Compendio di Teologia Ascetica e Mistica [11]

…Il desiderio della perfezione. Della conoscenza di Dio e di sé stesso. La conformità alla volontà di Dio. La preghiera….

Compendio di Teologia Ascetica e Mistica


 


ART. I. DEI MEZZI INTERNI DI PERFEZIONE.


 


I. Il desiderio della perfezione


 


409. Il primo passo verso la perfezione è quello di sinceramente, ardentemente e costantemente desiderarla. A ben persuadercene, studiamone: 1° la natura; 2° la necessità ed efficacia; 3° le qualità; 4° i mezzi di alimentarlo.


 


I. Natura di questo desiderio.


 


410. 1° Il desiderio in generale è un movimento dell’anima verso un bene assente; differisce quindi dalla gioia, che è la soddisfazione di possedere un bene presente. Ve n’è di due specie: il desiderio sensibile, che è uno slancio appassionato verso un bene sensibile assente: il desiderio razionale, che è un atto della volontà che si volge con ardore verso un bene spirituale. ‑ Questo desiderio reagisce talora sulla sensibilità e s’informa quindi di sentimento. Nell’ordine soprannaturale i nostri buoni desideri subiscono l’influsso della divina grazia, come più sopra abbiamo detto.


411. 2° Il desiderio della perfezione si può quindi definire: un alto della volontà che, sotto l’influsso della grazia, aspira continuamente al progresso spirituale. Ouest’atto è talora accompagnato da emozioni, da pii sentimenti che intensificano il desiderio[1]; ma tale elemento non è necessario.


412. 3° desiderio nasce dalla concorde azione della grazia e della volontà. Dio ci ama da tutta l’eternità e brama quindi di unirsi a noi: “Et in caritate perpetua dilexi te; ideo attraxi te, miserans[2]“. Con instancabile amore ci cerca, ci insegue, come se non potesse essere felice senza di noi. D’altra parte, quando l’anima nostra, illuminata dalla fede, si ripiega su sé stessa, sente un vuoto immenso che nulla può colmare: nulla tranne l’infinito, tranne Dio: “Fecisti nos ad te, Deus, et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te”[3]. Sospira quindi a Dio, all’amor divino, alla perfezione, come il cervo sitibondo sospira la fonte d’acqua viva: “Quemadmodum desiderat cervus ad fontes aquarum, ita desiderat anima mea post le… Sitivit in te anima mea “[4] … E poiché sulla terra questo desiderio non è mai intieramente appagato, restandoci sempre da progredire verso l’unione divina, ne segue che, se non vi mettiamo ostacoli, andrà continuamente crescendo.


413. 4° Sventuratamente molti ostacoli tendono a soffocarlo o almeno a diminuirlo: è la triplice concupiscenza, già da noi descritta (al n. 193), è l’orrore delle difficoltà da vincere e degli sforzi da rinnovare per corrispondere alla grazia e progredire. E’ quindi necessario convincersi bene della sua necessità e prendere ì mezzi per ravvivarlo.


 


II. Sua necessità ed efficacia.


 


414. 1° Necessità. Il desiderio è il primo passo verso la perfezione, la condizione sine qua non per arrivarvi. Arduo è il cammino della perfezione, e suppone sforzi energici e costanti poiché, come dicemmo, non si può progredire nell’amor di Dio senza sacrifici, senza lottare contro la triplice concupiscenza e contro la legge del minimo sforzo. Ora uno non si avvia per cammino difficile e ripido se non ha ardente desiderio di giungere alla meta; e, avviatosi, presto l’abbandonerebbe se non fosse sorretto nello sforzo dallo slancio dell’anima verso la perfezione.


A) Tutto quindi. nella Sacra Scrittura tende a eccitare in noi questo desiderio. Nel Vangelo come nelle Epistole è una continua esortazione alla perfezione. Come già dimostrammo parlando dell’obbligo di tendere alla perfezione, i testi che provano questa necessità hanno per iscopo di stimolare in noi il desiderio del progresso. Se ci si dà come ideale l’imitazione delle divine perfezioni e come modello lo stesso Gesù, se ce se ne narrano le virtù e siamo sollecitati ad imitarlo, non è forse per eccitare in noi il desiderio della perfezione?


415. B) La Sacra Liturgia non procede altrimenti. Richiamando nel corso dell’anno le varie fasi della vita di Nostro Signore, ci fa esprimere i più ardenti desiderii: per la venuta del regno di Gesti nelle anime nel tempo d’ Avvento; pel suo accrescimento nei nostri cuori da Natale all’Epifania; per gli esercizi di penitenza, come preparazione alle grazie della Risurrezione, dalla Settuagesima a Pasqua; per l’intima unione con Dio nel tempo pasquale; per i doni dello Spirito Santo a partire dalla Pentecoste. Cosicché, durante tutto l’anno liturgico, non fa che stimolare in noi il desiderio di progresso spirituale ora sotto una forma ora sotto un’ altra.


