Di Adolfo Tanquerey. Parte seconda. Le Tre Vie. LIBRO III. Capitolo I. Della via unitiva semplice. V. Il dono della scienza. VI. Il dono dell’intelletto. VII. Il dono della sapienza. § III. Ufficio dei doni nell’orazione e nella contemplazione. Nota: I cinque sensi spirituali e i doni. § IV. Dei frutti dello Spirito Santo e delle beatitudini. I. I frutti dello Spirito Santo. II. Le beatitudini.
V. Il dono della scienza.
1339. Osservazioni sui tre doni
intellettuali. Col dono della scienza siamo ai tre doni intellettuali
che più direttamente concorrono alla contemplazione: il dono della
scienza, che ci fa giudicar rettamente delle cose create nelle loro
relazioni con Dio; il dono dell’intelletto, che ci palesa l’intima
armonia delle verità rivelate; il dono della sapienza, che ce le fa
giudicare, apprezzare, gustare, secundum quamdam connaturalitatem ad
ipsas, come dice S. Tommaso 1339-1. Tutti e tre hanno questo di comune, che ci
danno una conoscenza sperimentale o quasi sperimentale, perchè ci fanno
conoscere le cose divine non per via di ragionamento ma per mezzo di un lume
superiore che ce le fa afferrare come se ne avessimo l’esperienza. Questo lume
comunicatoci dallo Spirito Santo è certamente il lume della fede, ma più attivo
e più illuminante che non sia abitualmente e che ci dà come una specie di
intuizione di queste verità, simile a quella che abbiamo dei primi
principi 1339-2.
1340. 1° Natura. La scienza di
cui qui parliamo, non è la scienza filosofica che si acquista colla
ragione, neppure la scienza teologica che si acquista col lavorìo della
ragione sui dati della fede, ma la scienza dei Santi che ci fa sanamente
giudicar delle cose create nelle loro relazioni con Dio.
Si può quindi definire il dono della scienza un dono che,
sotto l’azione illuminatrice dello Spirito Santo, perfeziona la virtù della
fede, facendoci conoscere le cose create nelle loro relazioni con Dio.
Perchè, dice l’Olier 1340-1, “Dio è un essere che riempie ed occupa tutto.
Apparisce sotto l’esterno di tutte le cose. Ci dice nei cieli e sulla terra
qualche cosa di ciò che egli è… Onde in ogni creatura, che è come un
sacramento delle perfezioni di Dio, dobbiamo adorare ciò ch’essa rappresenta…
Ci sarebbe riuscito facile il farlo se non avessimo perduto la grazia di
Adamo… ma il peccato ce la rapì, e non viene restituita in Gesù Cristo che
alle anime molto pure, a cui la fede svela la maestà di Dio dovunque si trova…
Questo lume della fede si chiama propriamente la scienza dei Santi; e, senza
l’aiuto dei sensi, senza l’esperienza della ragione, mostra la dipendenza da Dio
in cui ogni creatura si trova… È conoscenza che s’acquista senza fatica e in
un istante. Con un solo sguardo si penetra la causa di tutte le cose e si trova
in ognuna argomento di meditazione e di contemplazione perpetua”.
1341. L’oggetto
del dono della scienza sono dunque le cose create in quanto ci
conducono a Dio.
a) Se ne consideriamo l’origine, le cose ci dicono
che provengono da Dio che le creò e le conserva: “ipse fecit nos et non ipsi
nos“; se ne studiamo la natura, vi scorgiamo un’immagine o un
riflesso di Dio; il loro fine poi è di condurci a Dio: sono come gradini
per salire a Lui.
Così guardavano le cose i Santi, specialmente S. Francesco
d’Assisi. Considerava tutti gli esseri come aventi una comune relazione
coll’unico Padre, e ognuno gli appariva come fratello nella grande faniglia del
Padre celeste: il sole, la limpida acqua, i fiori, gli uccelli. “Vedendo
l’incrollabile solidità e la potenza delle rupi, subito sentiva e riconosceva
nel medesimo istante quanto è forte Dio e quale appoggio egli ci offre.
L’aspetto di un fiore nella sua mattutina freschezza, o di beccucci aperti con
ingenua confidenza in un nido di uccelli, gli rivelava la purità e la schietta
bellezza di Dio, come pure la infinita tenerezza del cuore divino onde tutto
questo procede. Sentiamo che riempiva Francesco di una specie di continua
letizia alla vista e al pensiero di Dio, di un continuo desiderio di
ringraziarlo” 1341-1.
b) È pur questo dono della scienza quello che
ci fa prontamente e sicuramente vedere ciò che riguarda la santificazione nostra
e l’altrui.
