Di Adolfo Tanquerey PARTE PRIMA I principii. Capitolo IV. Dell’obbligo di tendere alla perfezione. Art. II. Dell’obbligo per i religiosi di tendere alla perfezione. Obbligo fondato sui voti. II. Obbligo fondato sulle Costituzioni e sulle Regole. Art. III. Dell’obbligo per i sacerdoti di tendere alla perfezione. I. L’insegnamento di Gesù e di S. Paolo. II. L’autorità del Pontificale.
ART. II.
DELL’OBBLIGO PER I RELIGIOSI DI TENDERE
ALLA PERFEZIONE. 367-1
367. Vi sono tra i cristiani di
quelli che, volendo darsi più perfettamente a Dio e assicurarsi più
efficacemente la salute dell’anima, entrano nello stato religioso. Questo stato
è, secondo il Codice di Diritto canonico, 367-2 “un modo stabile di vivere in comune, nel
quale i fedeli, oltre ai precetti comuni, prendono ad osservare anche i consigli
evangelici facendo i voti di obbedienza, di castità e di povertà”.
Che i Religiosi siano tenuti, in virtù del loro stato, a tendere
alla perfezione, è unanime dottrina dei teologi; e ciò che il Codice
pure rammenta dichiarando che “tutti e ciascuno dei religiosi, tanto i superiori
quanto gli inferiori, devono tendere alla perfezione del loro
stato” 367-3. Quest’obbligo è talmente grave che S. Alfonso de’ Liguori non esita a dire che un religioso
pecca
mortalmente se prende la ferma risoluzione di non tendere alla perfezione o
di non darsene alcun pensiero 367-4. Con ciò infatti manca gravemente al
dovere del proprio stato, che è precisamente di tendere alla perfezione. È anzi
per questa ragione che lo stato religioso vien detto stato di perfezione,
vale a dire stato ufficialmente riconosciuto dal Diritti Canonico come uno
stabile genere di vita in cui uno si obbliga ad acquistare la perfezione.
Non è quindi necessario aver acquistato la perfezione prima d’entrarvi, ma vi si
entra appunto per acquistarla, come bene osserva
S. Tommaso 367-5.
L’obbligo per i religiosi di tendere alla perfezione si fonda su due ragioni
principali:
-
1° i
voti;
-
2° le
costituzioni e regole.
I. Obbligo fondato sui voti.
368. Chi si fa religioso intende di
darsi e di consacrarsi più perfettamente a Dio: per questo fa i tre voti. Ora
questi voti obbligano ad atti di virtù che non sono comandati, e che sono tanto
più perfetti in quanto che il voto all’intrinseco loro valore aggiunge quello
della virtù della religione; e hanno pure il vantaggio di sopprimere o per lo
meno di attenuare alcuni degli ostacoli maggiori alla perfezione. Il che
intenderemo meglio toccando in particolare di questi voti.
369. 1° Col voto di povertà
si rinunzia ai beni esterni che si possedono o che si potessero
acquistare; se il voto è solenne, si rinunzia al diritto stesso di
proprietà, per modo che tutti gli atti di proprietà che si volessero poi fare,
sarebbero canonicamente nulli, come il Codice dichiara al can. 579; se il
voto è semplice, non si rinunzia al diritto di proprietà ma al libero
uso di questo diritto, di cui non si può usare che col permesso dei
Superiori e nei limiti da essi fissati.
Questo voto ci aiuta a vincere uno dei grandi ostacoli alla perfezione: lo
smoderato amore delle ricchezze e i fastidi causati dall’amministrazione dei
beni temporali; onde è un gran mezzo di progresso spirituale. D’altra parte
impone penosi sacrifici, perchè non si ha quella sicurezza e
quell’indipendenza che viene dal libero uso dei propri beni; si devono talora
soffrire certe privazioni imposte dalla vita comune; è penoso e umiliante il
ricorrere a un Superiore ogni volta che si ha bisogno di cose necessarie. Vi
sono dunque in ciò atti di virtù a cui uno si è obbligato per voto e che non
solo ci fanno tendere alla perfezione ma vi ci avvicinano.