416. C) L’esperienza che sì acquista leggendo le vite dei Santi o dirigendo le anime, ci mostra che, senza il desiderio della perfezione frequentemente rinnovato, le anime non progrediscono. nelle vie spirituali. È ciò che ci dice S. Teresa[5]: È cosa di grande importanza che non rimpicciniamo i nostri desideri. Crediamo fermamente che, con l’aiuto divino e per via di sforzi,. potremo col tempo acquistare anche noi ciò che tanti santi, aiutati da Dio, riuscirono ad ottenere. Se non avessero mai concepito simili desideri e non. li avessero. messi adagio adagio in pratica, non sarebbero mai saliti così in alto… Oh! quanto importa nella vita spirituale di animarsi a grandi cose! ” La Santa stessa ne è notevole esempio: finché non si risolvette a spezzare tutti i legami che ne ritardavano lo slancio verso ‘la vetta, della perfezione, si trascinò penosamente nella mediocrità; ma dal dì che risolvette di darsi intieramente a Dio, fece mirabili progressi.


417. La pratica della direzione conferma l’insegnamento dei santi. Quando si incontrano anime generose che hanno umile e perseverante desiderio di progredire nelle vie spirituali, gustano e praticano i mezzi di perfezione che loro si suggeriscono. Se invece nullo o debole è questo desiderio, presto si vede che anche le più premurose esortazioni fanno poco effetto; l’alimento dell’anima, come quello del corpo, non reca profitto se non a coloro che ne hanno fame e sete: Dio ricolma dei suoi beni quelli che se ne mostrano affamati, ma non li distribuisce che parcamente a coloro che non se ne curano Esurientes implevit bonis et divites dimisit inanes[6].


Il che risulta pure dall’efficacia di questo desiderio.


418. 2° Efficacia del desiderio della perfezione. Questo desiderio è una vera forza che ci fa avanzare verso una vita migliore.


a) La psicologia infatti dimostra che l’idea, quando è profonda, tende a provocar l’allo che le corrisponde. Ciò che è anche più vero quando il pensiero è accompagnato dal desiderio: perché il desiderio è già un atto della volontà che mette in moto le nostre facoltà esecutive. Desiderare quindi la perfezione è già un tendervi; e il tendervi è un principio di attuazione. Il desiderare d’amar Dio è già un amarlo, perché Dio vede il fondo del cuore e ci tien conto di tutte le buone intenzioni. Di qui quel profondo detto di Pascal: ” Tu non mi cercheresti, se non m’avessi già trovato “. Ora il desiderare è un cercare e chi cerca trova Omnis enim qui quaerit, invenit”[7].


419. b) Inoltre, nell’ordine soprannaturale il desiderio è una preghiera, un’ascensione dell’anima verso Dio, una specie di comunione spirituale con Lui, che innalza l’anima a Dio e l’attira a noi. Ora Dio si compiace d’esaudire le nostre preghiere, massimamente quando hanno per fine la nostra santificazione che è il desiderio più ardente del suo cuore ” haec est enim voluntas Dei, sanctificatio vestra[8]. E’ questa la ragione per cui Dio nel Vecchio Testamento ci sollecita a cercare, a inseguire la sapienza, cioè la virtù, fa le più belle promesse a quelli che ne ascoltano la voce e generosamente la concede a quelli che la desiderano: “propter hoc optavi, et datus est mihi sensus; et invocavi, et venit in me spiritus sapientiae”[9]. E nel Vangelo, Nostro Signore c’invita a saziare in Lui la nostra sete spirituale: ” Si quis sitit, veniat ad me et bibat [10]. Quanto dunque sono più ardenti i nostri desideri, tanto maggiori grazie riceviamo, perché inesauribile è la sorgente dell ‘acqua viva.


420. c) Finalmente il desiderio, dilatando l’anima, la rende più atta alle divine comunicazioni. Da parte di Dio c’è tale pienezza di bontà e di grazie, che la misura che ci viene concessa è largamente proporzionata alla nostra capacità a ricevere. Quanto più dunque con sinceri e ardenti desideri dilatiamo l’anima, tanto più ella è atta a ricevere della divina pienezza: “Os meum aperui et attraxi spiritum… Dilata os tuum et implebo illud..”[11].


 


III. Qualità che deve avere il desiderio della perfezione.


 


Per produrre questi lieti effetti, il desiderio della perfezione dev’essere soprannaturale predominante, progressivo e pratico.


421. 1° Dev’essere soprannaturale tanto nel suo motivo quanto nel suo principio:


a) Nel suo motivo, vale a dire che deve fondarsi sulle ragioni forniteci dalla fede da noi già sopra esposte: la natura e l’eccellenza della vita cristiana e della perfezione, la gloria di Dio, l’edificazione del prossimo, il bene dell’anima ecc.


b) Nel suo principio, nel senso che deve compirsi sotto l’azione della grazia, la quale sola può darci la luce a intendere e gustare questi motivi, e la forza necessaria per operare secondo le nostre convinzioni. E poiché la grazia s’ottiene con la preghiera, è necessario chiedere con insistenza a Dio che accresca in noi questo desiderio di perfezione.


422. 2° Dev’essere predominante, o, in altri termini, più intenso di ogni altro desiderio. Essendo infatti la perfezione cristiana il tesoro nascosto e la perla preziosa che bisogna comperare ad ogni costo, e a ogni grado di perfezione cristiana corrispondendo un grado di gloria, di visione beatifica e d’amore, bisogna desiderarla e ricercarla più d’ogni altra cosa: ” Quaerite ergo primum regnum Dei et justitiam ejus [12].