Onde tal dono ci illumina sullo stato dell’anima nostra, sui
segreti suoi moti, sui loro principi, sui loro motivi e sugli effetti che ne
possono derivare. Ci insegna pure il modo di trattare col prossimo rispetto alla
sua salute eterna; così il predicatore conosce con questo dono ciò che deve dire
agli uditori per far loro del bene; il direttore in che modo deve guidare le
anime, ognuna secondo i suoi bisogni spirituali e i moti della grazia, e questo
in virtù di un lume che gli fa penetrare il fondo dei cuori: è il dono infuso
del discernimento degli spiriti. Ecco perchè molti Santi, illuminati da Colui
che scruta le reni e i cuori, conoscevano i pensieri più segreti dei penitenti
prima ancora che li dichiarassero.
1342. 2° Utilità. È chiaro che
questo dono è utilissimo ai semplici fedeli e specialmente ai religiosi e ai
sacerdoti.
a Ci distacca dalle creature, mostrandoci quanto
vane sono in se stesse, incapaci di renderci felici, e anche
pericolose, perchè tendono a pervertirci con attirarci a sè e sedurci per
sviarci da Dio. Così distaccati, ci inalziamo più facilmente verso Colui che
solo può appagare tutte le aspirazioni del nostro cuore, e gridiamo col
Salmista: “Oh! se avessi ali di colomba, volerei a riposarmi; fuggirei lontano
lontano e abiterei nel deserto: quis mihi dabit pennas sicut columbæ et
volabo et requiescam?” 1342-1.
b) Ci aiuta a usar bene delle creature,
adoprandole come scalini per salire a Dio. Siamo portati da naturale istinto a
goderne e tentati di farne il nostro fine; mercè di questo dono, non vediamo più
in esse che ciò che Dio vi pose e da questo pallido riflesso delle divine
bellezze assorgiamo alla bellezza infinita, ripetendo con S. Agostino:
“O pulchritudo semper antiqua et semper nova, sero te cognovi, sero te
amavi” 1342-2.
1343. 3° Mezzi per coltivarlo.
a) Il gran mezzo è di aprir sempre gli occhi della fede nel
guardar le creature: in cambio di fermarci a quest’ombre che passano, non è
forse giusto assorgere alla Causa prima che si degnò di comunicar loro
un’immagine delle sue perfezioni, e attaccarci a lei disprezzando utto il resto?
Tanto faceva S. Paolo, che, preso d’amore per Gesù, scriveva: “Per lui io
feci getto di tutto e tutto stimo lordura per guadagnar Cristo: propter quem
omnia detrimentum feci et arbitror te stercora, ut Christum
lucrifaciam” 1343-1.
b) Animati da questo spirito, sapremo privarci di tutto
ciò che è inutile, e anche di qualche cosa utile, per esempio di uno sguardo, di
una lettura, di un po’ di cibo, per farne sacrificio a Dio. Ci distaccheremo
così a poco a poco dalle creature per non veder più in esse che ciò che può
condurci al loro autore.
VI. Il dono dell’intelletto.
1344. 1° Natura. Il dono
dell’intelletto si distingue da quello della scienza perchè l’oggetto ne
è molto più vasto: non si restringe alle sole cose create ma si estende a
tutte le verità rivelate; inoltre lo sguardo ne è più profondo, facendoci
penetrare (intus legere, legger dentro) l’intimo significato delle verità
rivelate. Non ci fa certamente comprendere i misteri, ma ci fa capire che, non
ostante la loro oscurità, sono credibili, che bene armonizzano tra loro e
con ciò che vi è di più nobile nella umana ragione, onde conferma i motivi di
credibilità.
Può dunque essere definito: un dono che, sotto l’azione
illuminatrice dello Spirito Santo, ci dà una penetrante intuizione delle verità
rivelate, senza però svelarcene il mistero. Il che si rileverà anche meglio
dalla sua azione nell’anima.
1345. 2° Effetti. Questo dono
produce in noi tre principali effetti:
A) Ci fa penetrare nell’intimo delle verità rivelate in
sei modi diversi, come insegna S. Tommaso 1345-1:
1) Ci scuopre la sostanza nascosta sotto gli accidenti,
per esempio Gesù sotto le specie eucaristiche; è quello che faceva dire al
contadino di cui parla il Curato d’Ars: Io scorgo lui e lui scorge me.
2) Ci spiega il senso delle parole nascosto sotto la
lettera, come fece Nostro Signore svelando ai discepoli de Emmaus il senso
delle profezie. Quante volte lo Spirito Santo non fa comprendere alle anime
interiori il senso profondo di questo o di quel passo della Sacra Scrittura!
3) Palesa l’arcano significato dei segni sensibili; così
S. Paolo ci mostra nel battesimo d’immersione il simbolo della nostra morte
al peccato, del nostro seppellimento e della nostra risurrezione spirituale
insieme con Cristo.