370. 2° Il voto di castità ci
fa trionfare di un secondo ostacolo alla perfezione: della concupiscenza della
carne; e ci libera dalle occupazioni e dagli affanni della vita di famiglia. È
ciò che fa rilevare S. Paolo quando dice: “Chi è senza moglie, si da
pensiero delle cose del Signore, del come piacere a Dio: chi è ammogliato, si da
invece pensiero delle cose del mondo, del come piacere alla moglie, e resta
diviso” 370-1. Ma il voto di castità non toglie la
concupiscenza, e la grazia che ci vien data per osservarlo non è grazia di
riposo ma grazia di lotta. Per serbarsi continenti tutta la vita, bisogna
vigilare e pregare, cioè mortificare i sensi esterni e la curiosità, reprimere i
traviamenti dell’immaginazione e della sensibilità, condannarsi a una vita
laboriosa, e sopratutto dare interamente il cuore a Dio con la pratica della
carità, cercar di vivere in intima e affettuosa unione con Nostro Signore, come
diremo parlando della castità. Ora è chiaro che l’operare così è un tendere alla
perfezione, è un rinnovare incessantemente gli sforzi per vincere se stessi e
padroneggiare una delle più violente tendenze della corrotta nostra natura.
371. 3° L’obbedienza va
ancora più in là, sottomettendo non solo a Dio ma anche alle Regole e ai
Superiori ciò che più ci preme, la nostra volontà. Infatti col voto d’obbedienza
il Religioso si obbliga a obbedire agli ordini del suo legittimo Superiore in
tutto ciò che riguarda l’osservanza dei voti e delle costituzioni. Ma per
costituire un obbligo grave, occorre un ordine formale e non un semplice
consiglio; ciò che si conosce dalle formole usate dal Superiore, per esempio se
comanda in nome o in virtù di santa ubbidienza, in nome di Nostro
Signore, o intimando un precetto formale, o usando altra espressione
equivalente. Vi sono certamente dei limiti a questo potere dei Superiori:
bisogna che comandino secondo la regola, “restringendosi a quanto vi si
trova formalmente o implicitamente inchiuso, come sarebbero le costituzioni, gli
statuti legittimamente stabiliti per procurarne l’osservanza, le penitenze
inflitte per punire le trasgressioni e prevenire le ricadute, tutto ciò che
riguarda il modo di ben adempiere gli uffici e una buona e retta
amministrazione” 371-1.
Ma, non ostante queste restrizioni, resta pur sempre vero che il voto
d’obbedienza è uno di quelli che costano di più alla natura umana, appunto
perchè molto ci preme l’indipendenza della nostra volontà. Per osservarlo, ci
vuole dell’umiltà, della pazienza, della dolcezza; bisogna mortificare la
vivissima propensione che abbiamo a criticare i Superiori, a preferire il
giudizio nostro al loro, a seguire i nostri gusti e talora i nostri capricci.
Vincere queste tendenze, piegare rispettosamente la volontà a quella dei
Superiori vedendo Dio in loro, è certamente tendere alla perfezione, perchè è
coltivare alcune delle virtù più difficili; ed essendo la vera ubbidienza la
miglior prova d’amore, equivale in sostanza a crescere nella virtù della carità.
372. Come si vede, la fedeltà ai
voti inchiude non solo l’osservanza delle tre grandi virtù della povertà, della
castità e dell’ubbidienza, ma anche di molte altre che servono alla loro tutela;
e l’obbligarsi ad osservarli è certamente un obbligarsi a un grado di perfezione
poco comune. Il che risulta pure dal dovere di osservare le Costituzioni.
II. Obbligo fondato sulle Costituzioni e sulle
Regole.
373. Chi entra nello stato
religioso, si obbliga con ciò stesso a osservarne le Costituzioni e le Regole,
che sono spiegate nel corso del noviziato prima della professione. Ora qualunque
sia la Congregazione che uno abbraccia, non ce n’è alcuna che non si proponga
per fine la santificazione dei suoi membri, e che non determini, talvolta in
modo molto particolareggiato, le virtù che si devono praticare e i
mezzi che ne agevolano l’esercizio. Chi è sincero si obbliga quindi ad
osservare, almeno sostanzialmente, questi diversi regolamenti, e con ciò ad
elevarsi a un certo grado di perfezione; perchè, quand’anche non si pratichino
le regole che all’ingrosso, ci sono pur sempre molte occasioni di mortificarsi
in cose che non sono di precetto; e lo sforzo che per questo si è obbligati a
fare è uno sforzo verso la perfezione.
374. Qui si presenta la questione se
le mancanze alle regole religiose siano peccato o semplice imperfezione.
Per rispondervi bisogna fare varie distinzioni.
a) Vi sono regole che prescrivono la fedeltà alle virtù di
precetto o ai voti, o i mezzi necessari per osservarli, come sarebbe la
clausura per le comunità claustrali. Coteste regole obbligano in coscienza,
appunto perchè non fanno che promulgare un obbligo risultante dagli
stessi voti; infatti facendoli uno si obbliga ad adempierli e ad usare i mezzi
necessari per la loro osservanza. Obbligano sotto pena di peccato grave o
leggiero, secondo che grave o leggiera ne è la materia. Sono quindi regole
precettive, e in certe Congregazioni sono nettamente indicate sia
direttamente, sia indirettamente, con una sanzione grave che implica una colpa
dello stesso genere.