423. 3° Costante e progressivo: essendo la perfezione lavoro di lunga lena che richiede perseveranza e progresso, bisogna costantemente rinnovare il desiderio di far meglio. A questa la ragione per cui Nostro Signore ci dice di non guardare indietro a vedere il cammino già fatto e fermarci con compiacenza sugli sforzi già compiuti: ” Nemo mittens manum suam ad aratrum et respiciens retro, aptus est regno Dei”[13]. Bisogna invece, come dice S. Paolo, guardare innanzi per vedere il cammino che ci resta da percorrere e tendere le forze come il corridore che tende le braccia in avanti per meglio toccar la meta: “quae quidem retro sunt obliviscens, ad ea quae sunt priora extendens meipsum, ad destinatum prosequor bravium supernae vocationis[14]. Più tardi S. Agostino insisterà molto su questa stessa verità: perché, dice, l’arrestarsi è un indietreggiare; l’indugiarsi a contemplare il cammino percorso è un perdere l’ardore. Mirar sempre a far meglio, andar sempre avanti, tal è il motto della perfezione: ” Noli in via remanere, noli deviare… Semper adde, semper ambula, semper profice [15].


È dunque necessario contemplare non il bene che si è fatto ma quello che resta da fare; considerare non quelli che fanno meno bene di noi ma quelli che fanno meglio, i fervorosi, i santi, e sopratutto il Santo per eccellenza, Gesti stesso, che è il vero nostro modello. Allora quanto più uno va innanzi, tanto più si sente lontano dalla meta, appunto perché vede meglio quanto alta sia cotesta meta[16].


Non ci dev’essere però nulla nei nostri desideri di troppo affaccendato e di febbrile e sopratutto nulla di presuntuoso; gli sforzi violenti non durano, e i presuntuosi presto s’avviliscono alle prime disfatte. Ciò che ci fa progredire è un desiderio calmo, riflessivo, fondato su forti convinzioni, appoggiato sull’onnipotenza della grazia e rinnovato di frequente.


424. 4° Allora riesce pratico ed efficace, perché non prende di mira un ideale impossibile ad attuarsi ma i mezzi che sono a nostra portata. Vi sono anime che hanno un ideale magnifico ma puramente speculativo, che aspirano ad alta santità ma che trascurano i mezzi per arrivarvi. Vi è in ciò un doppio pericolo: uno si può credere già perfetto perché va sognando di perfezione e così inorgoglire; oppure può arrestarsi e cedere. Bisogna invece ricordare l’adagio: “chi vuole il fine vuole anche i mezzi” e pensare che, la fedeltà nelle piccole cose assicura la fedeltà nelle grandi; onde si deve immediatamente applicare il desiderio della perfezione all’azione presente per minima che sia, perché “Qui fidelis est in minimo et in majori fidelis est [17]. Desiderare la perfezione e rimetterne lo sforzo al domani, volersi santificare nelle grandi occasioni e trascurare le piccole, è una doppia illusione che indica mancanza di sincerità o almeno ignoranza della psicologia. L’alto ideale è certamente necessario ma è pur necessaria l’attuazione immediata e progressiva.


 


IV. Mezzi per eccitare questo desiderio della perfezione.


 


425 . Essendo il desiderio della perfezione fondato sopra convinzioni soprannaturali, si può acquistare ed accrescere specialmente con la meditazione e la preghiera. Bisogna quindi innanzi tutto riflettere sulle grandi verità che abbiamo esposto nei capitoli precedenti, sulla natura e sull’eccellenza di questa vita comunicataci da Dio stesso, sulla bellezza e sulle ricchezze di un’anima che coltiva questa vita, sulle delizie che Dio le riserva in cielo; meditare le vite, dei santi che tanto più progredirono quanto più ardente e costante ebbero il desiderio d’avvicinarsi ogni giorno alla perfezione. E per rendere più proficua questa meditazione, bisogna aggiungervi la preghiera, che, attirando la grazia, fa penetrare queste convinzioni nel più intimo dell’anima.


426. 2° Vi sono però circostanze più favorevoli, in cui l’azione della grazia si fa più vivamente sentire. Un accorto direttore spirituale saprà approfittarne per eccitare nei penitenti desideri di perfezione.


a) Così, fin dal primo destarsi della ragione, Dio sollecita il fanciullo a darsi a lui; quanto è importante che genitori e confessori se ne giovino per stimolare e dirigere lo slancio di questi giovani cuori! Lo stesso è a dirsi del momento della prima comunione privata o solenne; del momento in cui si inizia la vocazione o si fa la scelta dello stato di vita; quando si entra in collegio o in Seminario o nel noviziato; oppure quando si riceve il sacramento del matrimonio. In tutte queste circostanze Dio concede grazie speciali e molto importa il corrispondervi generosamente.


427. b) Vi è pure il tempo degli Esercizi spirituali. Il raccoglimento prolungato che li accompagna, le istruzioni che vi si ascoltano, le letture che vi si fanno accompagnate da esami di coscienza e da preghiere, e principalmente le grazie più abbondanti che vi si ricevono, contribuiscono a rinsaldare le nostre convinzioni, ci fanno conoscere meglio lo stato della nostra coscienza e più cordialmente detestare i nostri peccati e le loro cause, suggeriscono più pratiche e più generose risoluzioni, e ci danno nuovo slancio verso la perfezione. A questo modo, l’uso, da alcuni anni, degli esercizi spirituali chiusi[18] è riuscito a formare, così nel clero come fra i secolari, una schiera di uomini scelti, che altra ambizione non hanno se non quella di progredire nella vita spirituale. Anche i direttori dei Seminarii salino quali mirabili effetti producono nei giovani chierici i ritiri spirituali che si fanno al principio di ogni anno e al tempo delle sacre ordinazioni; è quello il momento in cui si formano o si rinnovano o s’intensificano i generosi desideri di vita migliore. E’ quindi cosa importante l’approfittare di queste occasioni per rispondere alla chiamata di Dio e cominciare o, perfezionare la riforma di se stesso.