4) Ci fa cogliere sotto le apparenze le realtà
spirituali, mostrandoci, per esempio, nell’artigiano di Nazaret il Creatore
del mondo.
5) Vediamo per mezzo suo gli effetti contenuti nella
causa, per esempio nel sangue di Gesù versato sul Calvario la purificazione
dell’anima nostra e la nostra riconciliazione con Dio; nel costato ferito di
Gesù la nascita della Chiesa e dei sacramenti.
6) Vediamo pure per lui la causa negli effetti, come, per
esempio, l’azione della Provvidenza negli esterni eventi.
1346. B) Questo dono ci mostra le
verità rivelate sotto tal luce che, senza farcele comprendere, ci rassoda
nella fede; come appunto dice S. Tommaso 1346-1: “Cognoscitur quod ea quæ exterius apparent
veritati non contrariantur… quod non est recedendum ab iis quæ sunt
fidei“. In grado più alto, ci fa contemplar Dio, non con intuizione
positiva immediata dell’essenza divina, ma mostrandoci ciò che Dio non è,
come spiegheremo in appresso 1346-2.
C) Ci fa infine conoscere un maggior numero di
verità, aiutandoci a dedurre dai principi rivelati le conclusioni teologiche che
vi sono contenute. Così dalle parole: “Et verbum caro factum est et habitavit
in nobis” si ricava quasi tutta la dottrina del Verbo Incarnato; e dal testo
“ex qua natus est Jesus qui vocatur Christus” si deduce tutta la teologia
Mariana.
Questo dono quindi, così utile ai fedeli, è specialmente
giovevole ai sacerdoti e ai teologi per dar loro l’intelligenza delle verità
rivelate che devono spiegare ai discepoli.
1347. 3° Cultura del dono
dell’intelletto. A) La principale disposizione necessaria a ottenerlo è
una fede viva e semplice che umilmente sollecita i lumi divini onde
afferrar meglio le verità rivelate: “Da mihi intellectum et discam mandata
tua” 1347-1. Così usava S. Anselmo, cercando, dopo un
atto di viva fede, l’intelligenza dei misteri, secondo la sua massima “fides
quærens intellectum“: la fede è via a capire le verità
soprannaturali.
B) Dopo un tal atto di fede, bisogna abituarsi a penetrar
più che si può nel cuore del mistero, non già per comprenderlo (il che è
impossibile), ma per coglierne il senso, l’ampiezza, l’analogia colla ragione;
e, studiato un certo numero di misteri, se ne fa il confronto, onde scaturisce
spesso viva luce su ognuno di essi; così l’ufficio del Verbo nella
SS. Trinità fa capir meglio il mistero della sua unione colla natura umana
e l’opera sua redentrice; e a loro volta l’Incarnazione e la Redenzione
diffondono nuova luce sui divini attributi e sulle rivelazioni che corrono tra
il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Ma, a meglio intendere queste verità,
bisogna amarle e studiarle più col cuore che con la mente, soprattutto poi con
umiltà. Ce lo dice Nostro Signore nella bella preghiera rivolta al Padre: “Io ti
lodo, o Padre, Signore del cielo e della terra, perchè nascondesti queste cose
ai dotti e ai saputi e le hai rivelate ai parvoli” 1347-2.
VII. Il dono della sapienza 1348-1.
Ne esporremo la
natura, gli
effetti, i
mezzi di coltivarlo.
1348. 1°
Natura. È un dono che perfeziona la virtù della carità, e risiede nello
stesso tempo nell’intelletto e nella volontà perchè effonde
nell’anima luce ed amore. Onde viene meritamente considerato come
il più perfetto dei doni, quello in cui si compendiano tutti gli altri, a quel
modo che la carità comprende tutte le virtù.
A) S. Bernardo lo chiama la saporosa
cognizione delle cose divine. Vi è dunque un doppio elemento nel dono della
sapienza: 1) una luce, che illumina l’intelletto e gli fa pronunziar
retti giudizi su Dio e sulle cose create, queste riconducendo al loro primo
principio e al loro ultimo fine; onde ci aiuta a giudicar delle cose partendo
dalle supreme loro cause e a ridurle all’unità in una vasta sintesi divina;
2) un gusto soprannaturale, che opera sulla volontà facendole
assaporare le cose divine per una specie di arcana connaturalità o simpatia.
Un paragone ci farà capir meglio questo doppio ufficio: è, come
il raggio del sole, raggio di luce che illumina e allieta gli
occhi dell’anima e raggio di calore che riscalda il cuore, infiammandolo
di amore e colmandolo di gaudio.
1349. B) Il dono della sapienza
si può quindi definire un dono che, perfezionando le virtù della carità, ci
fa discernere e giudicar Dio e le cose divine nei loro più alti principi e ce li
fa gustare.