375. b) Vi sono invece regole
che o esplicitamente o implicitamente sono date come puramente direttive.
1) Il mancarvi senza ragione è certamente un’imperfezione morale; ma non è
in sè peccato neppur veniale, non essendovi violazione d’una legge o d’un
precetto. 2) Tuttavia S. Tommaso 375-1 fa giustamente notare che si può peccar
gravemente contro la regola se si viola per disprezzo (disprezzo della
regola o dei Superiori); leggermente, se si viola per negligenza volontaria, per
passione, per collera, per sensualità, o per qualsiasi altro motivo peccaminoso;
in tali casi la colpa sta nel motivo. Si può aggiungere con S. Alfonso che
la colpa può essere grave quando le mancanze sono frequenti e deliberate, sia
per lo scandalo che ne risulta e che induce gradatamente un notevole
indebolimento della disciplina, sia perchè il colpevole s’espone così a farsi
cacciare dalla Comunità con gran detrimento dell’anima.
376. Ne consegue che i Superiori
sono obbligati per dovere del proprio stato a fare diligentemente osservare le
regole, e che chi trascura di reprimere le trasgressioni anche leggiere della
regola, quando tendono a diventare frequenti, può commettere colpa grave, perchè
promuove in tal modo il rilassamento progressivo, che in una comunità è grave
disordine. Tale è la dottrina del De Lugo, di S. Alfonso,
dello Schram 376-1 e di molti altri teologi.
Del resto il vero religioso non fa tutte queste distinzioni ma osserva la
regola più esattamente che può, sapendo che è questo il mezzo migliore di
piacere a Dio: “Qui regulæ vivit Deo vivit, vivere in conformità della
regola è vivere per Dio”. Parimenti non si contenta di osservar puramente i voti
ma ne pratica anche lo spirito, sforzandosi di progredire ogni giorno più verso
la perfezione, secondo le parole di S. Giovanni: “Chi è santo si santifichi
di più”; e allora s’avverano per lui le parole di S. Paolo: “Chi seguirà
questa regola godrà la pace e potrà fare assegnamento sulla divina misericordia,
pax super illos et misericordia” 376-2.
ART. III.
DELL’OBBLIGO PER I SACERDOTI DI TENDERE ALLA
PERFEZIONE 377-1.
377. I sacerdoti, in virtù del loro
ministero e della missione che loro incombe di santificare le anime, sono
obbligati a una santità interiore più perfetta di quella dei semplici
religiosi non elevati al sacerdozio. Tal è l’espressa dottrina di
S. Tommaso, confermata dai più autentici documenti ecclesiastici:
“quia per sacrum ordinem aliquis deputatur ad dignissima ministeria, quibus
ipsi Christo servitur in sacramento altaris; ad quod requiritur major sanctitas
interior, quam requirat etiam religionis status” 377-2. I Concilii, massime quello di
Trento 377-3, i Sommi Pontefici, specialmente
Leone XIII 377-4 e Pio X 377-5, insistono tanto sulla necessità della
santità per sacerdote, che il negare la nostra tesi sarebbe un mettersi
in flagrante contraddizione con queste irrefragabili autorità. Ci basti
ricordare che Pio X, in occasione del cinquantesimo anniversario del suo
sacerdozio, pubblicò una lettera indirizzata al clero cattolico, ove dimostra la
necessità della santità per sacerdote e indica esattamente i mezzi
necessari per acquistarla, mezzi che, a dirlo di passata, sono quelli stessi che
inculchiamo noi nei nostri Seminarii. Dopo aver descritto la santità interiore
(vitæ morumque sanctimonia), dichiara che sola questa santità ci
rende quali la divina nostra vocazione richiede: uomini crocifissi al
mondo, rivestiti dell’uomo nuovo, che non aspirino se non ai beni celesti e che
si studino con ogni mezzi possibile d’inculcare agli altri gli stessi principi:
“Sanctitas una nos efficit quales vocatio divina exposcit: homines videlicet
mundo crucifixos… homines in novitate vitæ ambulantes… qui unice in cælestia
tendant et alios eodem adducere omni ope contendant”.