428. c) Le prove provvidenziali, fisiche o morali, come le malattie, i lutti di famiglia, le angustie dell’animo, i rovesci di fortuna, sono spesso accompagnate da grazie interne che ci stimolano a vita più perfetta. Ci distaccano da tutto ciò che non è Dio, purificano l’anima col dolore, ci fanno desiderare il cielo e la perfezione che ne è la via, a patto però che l’anima si giovi di queste prove per volgersi a Dio.


429. d) Vi sono poi dei momenti in cui lo Spirito Santo produce nelle anime movimenti interiori che le inclinano verso una vita più perfetta: le illumina sulla vanità delle cose umane, sulla felicità di darsi più intieramente a Dio e le stimola a fare sforzi più energici. E’ chiaro che si deve approfittare di queste grazie interiori per accelerare il passo nella via della perfezione.


430. 3° Vi sono finalmente delle pratiche di pietà che tendono di lor natura a stimolare il nostro desiderio di perfezione; e sono:


a) L’esame particolare, che ci obbliga ogni giorno a interiormente concentrarci su un punto speciale, non solo per rilevare le nostre mancanze o i nostri progressi ma anche e principalmente per rinnovare la volontà di progredire nella pratica di questa o di quella virtù (n. 468).


b) La confessione ben fatta, con lo scopo di correggerci di questo o quel difetto (n. 262).


c) Il ritiro mensile o i ritiri annuali, che vengono periodicamente a ritemprarci nel desiderio di far meglio.


 


CONCLUSIONE.


 


431. Coll’uso di questi vari mezzi, serbiamo la volontà costantemente o almeno abitualmente rivolta al progresso spirituale. Così, sorretti dalla grazia di Dio, trionfiamo più facilmente degli ostacoli; avremo certamente talora qualche debolezza, ma, stimolati dal desiderio di progredire, riprenderemo animosamente la marcia in avanti, e le parziali sconfitte, esercitandoci nell’umiltà, non serviranno che a meglio avvicinarci a Dio.


 


II. Della conoscenza di Dio e di sé stesso.


 


432. Poiché la perfezione consiste nell’unione ,dell’anima con Dio, è chiaro che, per arrivarvi, bisogna anzitutto conoscere i due termini dell’unione, Dio e l’anima: la conoscenza di Dio ci condurrà direttamente all’amore: noverim te ut amem te! la conoscenza di noi stessi, facendoci stimare quel tanto di bene che Dio ha posto in noi, ci ecciterà alla riconoscenza; e la vista delle nostre miserie e dei nostri difetti, facendoci concepire un giusto disprezzo di noi stessi, produrrà direttamente l’umiltà, noverim me, ut despiciam me, e quindi pure l’amor di Dio, perché l’unione con Dio non si opera se non nel vuoto di noi medesimi.


 


I. Della conoscenza di Dio.


 


433. Per amar Dio, bisogna prima di tutto conoscerlo: nil volitum quin praecognitum. Quanto più dunque ci applichiamo a studiarne le perfezioni, tanto più il nostro cuore s’infiamma d’amore per lui, perché tutto in lui è amabile: egli è la pienezza dell’essere, pienezza di bellezza, di bontà e d’amore: Deus caritas est. E’ cosa evidente. Resta quindi a determinare: 1° ciò che di Dio dobbiamo conoscere per amarlo; 2° come giungere a questa affettuosa conoscenza.


 


I° Ciò CHE DOBBIAMO CONOSCERE DI DIO.


 


Di Dio dobbiamo conoscere tutto ciò che può farcelo ammirare ed amare, e quindi la sua esistenza, la sua natura, i suoi attributi, le sue opere, specialmente la sua vita intima e le sue relazioni con noi. Nulla di ciò che riguarda la divinità è estraneo alla devozione: anche le stesse verità più astratte hanno un lato affettivo che aiuta singolarmente la pietà. Dimostriamolo con alcuni esempi tratti dalla filosofia e dalla teologia.


434. A) Verità filosofiche. a) Le prove metafisiche dell’esistenza di Dio sono certo molto astratte, pure sono una miniera di preziose riflessioni che conducono all’amor di Dio. Dio, primo motore immobile, atto puro, è la fonte d’ogni movimento; dunque io non posso muovermi che in Lui e per Lui; dunque deve essere il primo principio di tutte le nostre azioni; e se ne è il primo principio, ne deve pur essere l’ultimo fine: Ego sum principium et finis. Dio è la causa prima di tutti gli esseri, di tutto ciò che v’è di buono in me, delle nostre facoltà, dei nostri atti: a Lui solo dunque ogni onore e ogni gloria! Dio è l’Essere necessario, il solo necessario “unum necessarium“; e quindi il solo bene da cercare; tutto il resto è cosa contingente, accessoria, passeggiera, e non può essere utile che in quanto ci conduce a quest’ unico necessario. Dio è l’infinita perfezione e le creature non sono che un pallido riflesso della sua bellezza, è quindi Lui l’ideale a cui mirare: “Estote perfecti sicut et Pater vester caelestis perfectus est”[19]; onde noi non dobbiamo mettere alcun limite alla nostra perfezione: “Io che sono infinito, diceva Dio a S. Caterina da Siena, vado cercando opere infinite, vale a dire un infinito sentimento d’amore “[20].