Differisce quindi dal dono dell’intelletto, che ci fa conoscere
le verità divine in se stesse e nelle mutue loro relazioni ma non nelle loro
cause più alte, e che non ce le fa amare e assaporare: “gustate et videte
quoniam suavis est Dominus” 1349-1.
È questo il dono che fa abbracciare a S. Paolo con un solo
sguardo il divino disegno della Redenzione e vedervi la gloria di Dio come causa
finale primaria, il Verbo Incarnato come causa meritoria ed esemplare, la
beatitudine degli eletti come causa finale secondaria, la grazia divina come
causa formale; ponendogli sul labbro quel cantico di ringraziamento:
“Benedictus Deus et Pater Domini nostri Jesu Christi…” 1349-2.
Mercè di questo dono, S. Giovanni riduca tutta la teologia
al mistero della vita divina, di cui l’amore è nello stesso tempo principio e
termine: Deus caritas est; e S. Tommaso compendia tutta la Somma in
quest’unico pensiero: Dio è nello stesso tempo il primo principio da cui tutte
le creature escono, l’ultimo fine a cui tutte ritornano e la via che seguono nel
ritornare a Lui 1349-3.
1350. 2° Effetti
del dono della sapienza. Oltre l’aumento di carità che produce nell’anima,
questo dono perfeziona tutte le altre virtù:
a) Rende incrollabile la fede con la
cognizione quasi sperimentale che ci dà delle verità rivelate; così, quando uno
ha lungamente assaporato le delizie della comunione, come potrebbe più dubitare
della presenza reale? b) Rassoda la speranza; quando si è
inteso e gustato il dogma della nostra incorporazione a Cristo, come non
sperare, dacchè il nostro Capo è già in cielo e i santi che sono nostri fratelli
già regnano con lui nella patria beata? c) Ci fa perfettamente
praticare le virtù morali; poichè, quando si sono assaporate le delizie
dell’amor di Dio, quelle della terra non hanno più sapore per noi; si ama la
croce, la mortificazione, lo sforzo, la temperanza, l’umiltà, la dolcezza,
essendo queste virtù altrettanti mezzi per maggiormente assomigliare ad Diletto
e dimostrargli il nostro amore.
Vi è quindi tra il dono della Sapienza e il dono
dell’intelletto la differenza che questo è uno sguardo della mente
e quello un esperimento del cuore; l’uno è luce e l’altro è amore;
armonizzandosi così e integrandosi insieme. Il più perfetto però è il dono della
sapienza, perchè il cuore va più lontano della mente, ha penetrazione maggiore e
capisce o indovina ciò che la ragione non afferra; e, specialmente nei Santi,
l’amore supera spesso la cognizione.
1351. 3° Mezzi per
coltivarlo. A) Essendo la sapienza uno dei doni più preziosi, bisogna
ardentemente desiderarlo, chiederlo con insistenza e
cercarlo con instancabile ardore.
È quanto ci viene consigliato dal libro della sapienza,
che vuole che la prendiamo in isposa e a compagna di tutta la vita, e ci
suggerisce una bella preghiera per ottenerla:
“Dio de’ miei padri e Signore pietoso,
Tu che hai creato
ogni cosa con la tua parola,
e con la tua sapienza hai formato
l’uomo,
affinchè domini le creature da Te fatte,
e governi il mondo con
santità e giustizia
e con animo retto sentenzi in giudizio;
dammi la
Sapienza, che siede in trono accanto a Te,
e non mi escludere dal novero
dei tuoi figli;
perchè io sono tuo servo e figlio della tua
ancella,
uomo fragile e di corta vita
e scarso nell’intelligenza del
diritto e delle leggi.
Con Te sta la Sapienza, che ben conosce le opere tue
ed era
presente quando creavi il mondo,
e sa qual cosa Ti sia gradita
e quale
retta secondo i tuoi comandi.
Mandala dai santi cieli
e dal trono della tua maestà
inviala,
affinchè mi assista nei miei lavori,
e mi faccia sapere qual
cosa Ti sia più gradita;
perchè essa tutto conosce ed intende
e mi
guiderà saggiamente nelle mie imprese,
e mi proteggerà con la sua
grandezza;
onde saranno accette le opere mie,
e governerò il tuo popolo
con giustizia
e sarò degno del trono del padre mio” 1351-1.
B) Poichè la sapienza riferisce ogni cosa a
Dio, dobbiamo sforzarci di conoscere in che modo tutte le verità che stiamo
studiando vengono da lui come primo principio e a lui tendono come
ultimo fine. Onde conviene abituarsi a non perderci nei particolari, ma
tutto rincondurre ai principi e all’unità, facendo prima sintesi particolari di
quanto abbiamo studiato e preparando così la sintesi generale di tutte le nostre
cognizioni.