378. Il Codice sancì queste idee di
Pio X, insistendo, più che l’antica legislazione non facesse, sulla
necessità della santità pel sacerdote e sui mezzi di praticarla. Dichiara
nettamente che “gli ecclesiastici devono condurre una vita interiore ed
esteriore più santa dei laici e dar loro buon esempio con le virtù e le buone
opere”. Aggiunge che i Vescovi devono fare in modo “che gli ecclesiastici
s’accostino frequentemente al Sacramento della Penitenza per purificarsi delle
loro colpe; che ogni giorno attendano per un po’ di tempo all’orazione mentale,
visitino il SS. Sacramento, recitino il rosario in onore della Vergine
Madre di Dio, e facciano l’esame di coscienza. Almeno ogni tre anni, i preti
secolari devono fare, in una casa pia o religiosa, gli esercizi spirituali per
quel tempo che verrà stabilito dal Vescovo; nè potranno esserne dispensati se
non in casi particolari, per ragioni gravi e coll’espressa licenza
dell’Ordinario. Tutti gli ecclesiastici, massime i sacerdoti, sono obbligati in
modo particolare a porgere al proprio Ordinario rispetto e
obbedienza 378-1.
Del resto la necessità pel sacerdote di tendere alla perfezione si prova:
-
1° con
l’autorità di Nostro Signore e di San Paolo;
-
2° col
Pontificale;
-
3° dalla
natura stessa degli uffici sacerdotali.
I. L’insegnamento di Gesù e di
S. Paolo.
379. 1° Nostro Signore
insegna eloquentemente, così con gli esempi che con le parole, la necessità
della santità pel sacerdote.
Ne dà l’esempio. A) Egli, che fin
da principio era pieno di grazia e di verità, “vidimus eum… plenum gratiæ
et veritatis”, volle sottomettersi in quanto poteva, alla legge del
progresso: “progrediva, dice S. Luca, in sapienza, in età, in grazia
davanti a Dio e davanti agli uomini: “proficiebat sapientiâ et ætate et
gratiâ apud Deum et homines” 379-1. E per trent’anni si venne preparando al
suo ministero pubblico con la pratica della vita nascosta e con tutto ciò che le
è connesso: preghiera, mortificazione, umiltà, obbedienza. Tre parole
compendiano trent’anni della vita del Verbo Incarnato: “Erat subditus
illis” 379-2. Per predicare più efficacemente le virtù
cristiane, cominciò col praticarle: “cœpit facere et
docere” 379-3; tanto che avrebbe potuto dire di tutte
le virtù ciò che disse della dolcezza e dell’umiltà: “discite a me quia mitis
sum et humilis corde” 379-4. Quindi, verso il fine della vita,
dichiara con tutta semplicità che si santifica e si sacrifica (la parola
sanctifico ha questo doppio senso) perchè i suoi apostoli, e i suoi
sacerdoti loro successori, si santifichino anch’essi in tutta verità: “Et pro
eis ego sanctifico me ipsum ut sint et ipsi sanctificati in
veritate” 379-5. Ora il sacerdote è il rappresentante di
Gesù Cristo sulla terra, è un altro Cristo: “pro Christo ergo legatione
fungimur” 379-6. Anche noi dobbiamo quindi tendere
incessantemente alla santità.
380. B) La qual cosa del
resto risulta pure dagl’insegnamenti del Maestro. Durante i tre anni
della vita pubblica, il grande suo lavoro è la formazione dei Dodici:
questa l’occupazione principale, non essendo la predicazione al popolo che un
accessorio e, some a dire, un modello del come i suoi discepoli avrebbero poi
dovuto predicare. Dal che derivano le seguenti conclusioni:
a) Gli altissimi insegnamenti sulla beatitudine, sulla santità
interiore, sull’abnegazione, sull’amor di Dio e del prossimo, sulla pratica
dell’obbedienza, dell’umiltà, della dolcezza e di tutte le altre virtù così
spesso inculcate nel Vangelo, sono certamente rivolti a tutti i cristiani che
aspirano alla perfezione, ma prima di tutto agli Apostoli e ai loro
successori: sono essi infatti gli incaricati d’insegnare ai semplici
fedeli questi grandi doveri, più con l’esempio che con le parole, come il
Pontificale rammenta ai diaconi: “Curate ut quibus Evangelium ore
annuntiatis, vivis operibus exponatis”. Ora, come tutti convengono,
quest’insegnamenti formano un codice di perfezione e di altissima
perfezione. I sacerdoti sono dunque obbligati, per dovere del proprio stato, ad
accostarsi alla santità.
