Di Adolfo Tanquerey. Parte seconda. Le Tre Vie. LIBRO II. La via illuminativa o lo stato delle anime proficienti. CAPITOLO III. Le virtù teologali. I. Natura della speranza. II. Efficacia della speranza nella nostra santificazione. III. Pratica progressiva della speranza. Art. III. La virtù della carità. Osservazioni preliminari. § I. Dell’amor di Dio. I. La natura.
I. Natura della speranza 1190-1.
1190. 1° Vari significati: A) Nell’ordine
naturale la speranza indica due cose: una passione e un
sentimento.
a) La speranza è infatti una delle undici passioni, n. 787;
ed è allora un moto della sensibilità che tende a un bene sensibile
assente, possibile a conseguire ma non senza difficoltà. b) È
pure uno dei più nobili sentimenti del cuore umano che tende a un bene
onesto assente, non ostante le difficoltà che ne ostacolano l’acquisto.
Questo sentimento ha larga parte nella vita umana: è quello che sostiene l’uomo
nelle imprese difficili, il contadino quando semina, il marinaio quando salpa
per lontano viaggio, il mercante e l’industriale quando avviano un affare.
B) Ma vi è pure una speranza soprannaturale che
sorregge il cristiano in mezzo alle difficoltà della eterna salvezza e della
perfezione. Ha per oggetto tutte le verità rivelate che si riferiscono alla vita
eterna e ai mezzi di pervenirvi; fondandosi sulla potenza e sulla bontà divina,
possiede incrollabile fermezza.
1191. 2° Elementi essenziali. Analizzando
questa virtù, vi scorgano tre elementi principali:
a) L’amore e il desiderio del bene soprannaturale, vale
a dire di Dio, suprema nostra beatitudine.
Ecco la genesi di questo sentimento: il desiderio della felicità è
universale; ora la fede ci mostra che Dio solo può costruir la nostra felicità;
onde noi l’amiamo come fonte della nostra felicità. È amore interessato
ma soprannaturale, perchè si volge a Dio conosciuto per fede. Essendo
questo bene di difficile acquisto; onde, a trionfar di questo timore, interviene
un secondo elemento: la fondata speranza di ottenerlo.
È chiaro che cosiffatta speranza non si fonda sulle nostre forze,
che sono radicalmente insufficienti a conseguir questo bene, ma su Dio, sulla
soccorrevole sua onnipotenza. Da lui aspettiamo tutte le grazie
necessarie per acquistare la perfezione in questa vita e la salvezza nell’altra.
c) Ma la grazia richiede la nostra collaborazione: onde un
terzo elemento: un certo slancio, uno sforzo serio di tendere a
Dio e adoprare i mezzi di salute messi a nostra disposizione. Sforzi che devono
essere tanto più energici e costanti quanto più alto è l’oggetto della nostra
speranza.
1192. 3° Definizione. Da quanto abbiamo detto,
la speranza si può definire: una virtù teologale che ci fa desiderar Dio come
supremo nostro bene, e aspettare con ferma confidenza, fondata sulla bontà e
onnipotenza divina, la beatitudine eterna e i mezzi di conseguirla.
A) L’oggetto primo ed essenziale della nostra speranza è Dio
stesso in quanto beatitudine nostra, è Dio eternamente posseduto nella chiara
visione beatifica e nel perfetto amore. Perchè, come dice Nostro Signore, la
vita eterna è la conoscenza o la visione di Dio e di Gesù Cristo da lui inviato:
“Hæc est vita æterna: ut cognoscant te solum Deum verum, et quem misisti
Jesum Christum” 1192-1. Ma, non potendo noi conseguir quest’oggetto
senza l’aiuto della grazia, la speranza abbraccia pure tutti gli aiuti
soprannaturali necessari a schivare il peccato, a vincere le tentazioni, ad
acquistare le cristiane virtù, ed anche i beni di ordine temporale in quanto
siano utili o necessari alla nostra perfezione e all’eterna nostra salute.
1193. B) Il motivo su
cui si fonda la speranza, dipende dall’aspetto sotto cui si considera questa
virtù: a) se, con Scoto, se ne mette in rilievo l’atto
principale che è il desiderio o l’amor di Dio considerato come
nostra felicità, il motivo sarà la sua bontà rispetto a noi; b) se si pensa, con S. Tommaso, che la speranza consiste
essenzialmente nell’aspettazione di quel bene difficile a conseguire che
è il possesso di Dio, il motivo sarà la soccorrevole onnipotenza di Dio
che solleva le anime, le distacca dai beni della terra e le porta verso il
cielo. Le promesse divine vengono solo a confermare la certezza di questo
aiuto.
