Di Adolfo Tanquerey. Parte seconda. Le Tre Vie. LIBRO II. La via illuminativa o lo stato delle anime proficienti. CAPITOLO II. Delle virtù morali.Art. III. La virtù della fortezza. § I. Natura della virtù della fortezza. I. Definizione. II. Gradi della virtù della fortezza. § II. Le virtù alleate della fortezza. I. La magnanimità. II. La munificenza o magnificenza. III. La pazienza. IV. La costanza. § III. Mezzi di acquistare o di perfezionare la virtù della fortezza.
ART. III. LA VIRTÙ DELLA
FORTEZZA 1075-1.
1075. La giustizia, integrata dalla
religione e dall’ubbidienza, regola le nostre relazioni col prossimo; la
fortezza e la temperanza regolano le relazioni con noi stessi. Tratteremo qui
della fortezza, descrivendone:
-
1° la
natura;
-
2° le
virtù alleate che vi si connettono;
-
3° i
mezzi di praticarla.
§ I. Natura della virtù della fortezza.
Ne esporremo:
-
1° la
definizione;
-
2° i
gradi.
I. Definizione.
1076. Questa virtù, che vien detta
fortezza d’animo, forza di carattere, o cristiana virilità, è una virtù
morale soprannaturale che rinsalda l’anima nel perseguire un bene difficile,
senza lasciarsi scuotere dalla paura, neppure dal timor della morte.
A) Il suo oggetto sta nel reprimere le impressioni del
timore che tende a intorpidire gli sforzi per il bene, e nel moderare
l’audacia che, senza di lei, diverrebbe facilmente temerità: “Et ideo
fortitudo est circa timores et audacias, quasi cohibitiva timorum et audaciarum
moderativa” 1076-1.
1077. B) I suoi
atti
si riducono a due principali: intraprendere e sopportar cose
difficili: ardua aggredi et sustinere.
a) La fortezza consiste prima di tutto nell’intraprendere e
nell’eseguire cose difficili: vi sono in fatti sul cammino della virtù e
della perfezione molti ostacoli, difficili a vincersi, sempre rinascenti. Non
bisogna averne paura, anzi affrontarli e fare animosamente lo sforzo necessario
per superarli: è il primo atto della virtù della fortezza.
Quest’atto suppone: 1) risolutezza, per accingersi prontamente a
fare il proprio dovere ad ogni costo; 2) coraggio, per fare sforzi
proporzionati alle difficoltà, generosità via via crescente con queste,
viriliter agendo; 3) costanza, per continuare lo sforzo sino
alla fine, nonostante la persistenza e i contrattacchi del nemico.
b) Ma bisogna pure saper soffrire per Dio le
molteplici prove e difficili che egli ci manda, i patimenti, le malattie, gli
scherni, le calunnie di cui si è vittima.
È spesso cosa anche più difficile dell’operare:
“sustinere difficilius est
quam aggredi,” dice S. Tommaso 1077-1; e ne dà tre ragioni.
1) Il tener duro suppone che uno sia assalito da nemico superiore, invece chi
assale si sente superiore all’avversario; 2) chi sostiene l’urto è già alle
prese con le difficoltà e ne soffre, chi assale invece non fa che prevederle;
ora un male presente è più temibile di quello che solo si prevede; 3) la
resistenza suppone che uno rimanga fermo e duro sotto l’urto, per un tempo
notevole, per esempio quando si è inchiodati a letto da lunga malattia, o quando
si provano violente o lunghe tentazioni; chi invece intraprende una cosa
difficile fa uno sforzo momentaneo, che generalmente non dura poi così a lungo.
II. Gradi della virtù della fortezza.
1078. 1° Gl’incipienti
lottano animosamente contro le varie paure che si oppongono all’adempimento del
dovere:
1) La paura delle fatiche e dei
pericoli, pensando che l’uomo
ha beni più preziosi della fortuna, della salute, della riputazione e della
stessa vita: i beni della grazia, preludio della felicità eterna; onde
conchiudono che bisogna generosamente sacrificare i primi per conquistare i beni
imperituri. Si persuadono che il solo vero male è il peccato; male quindi
che dev’essere schivato ad ogni costo, anche a rischio di tollerar tutti i mali
temporali che potessero rovesciarcisi addosso.