435. b) Se passiamo poi alla natura divina, il poco che ne conosciamo ci distacca dalle creature e da noi stessi per innalzarci a Dio. Dio è la pienezza dell’essere: “Ego sum qui sum“; il mio essere non è dunque che un essere mutuato, incapace di sussistere da sé, e che deve riconoscere la sua assoluta dipendenza dall’Essere divino. Questo egli voleva inculcare a S. Caterina da Siena, quando le diceva: ” Sai, o figlia mia, ciò che sei tu e ciò che sono io?… Tu sei quella che non è e Io sono Colui che è”. Qual lezione d’umiltà e d’amore!


436. c) Lo nesso è degli attributi divini; non ve n’è alcuno che, ben meditato, non serva a stimolare il nostro amore sotto una forma o sotto un’altra: la divina semplicità ci eccita a praticare quella semplicità o purità d’intenzione che ci fa tendere direttamente a Dio, senza alcun egoistico riguardo a noi stessi; la sua immensità che ci avvolge e compenetra, è il fondamento di quell’esercizio della presenza di Dio che è così caro e così proficuo alle anime pie; la sua eternità ci distacca da tutto ciò che passa, rammentandoci che ciò che non è eterno è nulla: “quod aeternum non est nihil est”; la sua immutabilità ci aiuta a praticare, in mezzo alle umane vicissitudini, quella calma tanto necessaria all’intima e durevole unione con Dio; la sua infinita attività stimola la nostra e c’impedisce di cadere nella noncuranza o in una specie di pericoloso quietismo; la sua onnipotenza, posta a servizio della infinita sua sapienza e della misericordiosa sua bontà, ci ispira una filiale confidenza che agevola in modo singolare la preghiera e il santo abbandono; la sua santità ci fa odiare il peccato e amare quella purità di cuore che conduce all’unione intima con Dio: “Beati mundo corde, quoniam ipsi Deum videbunt”; la infallibile sua verità è il più saldo fondamento della nostra fede; la sua bellezza, la sua bontà, il suo amore ci rapiscono il cuore e vi destano palpiti d’ amore e di riconoscenza. E quindi le anime sante si dilettano di inabissarsi nella contemplazione dei divini attributi: ammirando e adorando le perfezioni di Dio, ne attraggono qualche cosa nell’anima loro.


437. B) Si dilettano principalmente di contemplare le verità rivelate, che riguardano tutte la storia della vita divina: la sua fonte nella SS. Trinità; le sue prime comunicazioni con la creazione e la santificazione dell’uomo; la sua restaurazione con L’Incarnazione; la attuale sua diffusione con la Chiesa e coi Sacramenti; il suo compimento finale nella gloria. Ognuno di questi misteri le rapisce e le infiamma d’amore per Dio, per Gesù, per le anime, per tutte le cose divine.


438. a) La vita divina nella sua fonte è la SS. Trinità: Dio, che è la pienezza dell’essere e della carità, contempla se stesso da tutta l’eternità; contemplandosi produce il Verbo, e questo Verbo è suo Figlio, distinto da Lui ma a Lui perfettamente uguale, vivente e sostanziale sua immagine. Dio Padre ama questo Figlio e ne è riamato; e da questo mutuo amore scaturisce lo Spirito Santo, distinto dal Padre e dal Figlio dai quali procede, e perfettamente uguale all’uno e all’altro. A questa vita noi partecipiamo!


439. b) Essendo infinitamente buono, Dio vuole comunicarsi ad altri esseri: il che fa con la creazione e principalmente con la santificazione. Per la creazione noi siamo servi di Dio, ciò che è per noi già un grande onore; che Dio infatti abbia pensato a me da tutta l’eternità e m’abbia scelto tra miliardi di esseri possibili per darmi l’esistenza, la vita, l’intelligenza, qual motivo d’ammirazione, di riconoscenza e d’amore! Ma che m’abbia poi chiamato a partecipare alla sua vita divina, che m’ abbia adottato in figlio, che mi destini alla chiara visione della sua essenza e a un amore infinito, o non è questo il colmo della carità? E non sarà un potente motivo d’amarlo senza riserva?


440. c) Per colpa del primo padre avevamo perduto i diritti alla vita divina ed eravamo incapaci di ricuperarli da noi stessi. Ma ecco che il Figlio di Dio, vedendo la nostra miseria, si fa uomo come noi, e diventando il capo di un corpo mistico di cui noi siamo le membra, espia i nostri peccati con la dolorosa sua passione e morte di Croce, ci riconcilia con Dio, e fa di nuovo scorrere nelle anime nostre una partecipazione di quella vita da lui attinta nel seno del Padre. Vi è qualche cosa di più atto a farci amare il Verbo Incarnato, a unirci strettamente a Lui, e per Lui al Padre?