Si può dunque dire che il motivo adeguato è nello stesso tempo la bontà di
Dio e la sua potenza.
II. Efficacia della speranza nella nostra santificazione.
La speranza contribuisce alla nostra santificazione in tre modi principali:
-
1° unendoci
a Dio;
-
2° dando
efficacia alle nostre preghiere;
-
3° costituendo
un principio di feconda operosità.
1194. 1° Ci unisce a Dio
staccandoci dai beni della terra. Noi siamo attratti dai sensibili
diletti, dalle soddisfazioni dell’orgoglio e dal fascino delle
ricchezze, e poi dai naturali ma più puri diletti della
mente e del cuore. Ora la speranza, fondata su una fede viva, ci mostra che
tutti questi terreni godimenti mancano di due elementi essenziali alla felicità,
la perfezione e la durata.
A) Nessuno di questi beni è abbastanza perfetto da appagarci:
procuratici alcuni momenti di gaudio, ci cagionano presto sazietà e nausea. Il
nostro cuore è così grande, ha aspirazioni così vaste, così alte, che non può
contentarsi dei beni materiali, che sono puri mezzi per giungere a un fine più
nobile. Neppure i beni naturali della mente e del cuore ci bastano: l’intelletto
non si appaga che nella conoscenza della causa prima; e il cuore, che cerca un
amico perfetto, non lo trova che in Dio: Dio solo è la pienezza dell’essere,
pienezza di bellezza, di bontà, di potenza; Dio, che basta pienamente a sè,
basta pure, com’è chiaro, alla nostra felicità. Tutto sta a poterlo ottenere; ed
è appunto la speranza che ce lo mostra chino verso di noi per darsi tutto a noi;
persuasici di queste verità, il cuore si distacca dai beni della terra per
volgersi a lui, come il ferro si volge alla calamita.
1195. B) Quand’anche i beni della terra ci
appagassero appieno, sono beni effimeri che presto ci sfuggono. Cosa che noi ben
sappiamo e che ce ne turba il godimento anche quando li possediamo: Dio invece
sta in eterno, e la morte che ci separa da tutto non fa che unirci più
perfettamente a lui; onde, non ostante l’orrore naturale che c’ispira, la
guardiamo fiduciosamente in faccia quando si avvicina, in virtù della speranza
che abbiamo di essere uniti per sempre a Colui che solo può renderci felici.
1196. 2° È pur la speranza quella
che, associata all’umiltà, dà efficacia alle nostre preghiere ottenendoci
tutte le grazie di cui abbiamo bisogno.
A) Come son tenere le premurose esortazioni della S. Scrittura
alla confidenza in Dio! L’Ecclesiastico compendia in questi termini la
dottrina dell’Antico Testamento: “Chi sperò mai nel Signore e rimase deluso? Chi
l’invocò e fu da lui negletto? Dio è pur sempre pietoso e compassionevole:
Scitote quia nullus speravit in Domino et confusus est. Quis enim permansit
in mandatis ejus et derelictus est; aut quis invocavit eum et despexit illum?
Quoniam pius et misericors est Deus, et remittet in die tribulationis
peccata” 1196-1.
B) Ma specialmente nel Nuovo Testamento sfolgora l’efficacia della
confidenza in Dio.
Nostro Signore opera i miracoli in favor di coloro che hanno fiducia in lui:
si pensa al contegno tenuto col centurione; 1196-2 col paralitico che, non potendo avvicinare il
Maestro, si fa calare dal tetto; 1196-3 coi ciechi di Gerico; 1196-4 con la Cananea 1196-5 che, respinta tre volte, non si stanca di
ripetere l’umile preghiera; con la donna peccatrice; 1196-6 col lebbroso che torna indietro a ringraziar
chi lo guarì. 1196-7 Ma poi come non aver confidenza quando Nostro
Signore stesso autorevolmente ci afferma che tutto ciò che chiederemo al Padre
in nome suo ci sarà concesso? “Amen, amen dico vobis, si quid petieritis
Patrem in nomine meo, dabit vobis” 1196-8. Ecco il segreto della nostra forza: quando
preghiamo in nome di Gesù, vale a dire confidando nei suoi meriti e nelle sue
soddisfazioni, il suo sangue perora più eloquentemente per noi che non le povere
nostre preghiere.
C) Del resto nulla onora tanto Dio quanto la
confidenza; perchè è un proclamarne la potenza e la bontà, onde Dio, che non si
lascia vincere in generosità, risponde a questa confidenza con copiosa effusione
di grazie. Conchiudiamo dunque col Concilio di Trento che dobbiamo tutti porre
in Dio incrollabile confidenza: “In Dei auxilio firmissimam spem collocare et
reponere omnes debent” 1196-9.