1079. 2) La paura delle
critiche o degli scherni, ossia il rispetto umano, che ci
porta a trascurare il nostro dovere per timore dei giudizi sfavorevoli che si
faranno contro di noi, delle canzonature che si dovranno subire, delle minaccie
che ci scaglieranno addosso, delle ingiurie ed ingiustizie di cui saremo
vittime. Quanti uomini, intrepidi sul campo di battaglia, indietreggiano dinanzi
a queste critiche o a queste minaccie! E quanto importa educar la gioventù al
disprezzo del rispetto umano, a quel maschio coraggio che sa infischiarsi della
pubblica opinione e seguir le proprie convinzioni senza macchia e senza paura!
3) La paura di dispiacere agli amici, che è talora più terribile di
quella d’incorrere la vendetta dei nemici. Eppure bisogna ricordarsi che è
meglio piacere a Dio che agli uomini, che chi ci impedisce di fare intieramente
il nostro dovere è un falso amico e, a voler piacere a lui, si perderebbe la
stima e l’amicizia di Nostro Signore Gesù Cristo: “Si adhuc hominibus
placerem, Christi servus non essem”. 1079-1 A più forte ragione non bisogna
sacrificare il dovere al desiderio di vana popolarità: gli applausi degli
uomini passano; sola durevole, sola veramente degna di noi è l’approvazione di
Dio, giudice infallibile. Concludiamo quindi con S. Paolo che l’unica
gloria da cercare è quella che viene dalla fedeltà a Dio e al dovere: “Qui
autem gloriatur, in Domino glorietur. Non enim qui seipsum commendat, ille
probatus est, sed quem Deus commendat” 1079-2.
1080. 2° Le anime
progredite
nella virtù praticano il lato positivo della fortezza, sforzandosi
d’imitar la forza d’animo onde Gesù ci diede esempio nel corso di sua vita.
1) Questa virtù appare nella vita
nascosta: fin dal primo istante
Nostro Signore si offre al Padre per sostituire tutte le vittime dell’Antica
Legge immolando se stesso per gli uomini. Ben sa che la sua vita sarà così un
martirio; ma questo martirio egli liberamente vuole. Abbraccia quindi con ardore
fin dalla nascita la povertà, la mortificazione e l’obbedienza, si assoggetta
alla persecuzione e all’esilio, si chiude per trent’anni in un’intiera oscurità,
onde meritarci la grazia di santificare le azioni più ordinarie e ispirarci
l’amore dell’umiltà; insegnandoci così a praticar la fortezza e il coraggio
nelle mille piccole circostanze della vita comune.
2) Questa virtù appare nella vita
pubblica: nel lungo digiuno che Gesù
s’impone prima di iniziare il suo ministero, nella vittoriosa lotta che sostiene
contro il demonio; nella predicazione, ove, affrontando i pregiudizi ebraici,
annunzia un regno tutto spirituale, fondato sull’umiltà, sul sacrificio,
sull’abnegazione e insieme sull’amor di Dio; nel vigore con cui sferza gli
scandali e condanna le casuistiche interpretazioni dei Dottori della legge;
nella premura onde fugge una popolarità di cattiva lega e rigetta la dignità
regale che gli si vuole offrire; nel modo dolce insieme e forte con cui forma
gli apostoli, ne raddrizza i pregiudizi, ne corregge i difetti e dà lezione a
colui che scelse come capo del collegio apostolico; in quello spirito di
risolutezza onde sale l’ultima volta a Gerusalemme, ben sapendo di andare
incontro ai patimenti, all’umiliazione e alla morte. Così ci dà esempio di quel
coraggio calmo e costante che dobbiamo praticare in tutte le relazioni col
prossimo.
3) Questa virtù appare nella vita
paziente: in quella dolorosa agonia
in cui, non ostante l’aridità e la noia, non cessa di pregare a lungo “factus
in agonia prolixius orabat”; nella perfetta serenità che mostra al momento
dell’ingiusta sua cattura, nel silenzio che serba in mezzo alle calunnie e di
fronte alla curiosità di Erode; nel dignitoso contegno davanti ai giudici; nella
eroica pazienza di cui dà prova fra i non meritati tormenti che gli infliggono,
fra gli scherni onde lo abbeverano; e soprattutto in quella calma rassegnazione
con cui, prima di spirare, s’abbandona nelle mani del Padre. Ci insegna così la
pazienza fra le più dure prove.
