodo doveva preparare l’assemblea dei vescovi e degli arcivescovi della Toscana per sfociare in un Concilio nazionale e forse in una Chiesa separata, sul tipo di quella di Utrecht, alla quale il Ricci e gli altri giansenisti italiani erano devoti. L’Assemblea tenuta in Firenze nel 1787 fece fallire il piano scismatico per l’opposizione dei vescovi. Il popolo che non capiva le questioni teologiche ed era infastidito dalle riforme liturgiche si ribellò in una serie di tumulti che obbligarono il Ricci e gli altri riformatori a ritirarsi, e il governo granducale a prendere provvedimenti.


Ma il Sinodo in Francia, in Spagna, in Austria, in Olanda aveva riacceso speranze nei giansenisti. La S. Sede, richiesta di un giudizio definitivo, il 28 ago. 1794 promulgò la bolla Auctorem Fidei, redatta dal card. Gerdil che condannava in 85 proposizioni, esposte in 44 titoli a seconda della diversità delle materie tutti gli errori ereditari e avventizi del giansenismo (Denz‑U, 1501‑99). Ad evitare la malignità dei giansenisti con una condanna in globo, come nella bolla Unigenitus, si condannò ciascuna asserzione con le proprie qualifiche e con i molteplici sensi che essa poteva presentare. Sette proposizioni furono condannate come eretiche, le altre proscritte con diverse attribuzioni. Fu la pietra tombale del giansenismo.


Quel carattere spiccatamente illuministico che il giansenismo ebbe fra noi, unito ad un desiderio di riforma dottrinale e disciplinare, interiore e morale, sopravvive in Eustachio Degola, il quale sulla fine del Settecento e all’inizio dell’Ottocento si sentiva solo, per «l’estrema penuria dei successi dei maccabei portorealisti».


A Parigi Saint‑Severin, la Chiesa parigina degli ultimi giansenisti, si fa sempre più deserta. I dispersi giansenisti s’affidano al clero costituzionale della Rivoluzione.


Anche Ricci pensa ad una possibile restaurazione, ma è solo un vano miraggio. Quando il 29 ott. 1809 «gli amici della verità» indicono un pellegrinaggio sulle rovine di Port‑Royal, Degola ne tesse un panegirico, ma ormai si vive di memorie, di ricordi. Su quelle rovine sosterà il genovese dal 1801 al 1810 malinconicamente tra rovi, pietre e ruderi, misurando il terreno, rilevando disegni, scoprendo pietre tombali, prendendo appunti, scrivendo anche poesie. Morto il Ricci, con Eustachio Degola si spegne il giansenismo congiungendo nella stessa memoria le rovine materiali di Port‑Royal con quelle spirituali e simboliche del Sinodo di Pistoia.


Se nel Risorgimento italiano affiorano ancora nomi, carteggi e dottrine di alcuni giansenisti, il legame può riconoscersi nel carattere non giansenistico del giansenismo italiano, cioè nella comune seppure non univoca concezione del potere temporale del papa. Vi influirono senza dubbio altre cause come un sistema democratico della vita e della politica, un nuovo indirizzo della filosofia e dei problemi religiosi, e soprattutto un’acre antipatia verso la Curia Romana.


I liberali vedevano infatti nel potere temporale un impedimento all’unità politica nazionale, il giansenismo ad una riforma religiosa. Così si spiega la storiografia pregiudiziale che esaltò ed esalta tutti i ribelli a Roma come fossero puri spiriti e martiri della libertà. Qualche traccia giansenistica restò anche nel rigorismo sacramentale di alcune diocesi, nella concezione tragica della natura umana in alcune opere letterarie, nello spirito anticurialistico dei politicanti, nel criticismo religioso dei liberi pensatori, ma come germi respirati nell’aria e germogliati in un clima e in un terreno già preparato da altre dottrine e da altre rivoluzioni.


 


7. GIUDIZIO SUL GIANSENISMO


Com’era nato e preparato alla macchia nella redazione e nella stampa dell’Augustinus, così rimase nella Chiesa nemico invisibile e indefinibile, anche se partecipò alle rivoluzioni politico‑religiose degli Stati.


Indivisibile e indefinibile, ma non un «fantòme» come insinuerà Arnauld, non una «hérésie imaginaire», come ripeterà Nicole. Dovranno sperimentarlo il card. Richelieu quando tenterà di stroncarlo incarcerando l’abate di Saint‑Cyran, e Luigi XIV quando sopprimerà prima e distruggerà poi il monastero di Port-Royal.


Tutto un vocabolario, tutto un frasario di luoghi comuni è da rivedere sul giansenismo presso storici e letterati antichi e moderni. Il giansenismo non è moto politico, una scuola di filosofia e di vita religiosa, una accademia di eruditi, la lotta contro il barocco e la retorica, il ritorno al senso misurato e storico dei Greci, l’illuminata ribellione ad una fastosità morale e razionale o un tema suggestivo d’amore nella cultura; è una eresia o meglio un complesso di errori teologici, una deviazione dal dogma, dalla morale e dalla disciplina ecclesiastica.