381. b) Agli Apostoli
in modo tutto particolare e ai sacerdoti sono dirette quelle esortazioni
a maggior perfezione contenute in molte pagine del Vangelo: “Voi siete il sale
della terra… voi siete la luce del mondo: Vos estis sal terræ… Vos estis
lux mundi” 381-1. La luce di cui si parla non è
soltanto la scienza, ma è pure e principalmente l’esempio che
illumina e stimola più della scienza: “Risplenda la vostra luce dinanzi agli
uomini, affinchè, vedendo le vostre opere buone, glorifichino il Padre vostro
che è nei Cieli: Sic luceat lux vestra coram hominibus, ut videant opera
vestra bona, et glorificent Patrem vestrum qui in cælis
est” 381-2. A loro pure in modo speciale si
rivolgono i consigli sulla povertà e sulla continenza, perchè, in
virtù della loro vocazione, sono obbligati a seguir Gesù Cristo più da vicino e
sino alla fine.
382. c) Vi è poi una serie
d’insegnamenti che sono direttamente ed esplicitamente riservati
agli apostoli e ai loro successori 382-1: quelli che Gesù dà ai Dodici e ai
Settantadue inviandoli a predicare nella Giudea e quelli che disse nell’ultima
Cena. Ora questi discorsi contengono un codice di perfezione sacerdotale così
alta da risultarne per i sacerdoti uno stretto dovere di tendere incessantemente
alla perfezione. Dovranno infatti praticare il disinteresse assoluto, lo
spirito di povertà e la povertà effettiva, contentandosi del necessario,
lo zelo, la carità, la piena dedizione, la pazienza
e l’umiltà in mezzo alle persecuzioni che li aspettano, la
fortezza per confessar Cristo e predicare il Vangelo a tutti e contro
tutti, il distacco dal mondo e dalla famiglia, il portamento della croce e la
perfetta abnegazione 382-2.
383. Nell’ultima
Cena 383-1 Gesù dà loro quel comandamento nuovo che
consiste nell’amare i fratelli come li ha amati lui, cioè sino alla intiera
immolazione; raccomanda la fede viva, una piena confidenza nella preghiera fatta
in suo nome; l’amor di Dio che si manifesti nell’osservanza dei precetti; la
pace dell’anima per accogliere e gustare gl’insegnamenti dello Spirito Santo;
l’intima e abituale unione con lui, condizione essenziale di santificazione e
d’apostolato; la pazienza in mezzo alle persecuzioni del mondo che odierà loro
come odiò il Maestro; la docilità allo Spirito Santo che verrà a consolarli
nelle tribolazioni; la fermezza nella fede e il ricorso alla preghiera in mezzo
alle prove: in una parola le essenziali condizioni di quella che oggi chiamiamo
vita interiore o vita perfetta. E termina con quella preghiera
sacerdotale, piena di tanta tenerezza, con cui domanda al Padre di custodire
i suoi discepoli come li custodì lui nella sua vita mortale; di preservarli dal
male in mezzo a quel mondo che devono evangelizzare e di santificarli in
tutta verità. Questa preghiera ei la fa non solo per gli Apostoli, ma anche
per tutti coloro che crederanno in lui, affinchè siano sempre uniti coi vincoli
della fraterna carità come unite sono le tre divine persone, che siano tutti
uniti a Dio e tutti uniti a Cristo “affinchè l’amore con cui tu amasti me sia in
loro e io in essi”.
Non è questo in intiero programma di perfezione, anticipatamente tracciatoci
dal Sommo Sacerdote, di cui siamo i rappresentanti sulla terra? E non è cosa
consolante il sapere che pregò perchè potessimo attuarlo?
384. 2° S. Paolo quindi s’ispira a
quest’insegnamento di Gesù quando a sua volta descrive le virtù apostoliche.
Dopo aver notato che i sacerdoti sono i dispensatori dei misteri di Dio, i suoi
ministri, gli ambasciatori di Cristo, i mediatori tra Dio e gli uomini, enumera
nelle Epistole Pastorali le virtù di cui devono essere ornati i diaconi, i
presbiteri e i vescovi. Non basta che abbiano ricevuto la grazia
dell’ordinazione, ma devono risuscitarla, farla rivivere, per tema che
diminuisca; “Admoneo te ut resuscites gratiam quæ est in te per impositionem
manuun mearum” 384-1. I diaconi devono essere casti e pudici,
sobri, disinteressati, prudenti e leali, esperti nel governare la loro casa con
prudenza e dignità. Più perfetti ancora devono essere i presbiteri e i
vescovi 384-2: la loro vita dev’essere talmente pura da
riuscire irreprensibili; devono quindi attentamente combattere l’orgoglio, la
collera, l’intemperanza, la cupidigia, e coltivare le virtù morali e teologali,
l’umiltà, la sobrietà, la continenza, la santità, la bontà, l’ospitalità, la
pazienza, la dolcezza, e massime la pietà che giova a tutto, la fede e la
carità 384-3. Bisogna anzi dar l’esempio di queste
virtù e praticarle quindi in alto grado: “In omnibus teipsum præbe exemplum
bonorum operum” 384-4. Tutte queste virtù suppongono nello
stesso tempo il possesso di un certo grado di perfezione e lo sforzo generoso e
costante verso la perfezione.