Come si vede, c’è qui ampia materia d’imitazione; e, a
meglio riuscirvi, dobbiamo supplicar Nostro Signore di venire a vivere in noi
con la pienezza della sua fortezza, “in plenitudine virtutis tuæ”. Ma
bisogna cooperare con lui alla pratica di questa virtù, esercitandovici non solo
nelle grandi occasioni ma anche nelle mille azioncelle che formano il minuto
complesso della vita, memori che la pratica costante delle piccole virtù
richiede pari, anzi maggiore eroismo delle azioni strepitose.
1081. 3° Le anime
perfette
coltivano non solo la virtù ma anche il dono della fortezza, come
spiegheremo parlando della via unitiva. Alimentano in sè quella generosa
disposizione d’immolarsi per Dio e di subire quel martirio a fuoco lento
che consiste nello sforzo continuamente rinnovato di far tutto per Dio e di
tutto soffrire per la sua gloria.
§ II. Le virtù alleate della fortezza.
1082. Alla virtù della fortezza si
connettono quattro virtù: due che ci aiutano a far le cose difficili, cioè la
magnanimità
e la magnificenza;
e due che ci aiutano a ben soffrire, la pazienza
e la costanza.
Come S. Tommaso insegna, sono insieme parti integranti e parti
annesse della virtù della fortezza.
I. La magnanimità.
1083. 1°
Natura. La
magnanimità, che si dice pure grandezza d’animo o nobiltà di carattere, è una
nobile e generosa disposizione a intraprendere grandi cose per Dio e per il
prossimo. Differisce dall’ambizione, che è essenzialmente egoista e
cerca d’inalzarsi sopra gli altri con l’autorità e con gli onori; carattere
distintivo della magnanimità è invece il disinteresse: è virtù che vuole prestar
servizio ad altrui.
a) Suppone quindi un’anima nobile, nutrita di alto ideale e di
generose idee; un’anima coraggiosa che sa mettere la vita in armonia con le
convinzioni.
b) Si manifesta non solo coi nobili sentimenti ma soprattutto con le
nobili azioni in tutti gli ordini: nell’ordine militare, con azioni
illustri; nell’ordine civile, con grandi riforme o grandi imprese industriali,
commerciali e simili; nell’ordine soprannaturale, con un alto ideale di
perfezione tenuto costantemente di mira, con sforzi generosi per vincersi e
superarsi, per acquistar sode virtù e praticar l’apostolato sotto tutte le
forme, fondare e dirigere opere di beneficenza, lavorare nel campo dell’azione
cattolica; sempre senza badare al danaro, alla salute, alla fama e neppure alla
vita.
1084. 2° Il
difetto opposto
è la pusillanimità, che, per eccessivo timore di cattiva riuscita,
nicchia e rimane inoperosa. Per scansar passi falsi, si commette veramente la
più grande delle minchionerie, cioè non si fa nulla o quasi nulla e così si
spreca la vita. O non è meglio esporsi a qualche sbaglio anzichè restare in
perpetua inerzia?
II. La munificenza o magnificenza.
1085. 1°
Natura. Quando si
ha anima nobile e gran cuore, si pratica la magnificenza o munificenza, che
ci porta a fare opere grandi e quindi pure grandi spese richieste da
tali opere.
a) L’orgoglio e l’ambizione ispirano talora coteste opere e allora non
è virtù. Ma quando si ha di mira la gloria di Dio o il bene del
prossimo, si rende soprannaturale il natural desiderio delle grandezze, e in
cambio di capitalizzar sempre i propri redditi, si spende nobilmente il denaro
in grandi e nobili imprese: opere d’arte, monumenti pubblici, costruzioni di
chiese, di ospedali, di scuole, di Università, di tutto ciò insomma che giova al
pubblico bene; ed è allora virtù, che ci fa trionfare dell’attacco naturale al
denaro e del desiderio d’aumentare le rendite.
1086. b)
Ottima
virtù, che bisogna raccomandare ai ricchi, mostrando che il miglior uso delle
ricchezze loro affidate dalla Provvidenza sta nell’imitare la liberalità e la
magnificenza di Dio nelle sue opere. Quante istituzioni cattoliche oggi
languiscono per mancanza di danaro! Non sarebbe questo un nobile impiego degli
accumulati tesori e il mezzo migliore di fabbricarsi una ricca dimora nel cielo?