441. d) Ad agevolare questa unione, Gesù continua a restare con noi; vi resta per mezzo della Chiesa che ce ne trasmette e ce ne spiega gli insegnamenti. Vi resta per mezzo dei Sacramenti, misteriosi canali della grazia che ci comunicano la vita divina. Vi resta principalmente per mezzo dell’Eucaristia, in cui Gesù perpetua nello stesso tempo la sua presenza, la benefica sua azione e il suo sacrifizio: il suo sacrifizio nella Santa Messa, ove rinnova in modo misterioso la sua immolazione; la benefica sua azione nella Comunione, in cui viene con tutti i suoi tesori di grazia a perfezionare l’anima nostra e a comunicarle le sue virtù; la permanente sua presenza, imprigionandosi volontariamente, giorno e notte, nel tabernacolo, ove possiamo visitarlo, conversare con lui, glorificare con lui l’adorabile Trinità, trovare in lui la guarigione delle nostre spirituali ferite e il conforto nelle nostre tristezze e nei nostri abbattimenti: “Venite ad me omnes qui laboratis et onerati estis, et ego reficiam vos”.[21]


442. e) E questo non è che il preludio della vita consumata in Dio che godremo per tutta l’eternità; lo vedremo un di a faccia a faccia, come egli vede se stesso, e l’ameremo con perfetto amore; e vedremo e ameremo in lui tutto ciò che vi è di grande e di nobile. Usciti da Dio con la creazione, a lui ritorniamo con la glorificazione, e glorificandolo troviamo la perfetta felicità.


Il domma è dunque la fonte della vera devozione e l’alimento; ci rìmane ora a dire che modo dobbiamo giovarcene sotto questo rispetto.


 


2° MEZZI PER ACQUISTARE QUESTA CONOSCENZA di Dio.


 


443. Tre mezzi principali ci sì presentano per acquistare questa affettuosa conoscenza di Dio: 1° il pio studio della filosofia e della teologia; 2° la meditazione o l’orazione: 3° L’abitudine di veder Dio in tutte le cose.


A) Il pio studio della teologia. Si può studiare la filosofia e la teologia in due modi: con la mente soltanto, come si studia ogni altra scienza, oppure con la mente e insieme col cuore. Quest’ ultimo modo è quello che genera la pietà. Quando S. Tommaso s’immergeva nello studio profondo delle grandi questioni filosofiche e teologiche, non lo faceva come uno dei savi della Grecia, ma come discepolo e amante di Cristo; a questo modo, secondo la sua espressione, la teologia tratta delle cose divine e degli atti umani in quanto ci conducono alla perfetta conoscenza di Dio e quindi all’amore: ” de quibus agit secundum quod per eos ordinatur homo ad perfectam Dei cognitionem, in quá aeterna beatitudo consistit”[22]. Ecco perché la sua pietà superava anche la sua scienza. Lo stesso avveniva di S.Bonaventura e dei grandi teologi. A vero che la maggior parte di essi non lasciarono pie riflessioni sui grandi misteri della fede, tenendosi paghi di esporli e di provarli; ma la pietà scaturisce dal fondo stesso di queste verità: e chiunque studi con spirito di fede, non può fare che non ammiri ed ami Colui la cui grandezza e bontà ci viene rivelata dalla teologia. La qual cosa è specialmente vera per coloro che sanno giovarsi dei doni della scienza e dell’intelletto; dei quali il primo ci fa risalire dalle creature a Dio, svelandocene le relazioni con la divinità; e il secondo ci fa penetrare nelle verità rivelate, per coglierne le mirabili armonie.


Con l’aiuto di questi lumi, il pio teologo saprà elevarsi dalle verità più speculative ad atti di adorazione, di ammirazione, di riconoscenza e di amore che sgorgano spontaneamente dallo studio dei dommi cristiani. Questi atti non solo non ne intorpidiranno l’attività intellettuale, ma anzi la affineranno e la stimoleranno: si studia meglio, con maggior attività e costanza, ciò che si ama; vi si scoprono profondità che l’intelligenza sola non riuscirebbe a penetrare; e se ne deducono conseguenze che allargano il campo della teologia, alimentando la pietà.


444. B) Allo studio però bisogna aggiungere la meditazione. Non si meditano abbastanza i dommi cristiani, o almeno non se ne meditano spesso se non gli aspetti accessori. Non bisogna paventare di affrontarli direttamente e nel loro fondo come soggetto principale delle nostre meditazioni[23]. Avviene allora che l’anima, alla luce della fede, sotto l’azione dello Spirito Santo, tocca altezze e scopre profondità che l’intelligenza sola non coglierebbe. Ne abbiamo la prova negli scritti di anime semplici, elevate alla contemplazione, che ci lasciarono su Dio, su Gesù Cristo, sulla sua dottrina, sui suoi sacramenti, osservazioni tali da gareggiare con quelle dei migliori teologi. Del resto non disse S. Tommaso di aver imparato più alla scuola del Crocifisso che nei libri dei dottori? La ragione è che, nel silenzio e nella calma dell’orazione, Dio parla più facilmente al cuore, e che la sua parola, meglio intesa, illumina l’intelligenza, riscalda il cuore e scuote la volontà. In tali momenti lo Spirito Santo si degna di comunicare, oltre i doni della scienza e dell’intelletto, anche quello della sapienza, che fa assaporare le verità della fede, le fa amare e praticare, formando così una strettissima unione tra l’anima e Dio.