1352. C) Facendoci questo dono
gustare le cose divine, dobbiamo da parte nostra abituarci ad amare e
gustare queste divine cose, memori che vana è ogni cognizione che non conduca
all’amore. Ma poi come non amare questo Dio che è infinita bellezza e bonta
infinita? “Gustate et videte quoniam suavis est Dominus” 1352-1. Ed essendo le cose divine una partecipazione
della bellezza e della bontà di Dio, non è possibile amare e gustar Dio senza
che quest’amore rifluisca su ciò che ne partecipa le perfezioni.
§ III. Ufficio dei doni nell’orazione e nella
contemplazione.
Risulta da quanto abbiamo detto che l’esercizio dei doni ci è di
grande aiuto nell’orazione.
1353. 1° Prima ancora di giungere al
pieno sviluppo, i doni, appena incominciamo a coltivarli, aggiungono la loro
luce e la loro influenza a quella delle virtù per agevolarci l’orazione. Senza
porci nello stato passivo o mistico, ci indociliscono già l’anima e ce la
rendono più sensibile all’azione dello Spirito Santo.
Tal è l’insegnamento comune dei teologi, compendiato nelle
seguenti parole del Meynard 1353-1; il quale, menzionata l’opinione di alcuni
autori stimanti che i doni dello Spirito Santo, esclusivamente riservati agli
atti eroici, restino inoperosi nella pratica delle virtù ordinarie, dice: “La
loro azione parimente si estende a una quantità di circostanze in cui la volontà
di Dio richiede da noi una certa prontezza e una maggiore docilità nella pratica
delle virtù ordinarie della vita cristiana, per esempio, quando si tratta di
liberarsi dai vizi, di domar le passioni, di resistere alle tentazioni della
carne, del mondo e del demonio, massime quando la debolezza e la fragilità della
persona richiedono più pieno e più efficace aiuto, e quindi un principio
d’azione più alto. Quest’ultima opinione, che noi crediamo esser la vera, si
fonda sulla considerazione che i doni non producono opere di un genere
particolare e distinto dalle virtù, ma ci vengono puramente in aiuto onde
praticare tutte le virtù in modo più pronto e più facile”. Ora se i doni dello
Spirito Santo intervengono nella pratica delle virtù ordinarie, ci agevolano
pure l’orazione, che è atto della virtù della religione e uno dei mezzi più
efficaci a praticar le virtù.
Questi doni operano allora allo stato latente,
senza che sia possibile distinguerne l’azione da quella delle virtù; in certi
momenti però operano in modo più manifesto, dandoci passeggiere intuizioni che
fanno sull’anima più viva impressione dei ragionamenti, ed eccitando moti di
amore superiori a quelli che abbiamo di solito.
1354. 2° A più forte ragione questi doni
ci aiutano nella contemplazione attiva, che è una specie di affettuosa
intuizione della verità. È proprio infatti dei doni dell’intelletto e della
sapienza, anche prima della piena loro fioritura, di agevolare questo semplice
sguardo della fede col renderci l’intelletto più penetrante e più ardente
l’amore 1354-1. La loro azione, senza metterci ancora nello
stato mistico, è già più frequente e più efficace che non nell’orazione
ordinaria; il che spiega in che modo l’anima nostra può più lungamente e più
affettuosamente fissar lo sguardo su una sola e medesima verità.
1355. 3° Ma sopratutto
nella contemplazione infusa hanno i doni ufficio importante: giunti alla
piena loro fioritura, comunicano all’anima una mirabile arrendevolezza che la
rende atta allo stato mistico o contemplativo.
A) Tre specialmente, il dono della scienza,
dell’intelletto e della sapienza, concorrono alla contemplazione.
Spieghiamo meglio il nostro pensiero: a) i
principi elicitivi della contemplazione sono, propriamente parlando, le
nostre facoltà superiori, intelletto e volontà, perfezionate e trasformate dalle
virtù teologali e dai doni e mosse della grazia attuale operante; i doni infatti
vengono innestati sulle facoltà, ond’è che facoltà e doni concorrono
indivisibilmente al medesimo atto. Queste facoltà, così trasformate,
costituiscono i principi elicitivi della contemplazione, ossia la
fonte prossima onde scaturiscono, sotto l’azione della grazia
operante, gli atti della contemplazione; come l’intelletto, perfezionato
dalla virtù della fede, è il principio elicitivo degli atti di fede.
b) Tutti i teologi ammettono che i doni
dell’intelletto e della sapienza costituiscono i principi
elicitivi della contemplazione; ma alcuni escludono da quest’ufficio il dono
della scienza. Noi però crediamo, con la maggioranza degli autori, che non si
debba escludere; perchè la contemplazione parte talora dalle creature, e il dono
della scienza interviene allora per farci vedere l’immagine di Dio nelle
creature.