1197. 3° La speranza è finalmente
principio di feconda operosità. a) Produce infatti santi
desideri, specialmente il desiderio del cielo, il desiderio di posseder Dio.
Ora il desiderio dà all’anima lo slancio, il movimento, l’ardore necessario a
conseguire il bene bramato, e regge gli sforzi fino a tanto che ci sia dato di
pervenire alla desiderata mèta.
b) Ci aumenta le energie con la promessa di una
ricompensa che oltrepasserà di molto i nostri sforzi. Se le persone del
mondo lavorano con tanto ardore per procacciarsi periture ricchezze, se gli
atleti si condannano a così penosi esercizi d’allenamento, fanno sforzi
disperati per guadagnare una corona corruttibile, quanto più non dobbiamo
faticare e soffrire noi per una corona immortale? “Omnis autem qui in agone
contendit ab omnibus se abstinet. Et illi quidem ut corruptibilem coronam
accipiant, nos autem incorruptam” 1197-1.
1198. c) Ci dà quel coraggio e quella
resistenza che provengono dalla certezza della riuscita. Se nulla maggiormente
disanima quanto il lottare senza speranza di vittoria, nulla invece infonde
tanta forza quanto la sicurezza del trionfo. Ora tale certezza ci vien
data dalla speranza. Deboli da soli, abbiamo potenti alleati: Dio, Gesù Cristo,
la Vergine Santissima e i Santi (n. 188-189).
Ora se Dio è con noi, chi dunque sarà contro di noi? Si Deus pro nobis,
quis contra nos 1198-1? Se Gesù, che vinse il mondo e il
demonio, vive in noi e ci comunica la divina sua forza, non siamo forse sicuri
di trionfar con lui? Se la Vergine immacolata, che schiacciò il serpente
infernale, ci sostiene con la sua potente intercessione, non otterremo forse
tutti gli aiuti desiderati? Se gli amici di Dio pregano per noi, tante suppliche
non ci danno forse un’assoluta sicurezza? E se siamo sicuri della vittoria,
indietreggeremo dinanzi ai pochi sforzi necessari a conquistar l’eterno possesso
di Dio?
III. Pratica progressiva della speranza.
1199. 1° Principio generale. A progredire in
questa virtù, bisogna renderla più salda nei fondamenti e più
feconda nei risultati.
A) A renderla più salda, conviene meditar spesso sui
motivi che ne sono il fondamento: la potenza di Dio, unita alla
sua bontà e alle magnifiche promesse che ci ha fatte, n. 1193.
Se occorresse qualche cosa di più per rinsaldar la nostra confidenza, basterebbe
richiamare la parola di S. Paolo 1199-1: “Dio, che non risparmiò il proprio Figlio ma
lo diede a morte per tutti noi, come non ci darà con lui anche ogni cosa? Chi
accuserà gli eletti di Dio? È Dio che li giustifica! Chi li condannerà? Cristo
Gesù è quegli che morì e che poi risuscitò ed è ora alla destra di Dio e
intercede per noi!” Quindi da parte di Dio la speranza è assolutemente certa. Da
parte nostra abbiamo però ragione di temere, perchè purtroppo non corrispondiamo
nè sempre nè bene alla grazia di Dio. Onde ogni nostro sforzo deve mirare a
rendere la nostra speranza più ferma rendendola più feconda.
1200. B) A conseguir questo fine bisogna
collaborare con Dio all’opera della nostra santificazione: “Dei enim sumus
adjutores” 1200-1. Dio, largendoci la sua grazia, non vuole
sostituire l’azione sua alla nostra, vuole semplicemente supplire alla nostra
insufficienza. Dio è certamente causa prima e principale, ma non intende
sopprimere la nostra attività, vuole anzi provocarla, stimolarla, renderla più
efficace.
Quseto aveva ben compreso S. Paolo: “Per la grazia di Dio, egli diceva,
sono quello che sono, e la grazia sua verso di me non riuscì vana, ma più di
tutti io faticai: non io però, ma la grazia di Dio che è con me: Gratiâ Dei
sum id quod sum, sed gratia ejus in me vacua non fuit; sed abundantius illis
omnibus laboravi” 1200-2. Ed esortava gli altri a far ciò che faceva
lui: “Adjuvantes autem exhortamur ne in vacuum gratiam Dei
recipiatis” 1200-3; premurosa raccomandazione che rivolgeva
specialmente al caro discepolo Timoteo: “Labora sicut bonus miles Christi
Jesu” 1200-4; perchè doveva lavorare non solo alla
santificazione propria ma anche all’altrui. Nè altrimenti parla S. Pietro,
rammentando ai discepoli che sono certamente chiamati alla salute, ma che devono
assicurar la loro vocazione coll’esercizio delle opere buone: “Quapropter
fratres, magis satagite ut per bona opera certam vestram vocationem et
electionem faciatis” 1200-5.