E quante altre istituzioni non occorrerebbero! Ogni generazione porta sempre la
sua parte di bisogni nuovi: qui chiese e scuole da costruire, là ministri del
culto da mantenere; talora miserie pubbliche da alleviare; altre volte opere
nuove da fondare, patronati, sindacati, casse di previdenza e di pensioni, ecc.
È un vasto campo aperto a tutte le attività e a tutte le borse.
c) Non occorre neppure essere ricchi per praticar questa virtù.
S. Vincenzo de’ Paoli non era ricco, eppure vi è uomo che abbia praticato
più largamente e più saviamente di lui una magnificenza veramente regale verso
tutte le miserie del suo secolo? che abbia fondato opere che sortirono così
durevole fortuna? Quando si ha un’anima nobile, i denari si trovano nella
pubblica carità; e si direbbe che la Provvidenza si metta al servizio di questi
grandi slanci di carità, quando uno sa confidare in lei osservando le leggi
della prudenza o assecondando le ispirazioni dello Spirito Santo.
1087. 2° I
difetti opposti
sono la spilorceria e lo scialacquo.
a) La spilorceria o grettezza comprime gli slanci del cuore,
non sa proporzionare le spese all’importanza dell’opera da intraprendere e non
fa che cose piccole e meschine. b) Lo scialacquo invece
spinge a fare spese eccessive, a prodigare il denaro senza misura, senza
proporzione con l’opera intrapresa, oltrepassando talora anche le proprie
facoltà. Questo vizio è pur detto prodigalità.
Spetta alla prudenza tener la via di mezzo tra questi due eccessi.
III. La pazienza. 1088-1
1088. 1°
Natura. La pazienza
è una virtù cristiana che ci fa sopportare con animo tranquillo, per amor di
Dio e in unione con Gesù Cristo, i patimenti fisici o morali. Soffriamo
tutti abbastanza da farci santi se sapessimo soffrire da forti e per motivi
soprannaturali; molti invece soffrono lagnandosi, bestemmiando, e talora anche
maledicendo la Provvidenza; altri soffrono per orgoglio o cupidigia, onde
perdono il frutto della loro pazienza. Il vero motivo che ci deve ispirare è la
sottomissione alla volontà di Dio, n. 487,
e per indurvici, la speranza della ricompensa eterna che coronerà la nostra
pazienza, n. 491.
Ma lo stimolo più efficace è la meditazione di Gesù che patisce e muore
per noi. Se Gesù, che era la stessa innocenza, sopportò così eroicamente tante
torture fisiche e morali, per amor nostro, per riscattarci e santificarci, non è
forse giusto che noi, che siamo colpevoli e che fummo coi peccati nostri causa
dei patimenti suoi, consentiamo a patire con lui e cogli stessi suoi
intendimenti, con lui collaborando all’opera della nostra purificazione e della
nostra santificazione, onde parteciparne poi la gloria dopo averne partecipato i
patimenti? Le anima nobili e generose vi aggiungono un motivo di apostolato:
patiscono per dar compimento alla passione del Salvatore Gesù, lavorando così
alla redenzione delle anime (n. 149).
Qui sta il secreto [sic] della pazienza eroica dei santi e dell’amor loro per la
croce.
1089. 2° I
gradi della
pazienza corrispondono ai tre stati della vita spirituale.
a) A principio, si accetta il dolore come proveniente da Dio,
senza mormorazioni o rivolte, sorretti dalla speranza dei beni celesti; si
accetta per riparare le colpe e purificare il cuore, per padroneggiar le cattive
tendenze, specialmente la tristezza e lo scoraggiamento; si accetta nonostante
le ripugnanze della sensibilità, e se si chiede che il calice si allontani, si
aggiunge però che si vuole, a qualunque costo, sottomettersi alla divina
volontà.