“Dio, dice S. Giovanni della Croce 1355-1, lasciò in ognuna delle sue creature un
vestigio di ciò che egli è non solo creandole dal nulla, ma dotandole pure di
innumerevoli grazie e proprietà. E ne accrebbe la bellezza col mirabile ordine e
coll’indefettibile dipendenza che mutuamente le collega… Le creature sono un
vestigio del passaggio di Dio, onde se ne rintraccia la grandezza, la potenza,
la sapienza e gli altri divini attributi”. Ora è proprio del dono della scienza
innalzarci dalle creature al Creatore e palesarci la bellezza di Dio ascosa
[sic] sotto i simboli visibili.
1356. B) Questi tre doni si
prestano mutua cooperazione e lavorano o tutti insieme o l’un dopo l’altro nella
stessa contemplazione.
a) Così il dono della scienza ci innalza dalle
creature a Dio per unirci a lui: 1) è accompagnato da un lume infuso
con cui chiaramente vediamo il nulla di tutto ciò che il mondo cerca, onori,
ricchezze, piaceri; il pregio del dolore e delle umiliazioni come mezzi per
andare a Dio e glorificarlo; e il riflesso delle divine perfezioni ascoso nelle
creature, ecc.
2) Lume accompagnato da una grazia che opera sulla volontà per
distaccarla dalle creature e aiutarla a non servirsene che come scalini per
salire a Dio.
b) Il dono dell’intelletto ci fa penetrare più
oltre: mostrandoci le arcane armonie che corrono tra l’anima nostra e Dio, tra
le verità rivelate e le più profonde nostre aspirazioni, come pure le mutue
relazioni di queste verità, ci fissa la mente e il cuore sulla vita intima di
Dio, sulle sue operazioni immanenti, sui misteri della Trinità,
dell’Incarnazione o della grazia, e ce li fa ammirare in sè e nelle mutue loro
relazioni, così che stentiamo poi a staccarne la mente e il cuore. Ruysbroeck lo
paragona alla luce del sole 1356-1: il sole riempie coi suoi raggi l’aria di luce
semplice e pura; illumina ogni forma ed ogni figura e fa distinguere tutti i
colori. Così questo dono penetra nella mente e vi produce la semplicità;
semplicità che è attraversata da raggi di singolare chiarezza; onde diventiamo
capaci di ricevere la cognizione dei sublimi attributi che sono in Dio e che
sono l’origine di tutte le sue opere.
c) Il dono della sapienza, facendoci valutar tutto
per rispetto a Dio e assaporare le cose divine, fissa anche più amorosamente la
nostra mente e il nostro cuore sull’oggetto contemplato, attaccando a lui con
maggiore costanza e ardore. Ruysbroeck 1356-2 così descrive il sapore prodotto da
questo dono: “Questo sapore è così forte che pare all’anima che il cielo e la
terra e tutto ciò che essi contengono debbano fondersi e annientarsi in questo
inscrutabile sapore. Delizie che sono di sopra e di sotto (cioè nelle facoltà
superiori e nelle facoltà inferiori) di dentro e di fuori, abbracciando e
penetrando l’intiero regno dell’anima. Quindi l’intelletto contempla la
semplicità da cui derivano tutte queste delizie. Onde poi la ragione illuminata
si mette a far considerzioni; ma sa bene che questi ineffabili delizie
sfuggiranno sempre alla sua conoscenza; perchè la sua considerazione si fa alla
luce d’un lume creato, mentre queste delizie sono senza misura. Ond’è che la
ragione in questa considerazione vien meno; ma l’intelletto, che mercè di questa
illimitata chiarità è trasformato, contempla e fissa continuamente
l’incomprensibile gaudio della beatitudine”.
1357. C) Gli altri quattro doni,
senza aver nella contemplazione ufficio così importante, vi concorrono anch’essi
parzialmente in due maniere:
a) Vi ci dispongono contribuendo essi pure a rendere
l’anima più arrendevole e più docile all’azione della Spirito Santo;
b) vi cooperano, eccitando nel cuore pii affetti che alimentano la
contemplazione; così il dono del timore ci dà sentimenti di compunzione e
di distacco dalle creature; il dono della pietà, sentimenti di filiale
amore; il dono della fortezza, sentimenti di generosità e costanza; il
dono del consiglio ci rende capaci di applicare a noi e agli altri i lumi
ricevuti dallo Spirito Santo.
Quindi, come si vede, ognuno dei doni ha la sua parte
nella contemplazione.
NOTA: I
CINQUE SENSI SPIRITUALI E I DONI.
