L'Arianesimo. SOMMARIO. – A. Ario e suoi errori. Origine dell'eresia: opposizione esagerata contro il modalismo di Sabellio, efficacia funesta del Platonismo. Indole e vicende dell'eresiarca. – B. Primo Concilio ecumenico di Nicea nel 325; dispareri dei vescovi e finale accordo di tutti gli ortodossi nella formula «consustanziale».
CAPO QUARTO
L'Arianesimo (I).
A. Ario e suoi errori.
§ 1.
Le oscurità e le differenze, già sorte in addietro sulla dottrina della Chiesa intorno alla Trinità, non erano del tutto chiarite nel IV secolo e porsero quindi occasione ad una grande eresia, la quale tutto scosse prima l'Oriente e poi l'Occidente.
L'opposizione esagerata contro la dottrina modalistica di Sabellio trascorse nell'estremo contrario dell'arianesimo: quella mirava alla confusione, questo alla separazione; l'una negava la distinzione delle persone, l'altra vi poneva diversità, così da distruggere l'unità di natura. Contro i Sabelliani si erano già usate anche prima espressioni punto appropriate, per cui fra il Padre e il Figliuolo pareva mettersi una formale separazione e il Figliuolo era considerato principalmente secondo le sue relazioni col mondo creato. Così Origene e altri Alessandrini, in cui ebbe influenza funesta la filosofia. La Chiesa però aveva contro i Doceti stabilito la realtà dell’umanità di Cristo; contro i Teodoziani e gli Ebioniti la divinità di lui; contro i Sabelliani la distinzione personale dal Padre; e insieme contro i pagani tenuto fermo il principio dell'unità di Dio (monarchia) e riconosciuto un certo ordine nelle tre divine Persone (Padre, Figliuolo e Spirito Santo).
Ma di qui per l'influenza perniciosa del Platonismo, con lo sforzo di voler comprendere i misteri, non fu difficile che si trasmodasse ad un sistema di subordinazione, il quale ponesse la divinità in Cristo, ma come di grado inferiore, e Lui stesso deprimesse all'ordine delle creature. Così pure con le opere di Origene si erano diffuse largamente in Oriente opinioni subordinaziane sulle relazioni del Verbo con Dio e con ciò si diede campo agli errori che all'apostasia di Ario, scoppiarono. Anche alquanti Alessandrini, massime il prete Luciano, separavano il Figliuolo dal Padre e portavano opinioni erronee sulla origine del Figliuolo e sulle relazioni vicendevoli delle due Persone (62). Discepolo di Luciano fu Ario prete Alessandrino, originario di Libia e autore di un' eresia ampiamente diramata.
La Dottrina di Ario, quale a mano a mano spiegossi, era così fatta: 1) Il Verbo ebbe un principio nella sua esistenza (erat quando non erat): altrimenti, non vi sarebbe un solo principio (Monarchia) ma due (Diarchia); né egli sarebbe Figliuolo, poiché il Figliuolo non è il Padre. 2) Il Verbo non è generato dall'essenza del Padre, il che riuscirebbe a una emanazione e separazione gnostica della divina essenza, ovvero ad un concetto materiale di Dio, che lo abbasserebbe all'essere umano; ma il Verbo fu creato per la volontà del Padre (63). 3) Egli ha un essere anteriore al tempo e al mondo, ma non eterno: onde non è propriamente vero Dio, ma diverso da Dio Padre nell'essenza: è creatura, e con tali espressioni lo significa la Scrittura (Act. II, 36; Hebr. III, 2) (64) e lo denomina Primogenito (Col. I, 15). 4) Ma con tutto che il Figlio sia essenzialmente creatura, ha però somma eccellenza sulle altre creature e dopo Dio tiene la dignità più sublime: per lui Dio creò il tutto, anche il tempo (Hebr. I, 3) (65). Poiché, siccome per essere troppo di sterminata la distanza fra Dio (concepito alla maniera platonica) e il mondo, non poteva Iddio creare il mondo immediatamente, così creò da prima il Verbo, come essere intermedio, al fine di creare poi il mondo per via di lui, siccome principio delle sue vie (Prov. VIII, 22) (66). Fra Dio e il Verbo corre una distanza infinita; fra il Verbo e le creature una differenza quantitativa. 5) Che se il Verbo nulla di meno è chiamato Dio, ciò si vuol intendere che egli è tale per grazia e per adozione del Padre. Egli è Figliuolo adottivo; solo abusivamente (per catacresi) e in largo senso è appellato Dio (67). 6) La volontà sua, come di creatura, è originariamente mutabile, capace di bene e di male e non già immutabile; solamente per uso del suo libero arbitrio è egli impeccabile e moralmente immutabile. La sua gloria è merito della sua vita santa, da Dio preveduta ab eterno. (Phil. II, 9 seg.) (68).