1090. b) Nel secondo grado,
si abbracciano i patimenti con ardore e risolutezza, in unione con Gesù Cristo,
onde meglio conformarsi a questo Capo divino. Si gode quindi di poter battere
con lui la via dolorosa da lui battuta dal presepio al Calvario; si ammira, si
loda, si ama in tutti i dolorosi stati per cui passò: nella miseria a cui si
condannò entrando nel mondo; nella rassegnazione dell’umile mangiatoia che gli
serve di culla, ove soffre ancor più della ingratitudine degli uomini che del
freddo della stagione; nei patimenti dell’esiglio; [sic] negli oscuri lavori
della vita nascosta; nei travagli, nelle fatiche, nelle umiliazioni della vita
pubblica; ma soprattutto nei patimenti fisici e morali della lunga e dolorosa
sua passione. Armato di questo pensiero, “Christo igitur passo in carne, et
vos eâdem cogitatione armamini” 1090-1, uno si sente più coraggioso di fronte
al dolore o alla tristezza; si stende amorosamente sulla croce accanto a Gesù e
per suo amore: “Christo confixus sum cruci”; 1090-2 quando i dolori si fanno più vivi, posa
compassionevole e amoroso lo sguardo su lui e ode dal suo labbro: “Beati qui
persecutionem patiuntur propter justitiam”; la speranza di parteciparne la
gloria in paradiso rende più sopportabile la crocifissione con lui: “Si tamen
compatimur ut et conglorificemur” 1090-3. Si giunge persino, come S. Paolo,
a rallegrarsi delle miserie e delle tribolazioni, persuasi che il soffrire con
Cristo è consolarlo e compierne la passione, è amarlo più perfettamente sulla
terra e prepararsi a goderne maggiormente l’amore nell’eternità: “Libenter
gloriabor in infirmitatibus meis, ut inhabitet in me virtus
Christi 1090-4… superabundo gaudio in omni
tribulatione nostrâ” 1090-5.
1091. c) Il che conduce al
terzo grado, il desiderio e l’amor del soffrire, per Dio che si
vuole così glorificare, e per le anime alla cui santificazione si vuol lavorare.
Cosa che conviene ai perfetti, e specialmente alle anime apostiloche, ai
religiosi, ai sacerdoti e alle anime elette. Tale disposizione aveva Nostro
Signore nell’offrirsi al Padre come vittima fin dal primo ingresso nel mondo, e
la esprimeva proclamando il desiderio d’essere battezzato col doloroso battesimo
della sua passione: “Baptismo habeo baptizari et quomodo coarctor usquedum
perficiatur? 1091-1”
Per amor suo e per meglio somigliarlo, le anime perfette abbracciano gli
stessi sentimenti: “perchè, dice S. Ignazio 1091-2, come i mondani, che sono attaccati
alle cose della terra, amano e cercano con grande premura gli onori, la
riputazione e la pompa tra gli uomini… così quelli che si avanzano nella via
dello spirito e che seriamente seguono Gesù Cristo, amano e desiderano con
ardore tutto ciò che è contrario allo spirito del mondo… cossichè, [sic] se la
cosa potesse farsi senza offesa di Dio e senza scandalo del prossimo, vorrebbero
soffrire affronti, calunnie, ingiurie, essere considerati e trattati da stupidi,
senza però averci dato motivo, tanto vivo è il desiderio di rendersi in qualche
modo simili a Nostro Signor Gesù Cristo… onde, con l’aiuto della grazia, ci
studiamo d’imitarlo quanto ci sarà possibile e di seguirlo in ogni cosa, essendo
egli la vera via che conduce gli uomini alla vita”. È chiaro che il solo amor di
Dio e del divin Crocifisso può fare amare in questa guisa le croci e le
umiliazioni.
1092. Si deve andar anche più oltre
e offrirsi a Dio come vittima, positivamente chiedendogli patimenti eccezionali,
sia per ripararne la gloria, sia per ottenere qualche insigne favore? Vi furono
santi che lo fecero, e oggi ancora vi sono anime generose che vi si sentono
ispirate. In generale però non si possono prudentemente consigliare tali
domande, prestandosi facilmente all’illusione ed essendo spesso ispirate da
generosità irriflessiva che nasce da presunzione. “Si fanno, dice il P. De
Smedt 1092-1, in momenti di fervore sensibile, e
passato che sia quel fervore… uno si sente troppo debole per eseguire gli
eroici atti di sottomissione e di accettazione fatti con tanta energia
nell’immaginazione. Onde fierissime tentazioni di scoraggiamento o anche
mormorazioni contro la divina Provvidenza… e fonte poi di molte noie e fastidi
per i direttori di coteste anime”. Non bisogna quindi domandare da sè patimenti
o prove speciali; chi vi si senta ispirato, consulterà un savio direttore e
nulla farà senza la sua approvazione.
IV. La costanza.
1093. La costanza nello sforzo
consiste in lottare e soffrire sino alla fine, senza cedere alla stanchezza,
allo scoraggiamento o alla sensualità.