E’ quello che venne sì bene descritto dall’autore dell’Imitazione[24]: “Beata l’anima che ascolta il Signore parlargli interiormente e riceve dalla sua bocca parole di consolazione: Beata anima quae Dominus in se loquentem audit, et de ore ejus verbum consolationis accipit…”


Il frequente e affettuoso pensiero di Dio durante il giorno continua e compie i felici effetti dell’orazione: pensando a Dio lo amiamo di più e l’amore affina la nostra conoscenza.


445. C) Allora si contrae più facilmente l’abitudine di innalzarsi dalle creature al Creatore, e di veder Dio in tutte le sue opere: le cose, le persone, gli avvenimenti.


Il fondamento di questa pratica è 1’esemplarismo divino, insegnato da Platone, perfezionato da S. Agostino e da S. Tommaso, posto in luce dalla Scuola di S. Vittore e ripreso poi dalla Scuola francese di spiritualità del secolo XVII[25]. Tutte le cose esistono nel pensiero di Dio prima di essere create: Dio le concepì nella sua intelligenza prima di produrle al di fuori e volle che fossero, in gradi diversi, un riflesso delle divine sue perfezioni. Se contempliamo quindi le cose create non solo con gli occhi del corpo ma anche con gli occhi dell’anima, al lume della fede vedremo:


a) che tutte le creature, secondo il grado di perfezione, sono o un vestigio o un’immagine o una somiglianza di Dio; che tutte ci dicono di aver Dio per autore e c’invitano a lodarlo, non essendo tutto l’essere che è in loro, tutta la loro bellezza


e tutta la loro bontà, che una creata e finita partecipazione dell’essere divino;


b) che specialmente le creature intelligenti, elevate all’ordine soprannaturale, sono immagini, sono viventi somiglianze di Dio, che ne partecipano, benché in modo finito, la vita intellettuale; che essendo tutti i battezzati membri di Cristo, Lui dobbiamo vedere in loro: in omnibus Christus;


c), che tutti gli avvenimenti, lieti o tristi, sono nel pensiero divino destinati a perfezionare la vita soprannaturale da lui comunicataci e a facilitare la raccolta degli eletti, così che di tutto possiamo giovarci per santificarci.


Aggiungiamo tuttavia che, nell’ordine cronologico, le anime vanno prima a Gesù Cristo, e solamente per lui vanno al Padre, e che, arrivate a Dio, non lasciano di tenersi strettamente unite a Gesù.


 


CONCLUSIONE: L’ESERCIZIO DELLA PRESENZA Di Dio.


 


446. L’affettuosa conoscenza di Dio ci conduce al santo esercizio della presenza di Dio, di cui indicheremo brevemente il fondamento, la pratica e i vantaggi.


A) Il fondamento è la dottrina dell’onnipresenza di Dio. Dio è da per tutto non solo con lo sguardo e con l’operazione ma anche con la sostanza. Come diceva S. Paolo agli Ateniesi, ” in lui noi abbiamo la vita, il movimento e l’essere: in ipso enim vivimus, movemur et sumus;[26] il che è vero così sotto l’aspetto naturale come sotto il soprannaturale. Come Creatore, dopo averci dato l’essere e la vita, ce li conserva, e col suo concorso mette in moto le nostre facoltà; come Padre, ci genera alla vita soprannaturale, che è una partecipazione della stessa sua vita, e lavora con noi, come causa principale, alla sua conservazione e al suo incremento, onde sì trova intimamente presente in noi, fin nel centro dell’anima, senza però lasciare di essere distinto da noi. E’ come già dicemmo al n. 92, il Dio della Trinità che vive in noi, il Padre che ci ama come figli, il Figlio che ci tratta come fratelli, e lo Spirito Santo che ci dà e i suoi doni e la sua persona.


B) La pratica. Per trovar dunque Dio non occorre che andiamo a cercarlo in cielo, perché lo troviamo: a) vicinissimo a noi nelle creature che ci circondano; in queste andiamo da principio a cercarlo: tutte infatti ci richiamano qualcuna delle divine perfezioni, massime le creature che, dotate d’intelligenza, possiedono in sé il Dio vivente (n. 92); tutte ci servono come di scalini per giungere a lui; b) rammentiamo poi ch’egli è vicinissimo a coloro che lo pregano con fiducia: “Prope est Dominus omnibus invocantibus eum” e l’anima nostra si diletta di invocarlo ora con semplici giaculatorie ora con preghiere più lunghe.


c) Ma soprattutto rammentiamo che le tre divine persone abitano in noi e che il nostro cuore è un tabernacolo vivente, un cielo ove esse già si danno a noi. Ci basta quindi rientrare in noi stessi, nella cella interiore, come dice S. Caterina da Siena, e fissare con l’occhio della fede l’ospite divino che si degna abitarvi. Allora vivremo sotto il suo sguardo, sotto la sua azione, l’adoreremo e lavoreremo con lui alla santificazione dell’anima nostra.