Bisogna dunque essere ben convinti che, nell’opera della nostra
santificazione, tutto dipende da Dio; ma si deve pure operare come se tutto
dipendesse da noi soli; Dio infatti non ci ricusa mai la sua grazia, onde in
pratica non dobbiamo occuparci che dei nostri sforzi.
1201. 2° Applicazioni ai vari gradi della vita
spirituale. È facile vedere in che modo l’esposto principio si applichi alle
varie tappe della vita cristiana.
A) Gl’incipienti baderanno primieramente a scansare i due
eccessi contrari alla speranza: la presunzione e la disperazione.
a) La presunzione consiste nell’aspettarsi da Dio il paradiso e le
grazie necessarie per arrivarvi senza voler prendere i mezzi da lui prescritti.
Talora si presume della divina bontà dicendo: Dio è così buono che non mi vorrà
dannare e intanto se ne trascurano i comandamenti. È un dimenticare che, se Dio
è buono è però anche giusto e santo, e che odia l’iniquità: “Iniquitatem odio
habui” 1201-1. Altre volte si presume troppo delle proprie
forze per superbia, cacciandosi in mezzo ai pericoli e alle occasioni di
peccato; si dimentica in tal caso che chi si espone al pericolo, vi soccombe.
Nostro Signore ci promette la vittoria ma a patto che sappiamo vigilare e
pregare: “Vigilate et orate ut non intretis in tentetionem” 1201-2; S. Paolo, così fidente nella grazia di
Dio, pure ci avverte che bisogna operare la nostra salvezza con timore e
tremore: “Cum metu et tremore vestram salutem operamini” 1201-3.
b) Altri, al contrario, sono esposti allo scoraggiamento e
talora alla disperazione. Spesso tentati e qualche volta vinti nella
lotta o torturati dagli scrupoli, si disanimano, pensando di non poter riuscire
a correggersi, e cominciano a disperare della propria salvezza. È disposizione
pericolosa contro cui bisogna premunirsi; si ricordi quindi che S. Paolo,
tentato egli pure e persuaso che da solo non avrebbe potuto resistere,
s’abbandonava fiducioso nella grazia di Dio: “gratia Dei per Jesum
Christum” 1201-4. Ad esempio dunque dell’Apostolo, preghiamo e
saremo liberati.
1202. B) Scansati questi scogli, resta a
praticare il distacco dai beni terreni onde pensare spesso al paradiso e
desiderarlo. Tanto vuole da noi S. Paolo: “Si consurrexistis cum
Christo, quæ sursum sunt quærite, ubi Christus est in dexterâ Dei sedens, quæ
sursum sunt sapite, non quæ super terram” 1202-1. Risorti con Gesù Cristo, nostro capo, non
dobbiamo più cercare e gustare le cose della terra, ma quelle del cielo, ove
Gesù ci aspetta. Il cielo è la patria, la terra non è che un esilio; il cielo è
il nostro fine e la vera nostra felicità, mentre la terra non può darci che
effimeri diletti.
1203. 3° I proficienti praticano non solo la
speranza ma la filiale confidenza in Dio, appoggiandosi su Gesù Cristo,
divenuto centro della loro vita.
A) Incorporati a questo capo divino, aspettano con invincibile
confidenza quel paradiso ove Gesù prepara loro un posto “quia vado parare
vobis locum” 1203-1, e dove sono già in isperanza nella persona del
Salvatore “spe enim salvi facti sumus” 1203-2. a) L’aspettano anche tra le
avversità e le prove della vita, ripetendo col Salmista: “Non timebo
mala, quoniam tu mecum es” 1203-3. Infatti Nostro Signore, che vive in loro,
viene a confortarli con le parole dette già altra volta agli Apostoli: “Pax
vobis, ego sum, nolite timere” 1203-4.
Se le molestie vengono da intrighi e da persecuzioni,
richiamiamo alla mente ciò che S. Vincenzo de’ Paoli diceva ai suoi:
“Quand’anche tutta la terra ci si levasse contro per perderci, non avverrà se
non ciò che piacerà al Signore, in cui abbiamo riposto la nostra
speranza” 1203-5. Se subiscono perdite temporali,
ripetono con lo stesso santo: “Tutto ciò che Dio fa, lo fa pel nostro meglio,
onde dobbiamo sperare che questa perdita ci sarà giovevole, perchè viene da
Dio” 1203-6. Se patiscono dolori fisici o morali, li
considerano come benedizioni divine destinate a farci comprare il paradiso a
prezzo di qualche passeggero dolore.