1° L’esperienza infatti insegna che, dopo sforzi reiterati, uno
si
stanca di fare il bene, e si annoia di star sempre con la volontà tesa;
l’osservazione è di S. Tommaso: Diu insistere alicui difficili specialem
difficultatem habet” 1093-1. Eppure la virtù non è soda finchè non
ha la sanzione del tempo, finchè non è rinsaldata da abitudini profondamente
radicate.
Questo sentimento di stanchezza produce spesso lo
scoraggiamento e la
sensualità: la noia che si prova in rinnovare gli sforzi, allenta le
energie della volontà e produce un certo abbattimento morale o scoraggiamento;
allora l’amor del godere e il dispiacere d’esserne privi ripigliano il
sopravvento, e uno s’abbandona alla corrente delle cattive inclinazioni.
1094. 2° Per
reagire contro
questa fiacchezza: 1) bisogna anzitutto ricordarsi che la perseveranza è
dono di Dio, n. 127,
che si ottiene con la preghiera; dobbiamo quindi chiederla con insistenza,
unendoci a Colui che fu costante sino alla morte, e per intercessione di colei
che giustamente appelliamo la Vergine fedele.
2) Bisogna poi rinnovare il pensiero della brevità della vita e della durata
infinita della ricompensa che coronerà i nostri sforzi: avendo tutta l’eternità
per riposarci, si può ben fare qualche sforzo e tollerare qualche noia sulla
terra. Se, cio non ostante, ci sentiamo fiacchi e vacillanti, è il caso di
istantemente [sic] chiedere la grazi della costanza, di cui sentiamo sì vivo
bisogno, ripetendo la preghiera di Agostino: “Da, Domine, quod jubes, et jube
quod vis”.
3) Infine bisogna rifarsi coraggiosamente all’opera con novello ardore,
appoggiati all’onnipotente grazia di Dio, anche contro l’apparente poco buon
esito dei nostri tentativi, ricordandoci che Dio non chiede la riuscita ma lo
sforzo. Non dimentichiamo peraltro che abbiamo talora bisogno di un certo
sollievo, di riposo e di svago: homo non potest diu vivere sine aliqua
consolatione. Onde la costanza non esclude il legittimo riposo: otiare
quo melius labores; tutto sta a prenderlo conforme alla volontà di Dio,
secondo le prescrizioni della regola o d’un savio direttore.
§ III. Mezzi di acquistare o di perfezionare
la virtù della fortezza.
Rimandiamo prima di tutto il lettore a quanto dicemmo sull’educazione della
volontà, n. 811,
aggiungendo alcune osservazioni che si riferiscono più specialmente al nostro
argomento.
1095. 1° Il segreto della nostra
fortezza sta nella diffidenza di noi e nella assoluta confidenza in
Dio. Incapaci di fare nulla di bene nell’ordine soprannaturale senza l’aiuto
della grazia, diventiamo partecipi della forza stessa di Dio e riusciamo
invincibili se procuriamo di appoggiarci su Gesù: “qui manet in me et ego in
eo, hic fert fructum multum 1095-1… Omnia possum in eo qui me
confortat” 1095-2. Ecco perchè riescono forti gli
umili, quando alla coscienza della propria debolezza associano la
confidenza in Dio. Questi due sentimenti bisogna quindi coltivar nelle anime. Se
si tratta di anime orgogliose e presuntuose, si insisterà sulla diffidenza di
sè; se si ha da fare con persone timide e pessimiste, si insisterà sulla
confidenza in Dio, spiegando quelle consolanti parole di S. Paolo:
“Infirma mundi elegit Deus ut confundat fortia,… et ea qua non sunt, ut ea
quæ sunt destrueret: i deboli agli occhi del mondo Dio sceglie per
confondere i forti… ciò che non è per annientare ciò che
è” 1095-3.
1096. 2° A questa doppia
disposizione bisogna aggiungere profonde convinzioni e abitudine di
operare secondo queste convinzioni.
A) Convinzioni fondate sulle grandi verità, in particolare sul fine
dell’uomo e del cristiano, sulla necessità di sacrificar tutto per conseguir
questo fine; sull’orrore che deve ispirarci il peccato, solo ostacolo al nostro
fine; sulla necessità di sottomettere la volontà nostra a quella di Dio onde
schivare il peccato e conseguire il fine, ecc. Sono coteste convinzioni che
formano i principii direttivi della nostra condotta, e i motori che ci danno lo
slancio necessario a trionfar degli ostacoli.