II. L’autorità del Pontificale.
385. Sarebbe facile dimostrare che i
Padri, commentando il Vangelo e le Epistole, svolsero e determinarono questi
insegnamenti; potremmo anzi aggiungere che scrissero Lettere e
Trattati intieri sulla dignità e santità del
sacerdozio 385-1. Ma, per non dilungarci di troppo,
staremo paghi a citare l’autorità del Pontificale che è come il Codice
sacerdotale della Nuova legge e contiene il compendio di ciò che la Chiesa
Cattolica vuole dai suoi ministri. Questa semplice esposizione mostrerà quale
alto grado di perfezione si richiede dagli Ordinandi e a più forte ragione dai
sacerdoti che esercitano il ministero 385-2.
386. 1° Dal giovane tonsurato
la Chiesa richiede il totale distacco da tutto ciò che è di ostacolo
all’amor di Dio, e l’intima unione con Nostro Signore, per combattere le
inclinazioni dell’uomo vecchio e rivestirsi delle disposizioni dell’uomo nuovo.
Il Dominus pars, che deve recitare ogni giorno, gli rammenta che
Dio e Dio solo è la sua porzione e la sua eredità e che tutto ciò
che non si riferisce a Dio dev’essere calpestato. L’Induat me gli dice
che la vita è un combattimento, una lotta contro le inclinazioni della
guasta natura, uno sforzo per coltivare le virtù soprannaturali piantateci
nell’anima nel giorno del battesimo. Gli viene così proposto fin da principio
come scopo l’amor di Dio, come mezzo il sacrificio, com
l’obbligo di perfezionare queste due disposizioni per potersi avanzare nel
chiericato.
387. 2° Con gli Ordini
Minori, il chierico riceve un doppio potere, uno sul corpo
eucaristico di Gesù, l’altro sul suo corpo mistico, cioè sulle anime; e da lui
si richiede, oltre il distacco, un doppio amore, l’amore del Dio del
tabernacolo, e l’amor delle anime, che suppongono entrambi il
sacrificio.
Quindi, come ostiario, si distacca dalle occupazioni domestiche per
diventare il custode ufficiale della casa di Dio e per invigilare sulla decenza
del luogo santo e delle sacre suppellettili. Lettore, si distacca dagli
studi profani per darsi alla lettura dei Libri santi da cui attingere quella
dottrina che l’aiuterà a santificare sè e gli altri. Esorcista, si
distacca dal peccato e dai suoi residui per sottrarsi più sicuramente al dominio
del demonio. Accolito, si distacca dai piaceri sensuali per
praticare già quella purità che è richiesta dal servizio degli altari. Si
rinvigorisce nello stesso tempo il suo amore per Dio: ama il Dio del
tabernacolo di cui è il custode, ama il Verbo nascosto sotto la corteccia della
lettura nella Sacra Scrittura, ama Colui che impera agli spiriti malvagi, ama
Colui che s’immola sugli altari. E quest’amore fiorisce in zelo: ama le
anime che gode di portare a Dio con la parola e con l’esempio, di
edificare con le virtù, di purificare con gli esorcismi, di santificare con la
parte che prende nel Santo Scarifizio. S’avanza così a poco a poco verso la
perfezione.
388. 3° Il suddiacono,
consacrandosi definitivamente a Dio, s’immola per suo amore, preludendo così,
come già fece la SS. Vergine, a quel più nobile sacrifizio che offrirà più
tardi al Santo Altare: præludit meliori quam mox offeret hostiam. Immola
il corpo col voto di continenza, l’anima con l’obbligo di recitare ogni
giorno la pubblica preghiera. La continenza suppone la mortificazione dei
sensi interni ed esterni, della mente e del cuore, la recita dell’ufficio
richiede lo spirito di raccoglimento e di preghiera, lo sforzo perseverante per
vivere unito a Dio. L’uno e l’altro dovere non si può fedelmente adempiere senza
un ardente amore a Dio, che solo gli può proteggere il cuore contro le
lusinghe dell’amor sensibile e aprirgli l’anima alla preghiera col raccoglimento
interno. Sacrifizio ed amore richiede dunque per sempre la Chiesa
dal suddiacono. Sacrificio più profondo di quello praticato fin allora,
perchè la pratica della continenza per tutta la vita esige in certi giorni
sforzi eroici e abitualmente poi un assiduo spirito di vigilanza, d’umile
diffidenza di sè e di mortificazione; sacrificio irrevocabile: “Quod si hunc
Ordinem susceperitis, amplius non licebit a proposito resilire, sed Deo, cui
servire regnare est, perpetuo famulari”. E perchè questo sacrificio sia
possibile e durevole, bisogna mettervi di molta carità: soltanto
l’intenso amore di Dio e delle anime può preservare dall’amore profano, può far
gustare le dolcezze dell’assidua preghiera, rivolgendo i pensieri e gli affetti
verso Colui che solo può appagarli. Quindi il Pontefice invoca su di lui i doni
dello Spirito Santo perchè possa adempire gli austeri doveri che gli
sono imposti.