1358. Un certo numero di Padri e di
teologi, come pure molti autori mistici, parlano di cinque sensi
spirituali 1358-1, simili ai cinque sensi immaginativi di
cui abbiamo già parlato al n. 992.
Ecco il bel testo in cui S. Agostino li
descrive 1358-2: “Che amo, io dunque, o mio Dio, quando ti
amo?… amo certa luce, certa voce, certo odore, certo cibo, certo amplesso,
allorchè amo il mio Dio, luce, voce, odore, cibo, amplesso all’interno mio
senso; dove all’anima mia risplende ciò cui spazio non contiene, dove
risuona ciò che il tempo non dilegua, dove olezza ciò che l’aure
non dissipano, dove si assapora ciò che l’edacità non iscema, dove
congiungesi ciò che la sazietà non ributta. Questo è ch’io amo, quando
amo il mio Dio”.
Ora che devesi intendere per questi sensi spirituali? A parer
nostro, altro non sono che funzioni od operazioni dei doni dello Spirito Santo,
specialmente dei doni dell’intelletto e della sapienza. Così i
sensi spirituali della vista e dell’udito si riferiscono al dono
dell’intelletto che ci fa veder Dio e le cose divine, n. 1341,
e ascoltar Dio che ci parla al cuore. Gi altri tre sensi si riferiscono
al dono della sapienza, che ci fa gustare Dio, respirare e
odorare il profumo delle sue perfezioni, e venire a contatto con
lui per mezzo d’una specie di stretta e di amplesso spirituale che altro non è
se non un amore sperimentale di Dio.
Si concilia in tal modo su questo punto la dottrina di
S. Agostino e di S. Tommaso, del P. Poulain e del
P. Garrigou-Lagrange.
§ IV. Dei frutti dello Spirito Santo e delle
beatitudini.
Coi doni si connettono i frutti dello Spirito Santo e le
beatitudini, che vi corrispondono e li compiono, come pure le grazie
gratuitamente date (gratiæ gratis datæ) che hanno coi doni una certa
analogia, n. 1314.
I. I frutti dello Spirito Santo.
1359. Quando un’anima corrisponde
fedelmente alle grazie attuali che mettono in moto le virtù e i doni, produce
atti di virtù, imperfetti e penosi, a principio, poi migliori e più
saporiti, che riempiono il cuore di gaudio santo. Sono questi i frutti
dello Spirito Santo, che si possono definire: atti virtuosi che sono giunti a
una certa perfezione e che riempiono l’anima di santo gaudio.
S. Paolo ne enumera nove: la carità, il gaudio, la pace, la
pazienza, la mansuetudine, la bontà, la fedeltà, la dolcezza e la
temperanza 1359-1. Ma non è a credere che ne abbia voluto dare
una lista completa; onde S. Tommaso fa giustamente osservare che è un
numero simbolico, il quale indica veramente tutti gli atti di virtù in cui
l’anima trova consolazione spirituale: “Sunt fructus quæcumque virtuosa opera
in quibus homo delectatur“.
1360. I frutti si distinguono dalle
virtù e dai doni come l’atto si distingue dalla potenza. Non tutti però gli atti
di virtù meritano il nome di frutti, ma quelli soltanto che sono
accompagnati da una certa spirituale soavità. A principio gli atti di virtù
esigono spesso molti sforzi e hanno talora un certa asprezza come il frutto non
ancor maturo. Ma quando uno si è lungamente esercitato nella pratica delle
virtù, acquista la facilità di produrne gli atti, li fa senza penosi sforzi,
anzi con diletto come gli atti degli abiti acquisiti; prendono allora il nome di
frutti.
I frutti quindi si ottengono col coltivare le virtù e i doni, e
coi frutti vengono le beatitudini, preludio della beatitudine eterna.
II. Le beatitudini.
1361. Le beatitudini sono l’ultima
corona dell’opera divina in noi. Come i frutti, sono anch’esse atti, ma
di tal perfezione che paiono procedere dai doni anzichè dalle virtù 1361-1; sono frutti, ma di maturità così perfetta, che
ci danno già una pregustazione della celeste beatitudine; onde il nome di
beatitudini.
Nostro Signore, nel discorso del Monte, le riduce a otto; la
povertà di spirito, la dolcezza, le lagrime, la fame e la sete della giustizia,
la misericordia, la purità di cuore, la pazienza in mezzo alle persecuzioni. Ma
anche qui si può dire che è numero simbolico e che non ha nulla di esclusivo.
Queste beatitudini non indicano la assoluta e perfetta felicità;
sono piuttosto mezzi per giungere alla beatitudine eterna e mezzi efficacissimi;
perchè quando lietamente si abbraccia la povertà, la dolcezza, la purità,
l’umiliazione, quando uno sa dominare se stesso fino al punto di pregare per i
nemici e di amare la Croce, si imita allora perfettamente Nostro Signore, e si
fanno rapidi passi nelle vie della perfezione.