B) Ecco perchè importa molto abituarsi ad operare secondo queste
convinzioni; si baderà quindi a non lasciarsi trascinare dall’ispirazione del
momento, da subitaneo impulso della passione, dall’abitudine o dal proprio
interesse; ma prima di operare uno si chiederà: quid hoc ad æternitatem?
L’azione che io sto per fare m’avvicina a Dio e all’eternità beata? Se sì, la
farò; se no, me ne asterrò. Così, riconducendo tutto al fine ultimo, si vive
secondo le proprie convinzioni e si è forti.
1097. 3° A meglio superar le
difficoltà, è bene prevederle, guardarle in faccia e armarsi di coraggio
contro di loro; ma senza esagerarle e facendo assegnamento sull’aiuto che Dio
non mancherà di darci a tempo opportuno. La difficoltà prevista è mezzo vinta.
1098. 4° Infine non si dimenticherà
che nulla ci rende intrepidi quanto l’amor di Dio: “fortis est ut mors
dilectio” 1098-1. Se l’amore rende animosa e forte una
madre quando si tratta di difendere i figli, che cosa non farà l’amor di Dio
quando è profondamente radicato nell’anima? Non è l’amore che fece i martiri, le
vergini, i missionari, i santi? Quando Paolo narra per quali prove passò, quali
persecuzioni, quali patimenti sostenne, uno pensa che cosa mai ne reggesse il
coraggio in mezzo a tante avversità. Ce lo dice egli stesso: l’amor di Cristo:
Caritas enim Christi urget nos. 1098-2 Ecco perchè è senza inquietudine per
l’avvenire; chi potrà infatti separarlo dall’amore di Cristo? “quis nos
separabit a caritate Christi?” Enumera le varie tribolazioni che può
prevedere, aggiungendo che: “nè la morte, nè la vita, nè gli angeli… nè le
cose presenti, nè le cose future, nè le potenze… nè creatura alcuna potrà
separarci dall’amore di Dio in Gesù Cristo Nostro Signore” 1098-3. Ciò che diceva S. Paolo può
essere ripetuto da ogni cristiano a patto che ami sinceramente Dio; parteciperà
allora alla forza stessa di Dio”: quia tu es, Deus, fortitudo
mea” 1098-4.
NOTE
1075-1 S. Tommaso, IIª
IIæ, q. 123-140; e i suoi commentatori, specialmente il
Gaietano e G. di S. Tommaso; P. Janvier, Quaresimale 1920 (Marietti, Torino);
Ribet, Vertus,
c. XXXVII-XLII; C. De Smedt, Notre vie surnat.,
t. II, p. 210-267.
1076-1 S. Tommaso, IIª
IIæ, q. 123, a. 3.
1077-1 Sum. Theol., IIª
IIæ, q. 123, a. 6, ad 1.
1079-1 Gal., I, 10
1079-2 II Cor., X, 17-18.
1088-1 S. Fr. di Sales,
La
Filotea, P. IIIª, c. III; J. J. Olier, Introd., c. IX;
J. Faber, Progressi, c. IX;
D. V. Lehodey, Le saint abandon, P. IIIª,
c. III-V.
1090-1 I Petr., IV, 1.
1090-2 Galat., II, 19.
1090-3 Rom., VIII, 17.
1090-4 II Cor., XII, 9.
1090-5 II Cor., VII, 4.
1091-1 Luc., XII, 50.
1091-2 Constit. Soc. Jesu,
Esam. generale, c. IV, n. 44.
1092-1 Notre vie surnat., t.
II, p. 260. — Il P. Capelle che fece studi speciali sopra tal questione
(Les Ames généreuses, 1920, P. 3ª, c. IV-VII) compendia la sua dottrina
in tre proposizioni: 1) È Gesù Cristo stesso che sceglie le sue vittime;
2) le avvisa prima di quanto dovranno soffrire; 3) ne chiede il libero
consenso.
1093-1 Sum. Theol., IIª
IIæ, q. 137, a. 1.
1095-1 Joan., XV, 5.
1095-2 Phil., IV, 13.
1095-3 I Cor., I, 27-28.
1098-1 Cant., VIII, 6.
1098-2 II Cor., V, 14.
1098-3 Rom., VIII, 38-39.
1098-4 Ps. XLII, 2.
Quest’edizione digitale preparata da Martin Guy
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Ultima revisione: 1 febbraio 2006.