1204. b) Sanno pure, con questa confidenza,
sfuggire alla stretta dei diletti e dei mondani trionfi, che è ancor più
pericolosa di quella del dolore. “Quando pare che la vita sorrida alle nostre
terrene speranze, è cosa dura rigettar queste lusinghiere promesse che ci
prendono dal lato debole; è cosa dura sottrarsi agli amplessi del piacere e dire
alla felicità che ci si offre: “tu non mi potresti bastare” 1204-1. Ma il cristiano rammenta che i mondani diletti
sono fallaci, che son fatti per soffocar lo slancio verso Dio; onde, a sfuggirne
la stretta, si dà alla pratica di mortificazioni positive e soprattutto va a
cercare in una più intima amicizia con Nostro Signore diletti più puri e più
santificativi: “esse cum Jesu dulcis paradisus” 1204-2.
c) Se si sentono inquieti per il sentimento delle proprie
miserie ed imperfezioni, meditano le parole di S. Vincenzo
de’ Paoli:
“Voi mi parlate delle vostre miserie. Ahimè! e chi non ne è pieno? Tutto sta
nel conoscerle e nell’amarne l’abiezione, come fate voi, senza fermarvisi che
per fissarvi il saldo fondamento della confidenza in Dio, perchè allora
l’edifizio è fabbricato sulla roccia, per guisa che, al venir della tempesta,
rimane fermo” 1204-3. Le nostre miserie infatti chiamano la
misericordia di Dio quando noi la invochiamo con umiltà, e non fanno che
metterci nella disposizione migliore per ricevere le grazie divine.
S. Vincenzo aggiungeva che, quando Dio ha cominciato a fare del bene a una
creatura, glielo continua sino alla fine, se essa non se ne rende troppo
indegna. Quindi le misericordie passate sono un pegno delle future.
1205. B) La speranza ci fa vivere abitualmente
con lo spirito nel cielo e per il cielo. Secondo la bella preghiera che
la Chiesa ci fa recitare il giorni dell’Ascensione, noi con lo spirito dobbiamo
già abitare nel cielo: “ipsi quoque mente in cælestibus
habitemus“; il che vuol dire che dobbiamo volgere il desiderio e il
cuore: “ut inter mundanas varietates ibi nostra fixa sint corda ubi vera sunt
gaudia“. Ed essendo le delizie della santa comunione un saggio della
felicità del cielo, là andremo a cercare le vere consolazioni di cui il cuore ha
bisogno.
1206. C) Questo pensiero ci farà chiedere
spesso con fidente preghiera il dono della perseveranza finale, che è il
più prezioso di tutti i doni. È vero che non possiamo meritarlo, ma possiamo
ottenerlo dalla divina misericordia; al che basta del resto ce ci uniamo alle
preghiere onde la Chiesa ci fa chiedere la grazia d’una buona morte, per esempio
l’Ave Maria, che recitiamo così spesso, ove imploriamo la protezione
speciale della Madonna per l’ora della morte “et in hora mortis nostræ.”
4° I perfetti praticano la confidenza in Dio col santo
abbandono che descriveremo trattando della via unitiva.
ART. III. LA VIRTÙ DELLA
CARITÀ 1207-1.
1207. La virtù della carità rende soprannaturale e
santifica il sentimento dell’amore, amore verso Dio, amore veri il
prossimo. Fatte alcune osservazioni preliminari sull’amore, tratteremo:
-
1° della
carità verso Dio;
-
2° della
carità verso il prossimo;
-
3° del
Sacro Cuore di Gesù, modello dell’una e dell’altra.
Osservazioni preliminari.
1208. 1° L’amore in generale è un moto, una
tendenza dell’anima verso il bene. Se il bene a cui tendiamo è sensibile
e percepito dall’immaginazione come dilettevole, l’amore sarà anch’esso
sensibile; se il bene è onesto e conosciuto dalla ragione come degno di
stima, l’amore sarà razionale; se il bene è soprannaturale e percepito
per mezzo della fede, l’amore sarà cristiano.
Come si vede, l’amore suppone la conoscenza, ma non sempre è a lei
proporzionato, come altrove spiegheremo.
Nell’amore, quale che sia, si possono distinguere quattro elementi
principali: 1) una certa simpatia per l’oggetto amato, che nasce dal
vedere una proporzione o corrispondenza tra noi e lui: corrispondenza che non
importa intiera somiglianza tra i due amici, ma una proporzione tale che l’uno è
di compimento all’altro; 2) un moto o slancio dell’anima
verso l’oggetto amato, per avvicinarsi a lui e goderne la presenza; 3) una
certa unione o comunione delle menti e dei cuori per comunicarsi i beni
che si possiedono; 4) un sentimento di gaudio, di piacere o di
felicità che si prova nel possesso dell’oggetto amato.