1362. Conclusione. I doni dello
Spirito Santo, sapendoli coltivare, c’introducono nella via unitiva. 1) Ci
fanno infatto praticar tutte le virtù, morali e teologali, nel più
alto grado, onde ci uniscono a Dio trasformandoci a poco a poco in Lui e
facendocene imitare le divine perfezioni. 2) Pongono nell’anima
quell’arrendevolezza e quella docilità per cui lo Spirito Santo
s’impossessa di lei e vi opera liberamente. Sotto l’influsso latente di
questi doni e talora pure con la palese loro cooperazione si fa
l’orazione di semplicità di cui ora tratteremo.
NOTE
1339-1 IIª IIæ, q. 45,
a. 2.
1339-2 D. Joret, Les dons du
S. Esprit, in Vie spirit., Marzo 1920, p. 383-393.
1340-1 Esprit de M. Olier,
t. II, p. 346.
1341-1 Joergensen,
S. Francesco d’Assisi, (Palermo, 1910). Gli stessi sentimenti si
riscontrano nella Journée chrétienne dell’Olier.
1342-1 Ps. LIV, 7.
1342-2 S. Agostino, Le
confessioni, l. X, c. 27.
1343-1 Phil., III, 8.
1345-1 IIª IIæ, q. 8,
a. 1.
1346-1 IIª IIæ, q. 8,
a. 3.
1346-2 “In hâc etiam vitâ, purgato oculo per
donum intellectûs, Deus quodammodo videri potest… Duplex est Dei visio: una
quidem perfecta, per quam videtur Dei essentia; alia vero
imperfecta, per quam, etsi non videamus de Deo quid est, videmus
autem quid non est… secunda pertinet ad donum intellectus inchoatum,
secundum quod habetur in via” (Iª IIæ, q. 69, a. 2,
ad 3; IIª IIæ, q. 8, a. 7).
1347-1 Ps. CXVIII, 73.
1347-2 Matth., XI, 25.
1348-1 S. Tommaso, IIª
IIæ, q. 45.
1349-1 Ps. XXXIII, 9.
1349-2 Ephes., I, 3.
1349-3 I semplici praticano questo
dono della sapienza a modo loro, assaporando a lungo qualche verità divina; tale
era quella povera vaccaia che non poteva terminare il Pater, “perchè,
diceva, son già cinque anni che quando pronunzio la parola Pater e
considero che Colui che sta lassù è mio Padre, mi metto a piangere e sto tutto
il giorno così, badando le vacche”. (H. Brémond, Hist.
littéraire, t. II, p. 66).
1351-1 Sap., IX, 1-12. La bella
versione è tolta da “I Libri poetici della Bibbia tradotti dai testi
originali e annotati dal P. Vaccari S. J.“, Roma, Pontificio
Istituto biblico, 1925, pp. 310-311 (N. D. T.)
1352-1 Ps. XXXIII, 9.
1353-1 Traité de la vie intérieure,
t. I, n. 246. A sostegno della sua opinione cita
S. Antonino, Giov. di S. Tommaso e il
Suarez. Lo stesso insegna il P. Garrigou-Lagrange, op. cit.,
t. I, p. 404: “Abbiamo sempre detto che, prima dell’ingresso nello
stato mistico, i doni intervengono in modo o latente e assai frequente, o
manifesto ma raro.” — Cf. P. G. de Guibert;
R. A. M., ott. 1923, p. 338.
1354-1 Così insegna il
P. Meynard, t. I, n. 126, 128, appoggiandosi su Giovanni
di S. Tommaso.
1355-1 Cantico spirituale, stanza V,
n. 1, 3.
1356-1 L’Ornamento delle Nozze
Spirituali, l. II°, c. 66-68 (Libreria Carabba, Lanciano).
1356-2 Royaume des amants,
c. XXXIII.
1358-1 Il P. Poulain, Delle grazie
d’orazione, c. VI, adduce in prova gran quantità di testi.
1358-2 Confess., l. X,
c. VI, nella classica versione del Bindi.
1359-1 Galat., V, 22-23. La
Volgata ne enumera dodici: “Fructus autem Spiritus est: caritas, gaudium,
pax, patientia, benignitas, bonitas, longanimitas, mansuetudo, fides, modestia,
continentia, castitas”; aggiunge dunque la longanimità, la
modestia e la continenza, e alla temperanza sostituisce la
castità.
1361-1 “Beatitudines dicuntur solum
perfecta opera, quæ, etiam ratione suæ perfectionis, magis attribuuntur
donis quam virtutibus”. (Sum. theol., Iª IIæ, q. 70,
a. 2).