389. 4° Dai diaconi, che
diventano i cooperatori del sacerdote nell’offerta del S. Sacrifizio, “comministri et cooperatores estis corporis et sanguinis Domini”, il
Pontificale richiede una purità ancor più perfetta: “Estote nitidi, mundi,
puri, casti”. E avendo essi il diritto di predicare il Vangelo, si vuol da
loro che lo predichino più con l’esempio che con la bocca: “curate ut
quibus Evangelium ore annuntiatis, vivis operibus exponatis”. La loro vita
deve quindi essere una traduzione vivente del Vangelo, e perciò una
costante imitazione di Nostro Signore. Onde il Pontefice, pregando perchè lo
Spirito Santo discenda sopra di loro con tutti i suoi doni, specialmente con
quello della fortezza, rivolge a Dio questa bella preghiera: “Abundet
in eis totius forma virtutis, auctoritas modesta, pudor constans, innocentiæ
puritas, et spiritualis observantia disciplinæ”. Non è questo un chiedere
per loro la pratica delle virtù che conducono alla santità? Infatti nella
preghiera finale il vescovo domanda che siano ornati di tutte le virtù
“virtutibus universis… instructi”.
390. 5° Eppure esige ancora qualche
cosa di più dal sacerdote. Offrendo il santo sacrifizio della
messa, è necessario che il sacerdote sia insieme vittima e
sacrificatore; e lo sarà immolando le sue passioni: “Agnoscite quod
agitis; imitamini quod tractatis; quatenus mortis dominicæ mysterium
celebrantes, mortificare membra vestra a vitiis et concupiscentiis omnibus
procuretis”; lo sarà rinnovando continuamente in sè lo spirito di
santità: “innova in visceribus eorum spiritum sanctitatis”. A tal fine
mediterà giorno e notte la legge di Dio, per insegnarla agli altri e praticarla
egli stesso e dare così l’esempio di tutte le cristiane virtù; ut in lege tua
die ac nocte meditantes, quod legerint, credant; quod crediderint, doceant; quod
docuerint, imitentur; justitiam, constantiam, misericordiam, fortitudinem,
ceterasque virtutes in se ostendant”. E dovendosi pure spendere per le
anime, praticherà la carità fraterna sotto forma di dedizione: “accipe
vestem sacerdotalem per quam caritas intelligitur”; come S. Paolo, si
spenderà intieramente per le anime: “omnia impendam et superimpendar ipse pro
animabus vestris” 390-1. Il che del resto deriva pure dagli
uffici sacerdotali che ora esporremo.
391. Così dunque ad ogni nuova tappa
verso il sacerdozio, il Pontificale richiede sempre maggior virtù, maggior
amore, maggior sacrificio; giunto poi al sacerdozio, vuole senz’altro la
santità, come dice S. Tommaso 391-1, affinchè il sacerdote possa offrir
degnamente il santo sacrificio e santificare le anime che gli sono affidate.
L’Ordinando è libero di andare avanti o no; ma se riceve gli ordini, è chiaro
che accetta le condizioni così esplicitamente fissate dal Pontefice, vale a dire
l’obbligo di tendere alla perfezione, obbligo che non solo non viene diminuito
dall’esercizio del santo ministero ma diventa anzi più urgente come
dimostreremo.
NOTE
367-1 Codex, can. 487-672;
S. Tommaso, IIª IIæ, q. 24, a. 9;
q. 183, a. 1-4; q. 184-186; Suarez, De Religione,
tr. VII; S. Alfonso, l. IV, n. 1 sq.; S. Fr di Sales,
I veri trattenimenti spirituali; Vermeersch, De religiosis;
Valuy, Les vertus
religieuses; Gautrelet, Traité de l’état religieux; Mons.
Gay, De la vie et des vertus chrétiennes, Tr. II; J. P.
Mothon, Traité sur l’état religieux, 1923.
367-2 Canone 487.
367-3 Canone 593.