§ 2.
Ario, ammesso già da tempo nel clero alessandrino, era stato scomunicato per la parte presa nello scisma di Melezio; ma di poi redintegrato, aveva ricevuto il sacerdozio dal vescovo Achilla e la cura di una chiesa a Baucalis (circa l'anno 313). Alto e avvenente della persona, affabile insieme e grave nel conversare, dialettico sottile ed eloquente, ma uomo scaltro ed ambizioso disponeva di grandi facoltà, da potersi guadagnare gran seguito. L'indole sua, come i suoi scritti lo mostrano un uomo leggero, effeminato, lezioso, non già una mente posata e profonda, che potesse aprire un'era nuova ai progressi del dogma e rendersi capace di tutte le conseguenze della sua propria dottrina. Quando però egli in Alessandria si pose a diffondere i suoi errori e venne su ciò in contesa con altri preti (318), il vescovo Alessandro fece ogni prova di ridurlo a migliori sentimenti, ma invano. Ario, perfidiando nei suoi falsi principii di scienza, contrastò pervicacemente alla dottrina del suo vescovo intorno alla generazione eterna del Figliuolo e alla sua consustanzialità col Padre. E poiché con lui tutto era nulla e i suoi settatori in quella mobile Alessandria, sempre studiosa di novità, crescevano ogni dì più anche fra le monache; Alessandro convocò un concilio, verso il 320 o 321, presenti circa cento vescovi. Ario vi fu deposto e con lui scomunicati tutti i suoi partigiani, fra i quali parecchi diaconi della Chiesa alessandrina e due vescovi altresì dell'Egitto, Secondo di Tolemaide e Teona di Marmarica. Ario non si piegò e proseguì anzi a celebrare i divini uffici: e intanto cercava appoggio nei vescovi dell’Asia Minore e della Siria, di cui parecchi erano stati suoi condiscepoli, come Eusebio di Nicomedia, autorevolissimo e lontano parente dell'imperatore (69). Alcuni parteciparono interamente alla sua dottrina, come il sopraddetto Eusebio: altri furono da lui tratti in inganno per via di una più mite spiegazione, quasi non intendesse egli altro che escludere una materia preesistente e una divisione della natura divina e simile. Egli concedeva la divinità del Figliuolo, ma solo in un senso più largo; e parimente la immutabilità di Lui ammetteva, ma sottintendendo che non fosse originaria e naturale, bensì acquisita per il suo libero arbitrio.
Ario, discacciato da Alessandria, se ne andò in Palestina: di qui scrisse al vescovo di Nicomedia, denigrando la dottrina e la condotta di Alessandro; e infine si rifugiò da quel suo vescovo protettore. Quivi scrisse egli al vescovo Alessandro una lettera tutta gentilezze e in vista spasimante di venire ad una conciliazione; ma intanto pose mano all'opera sua principale, che intitolò Thalia (Convito), condotta parte in prosa, parte in versi; e compose altresì molti canti per i viandanti, i naviganti, i mugnai e simili, a fine di rendere popolare la sua dottrina (70). La lotta si appiccò ben tosto a tutte le classi del popolo, tanto che i pagani stessi trionfavano della disunione dei cristiani. Fra queste cose, Ario confidato nell'appoggio di più vescovi che la sentivano con lui e profittando della guerra che ardeva tra Costantino e Licinio (322-323) si fece animo di tornare ad Alessandria, senza più temere il vescovo Alessandro. Questi aveva intanto spedito più lettere a tutti i vescovi cattolici, mettendoli sull'avviso contro gli intrighi di Ario; e smascherando gli errori di lui, mostrava l'accordo di questi errori con la dottrina di Artemone, di Paolo Samosateno e di Luciano, li ribatteva col Vangelo di S. Giovanni (I, 1 segg; X, 30. 38) e con altri testi scritturali, e con la tradizione della Chiesa; chiariva molti passi da Ario stravolti. Quanto poi al tentativo di conciliazione messo innanzi dai vescovi favorevoli ad Ario, fra cui era lo storico Eusebio di Cesarea, egli lo rigettava, come un tradimento della verità.