1209. L’amore cristiano è l’amore fatto
soprannaturale nel principio, nel motivo, nell’oggetto.
a) È fatto soprannaturale nel principio con la virtù infusa
della carità che risiede nella volontà: virtù che, mossa dalla grazia attuale,
trasforma l’amore onesto elevandolo a grado superiore.
b) La fede ci porge allora un motivo soprannaturale per
santificare i nostri affetti: dirigendoli primieramente verso Dio, in cui mostra
il bene supremo, infinito, che solo risponde a tutte le legittime nostre
aspirazione; e poi verso le creature, che ci presenta come riflesso
delle divine perfezioni, tanto che amandole amiamo Dio stesso.
c) Onde anche l’oggetto del nostro amore diviene così
soprannaturale: il Dio che amiamo non è il Dio astratto della ragione ma il Dio
vivente della fede, il Padre che da tutta l’eternità genera un Figlio e che ci
adotta per figli; il Figlio, uguale al Padre, che incarnandosi diventa nostro
fratello; lo Spirito Santo, mutuo amore del Padre e del Figlio, che viene a
effondere nelle anime nostre la divina carità. Le stesse creature non ci
appaiono più nel loro essere naturale, ma quali ce le mostra la rivelazione;
così gli uomini sono per noi figli di Dio, comune nostro Padre, fratelli in Gesù
Cristo, tempii viventi dello Spirito Santo. Tutto è dunque soprannaturale
nell’amore cristiano.
Secondo S. Tommaso 1209-1, la carità aggiunge all’amore l’idea di una
certa perfezione che proviene da grande stima per l’oggetto amato. Quindi ogni
carità è amore, ma non ogni amore è carità.
1210. 3° Si può definire la carità: una
virtù teologale che ci fa amar Dio come egli ama sè, sopra ogni cosa, per se
stesso, e il prossimo per amor di Dio.
Questa virtù ha dunque un doppio oggetto: Dio e il prossimo;
due oggetti però che ne fanno un solo, perchè non amiamo le creature se non in
quanto sono espressione e riflesso delle divine perfezioni; Dio quindi amiamo in
loro; onde, come aggiunge S. Tommaso 1210-1, amiamo il prossimo perchè
Dio è in lui
o almeno perchè sia in lui. Ecco perchè la virtù della carità è una sola.
§ I. Dell’amor di Dio.
Ne esporremo:
-
1° la
natura;
-
2° l’efficacia
santificatrice;
-
3° il
modo progressivo di praticarlo.
I. La natura.
1211. Primo oggetto della carità è Dio: essendo la
pienezza dell’essere, della bellezza e della bontà, egli è infinitamente
amabile. È Dio considerato in tutta l’infinita realtà delle sue perfezioni, non
questo o quell’attributo divino in particolare. Del resto anche la
considerazione di un attributo solo, come sarebbe la misericordia, ci conduce
facilmente alla considerazione di tutte le divine perfezioni. Non è poi
necessario conoscerle tutte distintamente; le anime semplici amano il
signore quale ce lo porge la fede, senza analizzarne gli attributi.
Par chiarire la nozione dell’amor di Dio, spiegheremo il precetto
che ce l’impone, il motivo
su cui si fonda e i vari gradi
con cui giungiamo al puro amore.
1212. 1° Il precetto. A)
Espresso già nel Vecchio Testamento, venne rinnovato da Nostro Signore e da lui
proclamato come compendio della Legge e dei Profeti: “Amerai il Signore Dio tuo
con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutte le tue forze, con tutta
la tua mente”. Vale a dire che dobbiamo amar Dio sopra tutte le cose e con tutte
le facoltà dell’anima.
Il che viene molto bene spiegato da S. Francesco di Sales 1212-1: “È l’amore che deve prevalere su tutti i
nostri amori e regnare su tutte le nostre passioni; questo Dio richiede da noi:
che tra tutti i nostri amori il suo sia il più cordiale, che signoreggi
tutto il nostro cuore; il più affettuoso, che occupi tutta la nostra
anima; il più generale, che adopri tutte le nostre facoltà; il più
nobile, che riempia tutta la nostra mente; e il più fermo, che
eserciti ogni nostra forza e vigore”. E conchiude con un magnifico slancio
d’amore: “Sono vostro, o Signore, e non devo essere che vostro; vostra è l’anima
mia e non deve vivere che per voi; vostra è la mia volontà e non deve amare che
per voi; vostro è il mio amore e non deve tendere che a voi. Io vi devo amare
come primo mio principio, perchè sono da voi; vi devo amare come mio fine e mio
riposo, perchè sono destinato a voi; vi devo amare più dell’essere mio, perchè
il mio essere sussiste per voi; vi devo amare più di me stesso, perchè sono
tutto per voi e in voi”.