447. C) E’ facile scorgere quali siano i vantaggi di questa pratica rispetto alla nostra santificazione.


a) Ci fa diligentemente schivare il peccato. Chi mai oserebbe offendere la divina maestà nel momento stesso che sa che Dio abita in lui con la infinita sua santità che non può soffrire la minima macchia, con la sua giustizia che l’obbliga a punire anche le più piccole colpe, con la sua potenza che arma il braccio contro il colpevole, e principalmente con la sua bontà che sollecita il nostro amore e la nostra fedeltà?


b) Stimola il nostro ardore per la perfezione. Se un soldato che combatte sotto gli occhi del generale si sente spinto a moltiplicar le prodezze, come non sentirci pronti alle più dure fatiche, agli sforzi più generosi, quando sappiamo di combattere non solo sotto lo sguardo di Dio ma ‑ con la sua sempre vittoriosa collaborazione? come non sentirci animati dalla corona immortale che ci promette e principalmente dall’aumento d’amore che ci dà come ricompensa?


c) Quale confidenza non ci dà questo pensiero! Quali che siano le prove, le tentazioni, le fatiche, le debolezze, non siam forse sicuri della vittoria finale, quando rammentiamo che Colui che è la stessa onnipotenza e a cui nulla resiste, vive in noi e mette a nostro servizio la divina stia virtù? Possiamo certamente toccar parziali sconfitte, passar per dolorose angosce, ma siamo sicuri che, appoggiati su di lui, trionferemo e che le stesse nostre croci non servono che a farci maggiormente amar Dio e a moltiplicarci i meriti.


d) Finalmente qual gioia per noi il pensare che Colui che forma la felicità degli eletti e che un dì contempleremo nel cielo, è già in nostro possesso, e che possiamo goderne la presenza e conversar con lui nel corso di tutto il giorno?


La conoscenza e il frequente pensiero di Dio sono dunque grandemente santificanti; e lo stesso è della conoscenza di noi stessi.


 


II. Della conoscenza di noi stessi.


 


La conoscenza di Dio ci porta direttamente ad amarlo, perché è infinitamente amabile; la conoscenza di noi stessi vi ci porta indirettamente, mostrandoci il bisogno assoluto che abbiamo di lui a perfezionare le doti da lui largiteci e a rimediare alle profonde nostre miserie. Esporremo dunque di questa conoscenza 1° la necessità;  l’oggetto; i mezzi d’arrivarvi.


 


1°. NECESSITA DELLA CONOSCENZA DI NOI STESSI.


 


Poche parole basteranno a convincercene.


448. A) Chi non conosce sé stesso è nella morale impossibilità di perfezionarsi. Perché allora uno s’illude sul proprio stato, cadendo, secondo il proprio carattere o l’ispirazione del momento, ora in un presuntuoso ottimismo che ci fa credere di essere già perfetti, ora nello scoraggiamento che ci fa esagerare i nostri difetti e le nostre colpe; nell’uno e nell’altro caso quasi identico è il risultato, cioè l’inazione o almeno la mancanza di sforzi energici e perseveranti, vale a dire il rilassamento. ‑ D’altra parte come correggere difetti che punto non si conoscono o si conoscono male, e come coltivare virtù e doti di cui non si ha che una nozione vaga e confusa?


449. B) Invece la chiara e sincera conoscenza dell’anima nostra ci sprona alla perfezione: le nostre doti c’inducono a ringraziarne Dio, corrispondendo più generosamente alla grazia; i nostri difetti e la coscienza della nostra impotenza ci mostrano che abbiamo ancora molto da lavorare e che non convien perdere occasione alcuna di progredire. Allora uno si giova di tutte le occasioni per estirpare o almeno svigorire, mortificare, dominare i propri vizi, per coltivare e svolgere le proprie doti. E avendo coscienza della propria incapacità, si chiede umilmente a Dio la grazia di progredire ogni giorno, e, sorretti dalla fiducia in Dio, si ha la speranza e il desiderio della buona riuscita; il che dà slancio e costanza nello sforzo.


 


2° OGGETTO DELLA CONOSCENZA DI NOI STESSI


 


450. Osservazioni generali. Perché questa conoscenza sia più efficace, è necessario che abbracci lutto ciò che si trova in noi, doti e difetti, doni naturali e doni soprannaturali, inclinazioni e ripugnanze, l’intiera storia della nostra vita, le nostre colpe, i nostri sforzi, i nostri progressi; il tutto studiato senza pessimismo, ma con imparzialità, con retta coscienza illuminata dalla fede.


a) Bisogna quindi rilevar sinceramente, senza falsa umiltà, tutte le doti che il Signore ha posto in noi, non certo per gloriarcene ma per esprimerne riconoscenza al loro autore e per diligentemente coltivarle: sono talenti che Dio ci ha affidati e di cui ci domanderà conto. Il terreno da esplorare è quindi vastissimo, perché comprende e i doni naturali e i doni soprannaturali: quello che avemmo più direttamente da Dio, quello che ricevemmo dai genitori e dall’educazione, quello che dobbiamo ai nostri sforzi sorretti dalla grazia.


451. b) Ma bisogna pure porci coraggiosamente di fronte alle nostre miserie e ai nostri falli. Tratti dal nulla, al nulla continuamente tendiamo; non sussistiamo e non possiamo agire che coll’incessante concorso di Dio. Attirati al male dalla triplice concupiscenza (n. 193 ss.), questa tendenza noi abbiamo accresciuto coi peccati attuali e con le abitudini che ne risultano; bisogna umilmente riconoscerlo, e, senza disanimarci, metterci all’opera, con la grazia di Dio, per guarire queste ferite con la pratica delle virtù cristiane, onde accostarci alla perfezione del Padre celeste.


452. Applicazioni. A ben procedere in questo esame, possiamo ordinatamente percorrere i doni naturali e i soprannaturali, seguendo una specie di questionario che ci agevolerà il lavoro.