Costantino, per la vittoria su Licinio divenuto anche signore dell'Oriente, si recò a Nicomedia e quivi intese dal vescovo Eusebio le controversie dell'Egitto. Conforme al suo disegno favorito di unire tutti i sudditi suoi in una medesima religione, si credette anzi tutto in dovere d'interporsi conciliatore. Quindi, nel 324, inviò in Alessandria Osio vescovo di Cordova nella Spagna da lui molto stimato, dandogli lettere per Alessandro e per Ario, le quali probabilmente gli furono compilate dal vescovo Eusebio, ché al tutto ne ritraggono lo spirito. Egli biasima tutta la controversia, quasi inutile e vana questioni di parole: né l'uno doveva sollevarla, e l'altro doveva passarla in silenzio: vivessero ambedue come fratelli tra loro, senza sforzare l'uno l'altro alle proprie opinioni.
L'imperatore, si vede, non conosceva nulla della importanza dogmatica di tale questione; né ad altro aveva la mente che al mantenimento della tranquillità esteriore. Di più, egli era indettato dagli amici di Ario, i quali assai potevano su di lui, anche per via della principessa Costanza. Osio però si chiarì in Alessandria della differenza tra la dottrina della Chiesa e quella di Sabellio sulla Trinità, che gli Ariani rappresentavano come tutt'una e vide impossibile ad attuarsi quell'accomodamento voluto dall'imperatore. Allora Costantino, e per cessare questa lotta e per finire le controversie ancora esistenti sulla Pasqua, pose in opera un altro espediente, forse per consiglio di Osio e di altri vescovi: ordinò un Concilio di tutti vescovi del suo impero a Nicea di Bitinia.
B. Primo concilio ecumenico di Nicea nel 325.
§ 3.
Nell'estate del 325 si tenne in Nicea il primo Concilio ecumenico della Chiesa, a cui intervennero 318 vescovi, i più Orientali (71). L'imperatore teneva pronte, a disposizione dei vescovi, vetture pubbliche e bestie da soma e provvedeva con ogni liberalità al loro mantenimento finché durò il concilio, acciocché vi potessero prendere parte anche i vescovi poveri. Quindi poi venne il costume che gli imperatori, con tali favori cercassero di agevolare in tutti i modi la convocazione dei Sinodi.
Il Concilio di Nicea fu un'assemblea veramente veneranda. Molti vescovi erano confessori e ancora portavano in sé le cicatrici del patimenti sostenuti nelle persecuzioni, come Potamone di Eraclea in Egitto, Pafnuzio dell'Alta Tebaide, Paolo di Neocesarea; altri erano celebrati per il dono dei miracoli, come Giacomo di Nisibi, Spiridione di Cipro, Nicolò di Mira, Leonzio di Cesarea; altri famosi per sapienza, per erudizione o per l'autorità delle loro Chiese, come Alessandro di Alessandria, cui era compagno il dotto Atanasio suo diacono, come Eustachio di Antiochia, Macario di Gerusalemme, Marcello di Ancira. Dall'Africa era venuto Ceciliano di Cartagine, dalle Gallie Nicasio di Digione, dall'Italia Marco di Calabria, dalla penisola dei Pirenei Osio di Cordova (72). Quest'ultimo insieme coi due preti romani Vitone (Vitus, Victor) e Vincenzo teneva le veci del Papa Silvestro e con essi aveva la presidenza effettiva nelle deliberazioni, laddove l'imperatore Costantino, il quale vi comparve personalmente e fece un'allocuzione ai vescovi, tenne la presidenza di onore (73). Tra i vescovi prevalsero ben tosto tre diverse sentenze intorno alla dottrina del Verbo. Gli Egiziani e gli Occidentali sostenevano l'unità della essenza divina, la perfetta divinità del Verbo e la distinzione sua dal Padre. I più degli Orientali, tra cui Eusebio di Cesarea, ammettevano bensì la divinità di Cristo, ma abbagliati dall'autorità di Origene, seguivano pure idee subordinaziane intorno al Verbo, non riconoscendo in lui la stessa natura divina col Padre (partito di mezzo degli Orientali). I seguaci di Ario invece, come il loro capo, non vedevano in Cristo che una mera creatura del Padre e prendevano in senso improprio il concetto della divinità, relativamente a Cristo. Ario stesso si trovava al Sinodo ed ebbe luogo a difendere la sua causa in diverse conferenze tenutesi innanzi all'arrivo dell'imperatore e avanti l'apertura delle sessioni propriamente dette. Vi ebbero parte preti e anche laici e molto si illustrò il diacono Atanasio. I vescovi cattolici sentirono con indignazione le bestemmie di Ario; ma ventidue gli si scoprirono favorevoli (74) e testa del partito si fece Eusebio di Nicomedia; onde ebbero anche nome di Eusebiani.