367-4 “Peccat mortaliter
religiosus qui firmiter statuit non tendere ad perfectionem, vel nullo modo de
eâ curare” (Theol. moralis, l. IV, n. 18).
367-5 “Unde non oportet quod
quicumque est in religione, jam sit perfectus, sed quod ad perfectionem tendat.”
Sum. theol., IIª IIæ, q. 186, a. 1, ad 3.
370-1 I Cor., VII, 32-33.
371-1 Valuy, Les Vertus
religieuses, 19ª ediz. riveduta da Vulliez-Sermet, p. 106. Per
esser valido in foro esterno, il precetto dev’essere intimato in
scritto o davanti a due testimoni (Cod., can. 24).
375-1 Sum. theol., IIª
IIæ, q. 18, a. 9, ad 1 et 3.
376-1 Communis est theologorum
sententia prælatum graviter peccare, si culpas veniales et
transgressiones sanctæ regulæ, alioquin forte sub peccato non obligantis,
corrigere negligat, quia ait Lugo (De just. et jure, disp. 9,
sect. 3, n. 21): per hujusmodi defectus toleratos observantia
regularis maxime labefactatur. Cujus exempla affert in transgressione silentii,
lectionis, ingressus in aliorum cellas, etc.” Schram, Instit. Theol.
myscticæ, § 665, Scholion.
376-2 Galat., VI, 16.
377-1 Oltre gli autori citati, cfr.
Arvisenet, Memoriale vitæ sacerdotalis; Molina Certisono,
L’instruction des prêtres, 2ª Traité; J.-J. Olier, Traité des
SS. Ordres; Tronson, Esami particolari; Dubois, Il santo Prete;
Caussette, Manrèse du
Prêtre; Gibbons, L’Ambasciatore di Cristo (Marietti, Torino);
Giraud, Prêtre et hostie; Manning, L’eterno Sacerdozio;
Lelong, Le Prêtre; Card. Mercier, La Vita interiore (Vita e Pensiero, Milano).
377-2 Sum. theol., IIª
IIæ, q. 84, a. 8.
377-3 Sess. XXII. de Reform.
c. 1.
377-4 Enciclica Quod multum,
22 agosto 1886; Lettera enc. Depuis le jour, 8 sett. 1899.
377-5 Exhortatio ad clerum
catholicum, 4 agosto 1908. Tutta la lettera è da leggersi.
378-1 Can. 124-127.
379-1 Luc., II, 52.
379-2 Luc., II, 51.
379-3 Atti, I, 1.
379-4 Matth., XI, 29.
379-5 Joan., XVII, 19.
379-6 II Cor., V, 20.
381-1 Matth., V, 13-14.
381-2 Matth., V, 16.
382-1 Delbrel, S. J., Jésus, éducateur des Apôtres, c. IV-VI.
382-2 Matth., X, XI; Luc., IX, X, etc.
383-1 Joan., XIV-XVII.
384-1 II Tim., I, 6; II
Tim., III, 8-9.
384-2 Tit. I, 7-9: “Oportet
enim episcopum sine crimine esse, sicut Dei dispensatorem: non superbum, non
iracundum, non vinolentum, non percussorem, non turpis lucri cupidum;
sed hospitalem, benignum, sobrium, justum, sanctum, continentem, amplectentem
eum qui secundum doctrinam est, fidelem sermonem, ut potens sit exhortari in
doctrinâ.”
384-3 I Tim., VI, 11. “Sectare
vero justitiam, pietatem, fidem, caritatem, patientiam, mansuetudinem.”
384-4 Tit., II, 7.
385-1 La maggior parte di questi
trattati furono raccolti in un’opera intitolata Le Prêtre d’après les
Pères, dal Raynaud, 12 in 8°, Parigi, 1843. Si vedano pure numerosi
testi nel libro di L. Tronson, “Forma cleri”.
385-2 Per la spiegazione del
Pontificale, cfr. J.-J. Olier, op. cit.; Bacuez,
Istruzioni e Meditazioni ad uso degli Ordinandi; Giraud, op.
cit., t. II; Gontier, Explication du Pontifical.
390-1 II Cor., XXI, 15.
391-1 “Ad idoneam executionem ordinum
non sufficit bonitas qualiscumque, sed requiritur bonitas excellens; ut sicut
illi qui ordinem suscipiunt, super plebem constituuntur gradu ordinis, ita et
superiores sint merito sanctitatis”, (S. Thomas, Suppl.,
q. 35, a. 1, ad 3.)
Quest’edizione digitale preparata da Martin Guy <martinwguy@yahoo.it>.
Ultima revisione: 3 marzo 2006.