1213. B) Il precetto della carità è dunque
molto esteso: in sè non ha limiti, perchè la misura d’amar Dio è
d’amarlo senza misura; onde ci obbliga a tendere continuamente alla
perfezione, n. 353-361, e la nostra carità deve crescere sempre sino
alla morte. Secondo la dottrina di S. Tommaso 1213-1, la perfezione della carità è
comandata come fine, onde si deve volerla ottenere; ma, osserva il
Gaetano, “appunto perchè è fine, basta, per non mancare al precetto, porsi in
condizione da poter giungere un giorno a questa perfezione, fosse pur
nell’eternità. Onde chiunque possiede, anche in minimo grado, la carità e
cammina verso il cielo, è nella via della carità perfetta, perchè cammina verso
quella patria dove questa carità sarà perfetta”. E così si evita la
trasgressione del precetto, la cui osservanza è necessaria alla salute.
Nondimeno le anime che mirano alla perfezione non si contentano del
primo grado, ma salgono sempre più in alto, studiandosi d’amar Dio non solo con
tutta l’anima ma anche con tutte le forze. Al che del resto ci porta il motivo
della carità.
1214. 2° Il motivo della
carità non è il bene che uno ha ricevuto o che aspetta da Dio, ma l’infinita
perfezione di Dio, almeno come motivo sostanzialmente predominante.
Altri motivi vi si possono quindi aggiungere: di timore salutare, di speranza,
di riconoscenza, purchè il motivo indicato sia veramente predominante. Onde
l’amor di sè, subordinato che sia all’amor di Dio, si concilia con la
carità. Quando dunque i santi condannano si vivamente l’amor di sè o l’amor
proprio, intendono dell’amor disordinato.
1215. A) Ma non si può
ammettere l’opinione del Bolgeni, il quale pretende che la sola carità possibile
ed obbligatoria sia quella che ha per motivo la bontà di Dio verso di
noi, perchè, egli dice, noi non possiamo amare se non ciò che percepiamo
come conforme ai nostri bisogni e alle aspirazioni nostre. L’autore confuse ciò
che è previa condizione col vero motivo della carità. È vero che l’amore
suppone di per sè che l’oggetto amato sia corrispondente alla nostra natura e
alle nostra aspirazioni, ma il motivo per cui l’amiamo, non è questa
convenienza, sì l’infinita perfezione di Dio amata per se stessa.
Anche qui S. Francesco di Sales espone bene la retta
dottrina 1215-1: “Se, per ipotesi impossibile, vi fosse una
bontà infinita con cui non avessimo alcuna sorta di relazione nè potessimo con
lei in modo alcuno comunicare, noi la stimeremmo certamente più di noi stessi,
ma, propriamente parlando, non l’ameremmo, perchè l’amore mira all’unione;
carità è amicizia e l’amicizia non può essere che reciproca, avendo per
fondamento la comunicazione e per fine l’unione”.
1216. B) Si è fatta la questione se basti il
motivo della riconoscenza per la carità perfetta. Qui bisogna
distinguere: se la riconoscenza non va oltre il beneficio ricevuto e non
s’inalza allo stesso benefattore, non basta come motivo di carità, perchè rimane
interessata; ma se dall’amore del beneficio si passa all’amore del benefattore,
amandolo per l’infinita sua bontà, questo motivo si confonde con quello della
carità.
Infatti, la riconoscenza conduce agevolmente all’amor puro, perchè è
sentimento nobilissimo; ond’è che la Scrittura e i Santi ci propongono spesso i
benefici di Dio per eccitarci all’amor di carità. Così S. Giovanni, dopo
aver detto che l’amor perfetto bandisce il timore, ci esorta ad amar Dio,
“perchè Dio ci amò per il primo: quoniam Deus prior dilexit
nos” 1216-1. Quante anime infatti impararono ad amar Dio
col più puro amore, ripensando all’amore mostratoci da lui da tutta l’eternità e
meditando sull’amor di Gesù per noi nella Passione e nell’Eucarestia?
Chi volesse un criterio per distinguere l’amor puro
dall’amor interessato, si può dire che il primo consiste nell’amar Dio
perchè è buono e nel voler del bene a lui; e il secondo consiste
nel amar Dio in quanto è buono per noi e nel voler del bene a noi.