La sua spina dorsale è formata dalla teologia della Grazia (Giansenio), dalla morale sacramentaria (Arnauld), dalla prassi disciplinare e spirituale (Saint‑Cyran) e dalla polemica diplomatica che la regge e difende (Quesnell). Ma uno non esclude l’altro, lo include.


Condannato, il giansenismo assume aspetti scismatici a Port‑Royal, a Utrecht, a Pistoia. Per necessità di vita s’accompagna ora al gallicanesimo, ora al giurisdizionalismo, ora ad un ibridismo filosofico e religioso, ora a revisioni illuministiche, a motivi cioè esteriori, ma l’anima ne è il desiderio di una riforma, un atto di conciliazione tra calvinismo e cattolicesimo, una sopravvivenza larvata del protestantesimo, e le questioni fondamentali sono la predestinazione, la corruzione della natura umana, la dottrina sull’efficacia della Redenzione, il ritorno alla disciplina della Chiesa primitiva, un rigorismo morale e sacramentale.


Movente: l’odio alla Compagnia di Gesù. Ma sarebbe un grosso abbaglio credere col Gazier, per antitesi, il giansenismo un mostro creato dai Gesuiti e comparabile agli ippogrifi e ai liocorni. I Gesuiti furono i nemici più intolleranti dei giansenisti per la stessa ragione che i giansenisti erano i loro accesi avversari: non per un motivo personale o di casta e neppure solo per una controversia disciplinare o morale, ma per una ragione teologica, la stessa ragione teologica della Riforma cattolica.


L’Augustinus sopravvive infatti nel clima del protestantesimo: nella stessa sfiducia della ragione filosofica circa l’esposizione dei dogmi, nel positivo sentimento di aver le chiavi della tradizione, nello spirito critico dei libero pensiero circa la fede nel reputarsi direttamente illuminati da Dio e depositari della verità, nell’assurdo religioso che mescola per opportunità teologia e politica, nell’affermazione di un assenso interiore e invisibile, nel credersi di rappresentare la parte migliore di un cristianesimo decadente, nella ribellione ad ogni forma di autorità ecclesiastica come norma della fede e dell’imposizione del proprio personale giudizio, nella accusa di casistica quando si parla di volontarietà morale, e di tirannide quando si parla di disciplina.


Ma più appare la duplex delectatio in certe durezze spirituali della letteratura moderna, come nei romanzi del Bernanos e dei Mauriac; la letteratura psicanalistica sembra chiudere il ciclo della delectatio terrestris nel sesso divinizzato, come quella autonoma e angelica fissare la delectatio caelestis, nel verbo umano elevato a divinità.


Presenza antiumanistica che rese sempre il giansenismo una eresia individuale, mai sociale. La sua storia è storia dei singoli giansenisti, una silloge di biografie annotate da una cronaca di avvenimenti avvolti in una psicologia religiosa nella quale prendono forma, nei vari incontri e nelle varie comparse territoriali, errori teologici e morali, sociali e ecclesiologici.


Nelle riforme che il giansenismo desiderò ed attuò specialmente in Italia non tutto è condannabile, né tutto fu condannato. Anzi in alcune riforme prevenne i tempi, ma lo spirito che le animava pretendeva un rinnovamento della Chiesa fuori della Chiesa. Da Baio al Sinodo di Pistoia c’è infatti una continuità segreta di dottrina e di metodo, e chi voglia comprendere la natura e la storia del giansenismo piuttosto che alla biografia dei suoi protagonisti, che vivono d’equivoci e di raggiri, deve fissarsi nello studio dei testi, opere incriminate e documenti di condanna.


Di queste soprattutto è da consigliarsi la lettura a quanti desiderano una conoscenza dottrinale dell’eresia giansenista.


 


BIBLIOGRAFIA:


I. Carreyre. Jansénisme, in DThC, VIII, coll. 318‑529., id. Pistoie (Sinode de). ibid.. XII, coll. 2176‑99; A. de Becdelièvre, Jansénisme, in DFC, II, coll. 1153‑92: Pastor. XIII‑XVI; L. Mozzi. Storia delle rivoluzioni della Chiesa di Utrecht, 3 Voll., Venezia 1788; E. Picot, Mémoires pour servir à l’histoire ecclésiastique pendant le XVIIIe siècle. 7 voll., Parigi 1853‑57; R. Rapin. Mémoires sur l’Eglise et la société, la Cour, la ville et le jansénisme, 3 voll., ivi 1863; G. Ingold. L’oratoire et le jansénism, ivi 1880; id., Rome et la France. La seconde phase du jansénisme, ivi 1901; M. Paquier, Le jansénisme. étude doctrinale. ivi 1909; H. Bremond, Histoi