1217. 3° Rispetto ai gradi
dell’amore, S. Bernardo ne distingue quattro 1217-1: 1) L’uomo prima ama sè per se stesso;
perchè è carne e incapace di gustare altra cosa fuori di sè. 2) Poi,
sentendo la propria insufficienza, comincia a cercar Dio con la fede e ad amarlo
come aiuto necessario; in questo secondo grado ama Dio non ancora per Dio ma per
se stesso. 3) Ma presto, a forza di coltivare e di frequentar Dio come
aiuto necessario, vede a poco a poco quanto dolce è Dio e comincia ad amar Dio
per Dio. 4) Infine l’ultimo grado, a cui ben pochi pervengono sulla terra,
è di amar sè unicamente per Dio, e quindi amar Dio esclusivamente per Dio.
Lasciando da parte il primo grado, che non è se non amor proprio, restano tre
gradi di amor di Dio, che corrispondono ai tre gradi di perfezione già da noi
esposti, nn. 340;
624
e 626.
NOTE
1190-1 S. Tommaso, IIª
IIæ, q. XVII-XXII, e i suoi Commentatori, specialmente il
Cajetano e Giov. di S. Tommaso; Suarez, De Spe; S. Fr. di Sales,
Teotimo, l. II, c. XV, XVII;
Scaramelli, op.
cit., art. II; Card. Billot, op.
cit, th. XXV-XXX; Mgr Gay, t. I, tr. V;
C. de Smedt, op.
cit., t. I, p. 272-364; Mgr d’Hulst, Quaresimale
1892; P. Janvier, Quaresimale 1913 (Marietti, Torino).
1192-1 Joan., XVII, 3.
1196-1 Eccli., II, 11-12.
1196-2 Matth., VIII, 10-13.
1196-3 Matth., IX, 2.
1196-4 Matth., IX, 29.
1196-5 Matth., XV, 28.
1196-6 Luc., VII, 50.
1196-7 Luc., XVII, 19.
1196-8 Joan., XVI, 23.
1196-9 Trident., sess. VI, c. 13.
1197-1 I Cor., IX, 25.
1198-1 Rom., VIII, 31.
1199-1 Rom., VIII, 32-44.
1200-1 I Cor., III, 9.
1200-2 I Cor., XV, 10; Phil.,
III, 13, 14.
1200-3 II Cor., VI, 1.
1200-4 II Tim., II, 3.
1200-5 II Petr., I, 10.
1201-1 Ps. CXVIII, 163.
1201-2 Marc., XIV, 38.
1201-3 Phil., II, 12.
1201-4 Rom., VII, 24-25.
1202-1 Col. III, 1-2.
1203-1 Joan., XIV, 2.
1203-2 Rom., VIII, 24.
1203-3 Ps., XXII, 4.
1203-4 Luc., XXIV, 36.
1203-5 Maynard, Virtù e
dottrina etc., p. 10.
1203-6 Idibem.
1204-1 Mgr d’Hulst, Quaresimale 1892, (Marietti, Torino).
1204-2 De Imitat., l. II, c. 8.
1204-3 Maynard, Virtù e
dottrina etc.
1207-1 S. Bernardo, De diligendo
Deo; S. Tommaso IIª IIæ, q. 23-44;
Salmanticenses, tr. XIX; De caritate theologica; S. Fr. di Sales,
Teotimo; Massoulié, Tr.
de l’amour de Dieu; Scaramelli, op.
cit., art. III; Card. Billot, op.
cit., th. XXXI-XXXV; Mgr Gay, op.
cit., t. II, tr. XII; C. de Smedt, op.
cit., t. I, p. 365-493; Mgr d’Hulst, Quaresimale, 1892;
P. Janvier, Quaresimale, 1915 e 1916 (Marietti, Torino); P. Garrigou-Lagrange,
Perfect. chrét., t. I, ch. III.
1209-1 S. Tommaso, Sum.
Theol., IIª IIæ, q. 27, a. 2.
1210-1 “Sic enim proximus caritate
diligitur, quia in eo Deus est vel ut in eo Deus sit” (qq. disp, de
Caritate, a. 4.)
1212-1 Il Teotimo o Trattato
dell’amor di Dio, l. X, c. VI, X (Salesiana, Torino).
1213-1 Sum. Theol., IIª
IIæ, q. 184, a. 3; Comment. del Gaetano su questo
articolo; Cardin. Mercier, La vita interiore, (Fiorentina,
Firenza); P. Garrigou-Lagrange, Perfect. chrét., t. I, p. 217-227.
1215-1 Il Teotimo o Trattato
dell’amor di Dio, l. X, c. X (Salesiana, Torino).
1216-1 I Joan., IV, 19.
1217-1 De diligendo Deo, c. XV;
epist. XI, n. 8.