In discutere con un partito così fatto, i Padri si capacitarono assai presto della necessità di contrapporre ai suoi sofismi espressioni le più appropriate e più lontane da ogni equivoco in definire la dottrina della Chiesa. Se contro l'affermazione degli Ariani «il Figliuolo essere dal nulla», si diceva, Lui essere dal Padre; anche gli Eusebiani l'ammettevano, ma nel senso che tutte le cose sono da Dio (I Cor. VIII, 6; II Cor. V, 18). Che se si preferiva l'espressione: il Verbo essere la virtù di Dio, l'immagine eterna del Padre, a Lui in tutto e senza diversità simigliante e come Lui immutabile; anche questa essi accettavano, travolgendola a loro capriccio con vari passi biblici: che anche l'uomo è detto immagine di Dio, splendore e virtù di Dio (Gen. I, 26; I Cor. XI, 7) e in certo senso immutabile (Rom. VIII, 35) ed eterno (II Cor. IV, 11) e presso il profeta Gioele (II, 25) persino le cavallette sono chiamate virtù di Dio. Infine, per chiarire ad evidenza le parole «dal Padre» fu prescelta la frase: dalla sostanza del Padre, e per chiudere ogni scampo, aggiunta la parola consustanziale; sopra la quale, con ogni probabilità, Osio si era già prima inteso con Papa Silvestro e col vescovo di Alessandria. Ed essa infatti corrispondeva al vero concetto delle relazioni del Verbo col Padre, quale ritenevasi universalmente in Roma e in Occidente. Eusebio di Cesarea mise innanzi un simbolo della sua Chiesa, in cui il Figliuolo era detto «Dio da Dio, Lume da Lume, vita da vita, Unigenito Figlio, Primogenito di tutte le creature, innanzi a tutti i tempi generato dal Padre». Ma comunque le più di cotali espressioni fossero ottime, Ario trovava maniera di storcerle al suo sentimento, massime prendendo «generato» in forza di «creato». Onde l'espressione più appropriata era sempre «consustanziale» e alla fine anche l'imperatore vivamente l'approvò.
Gli amici aperti e occulti di Ario si levarono contro, con dire che nessuna espressione si voleva usare non contenuta nelle Scritture (agrapha); ma era quella una proposizione al tutto erronea. poiché da una banda è certo che le espressioni della Scrittura non hanno per fine di dare come la formula dei dogmi della Chiesa, tanto più che nuove forme di errore domandano anche formule nuove da contrapporvisi. E d'altra parte questo solo era punto da dibattersi, cioè se il concetto, significato con Homousios, si poteva, quanto alla sostanza, cavare dalla dottrina delle Scritture, il che al tutto era evidente, come dimostrava tra gli altri Atanasio (75). Il Sinodo quindi ritrasse non poco dalla formula di Cesarea, ma vi aggiunse: «Dio vero da Dio vero, generato, non fatto, consustanziale al Padre». Anche fulminò di scomunica le proposizioni di Ario: che fu tempo quando il Figliuolo di Dio non era; che Egli non era innanzi di essere generato; che sia stato fatto dal nulla, ovvero generato di altra persona o sostanza da quella del Padre, che sia una creatura, che sia mutabile ovvero soggetto ad alterazioni.
A questa così chiara definizione della Chiesa, parecchi vescovi dapprima non si volevano soggettare, fra cui Eusebio di Cesarea, il quale infine si rese, ma di poi in una lettera alla sua Chiesa tentò, con modi affatto sleali, di oscurare il senso della definizione (76). Cinque tennero fermo più a lungo e furono: Eusebio di Nicomedia, Teognide di Nicea, Mari di Calcedone, e i due Egiziani Teona e Secondo. Questi ultimi, anche di poi che gli altri ebbero sottoscritto, perfidiarono a non volere sottoscrivere; onde furono colpiti di scomunica e dall'imperatore puniti con l'esilio, come Ario, i cui libri vennero pure condannati e i seguaci designati col nome di Porfiriani (seguaci di Porfirio in combattere Cristo). La stessa punizione, tre mesi di poi, colpì anche Eusebio, vescovo di Nicomedia, e Teognide, perché nonostante la loro sottoscrizione, non volevano riconoscere la sentenza pronunciata contro Ario, accoglievano gli Ariani e si ostinavano nell'errore.
Così fu proclamata solennemente la fede della Chiesa nel Concilio universale e la definizione di questo fu ricevuta da tutti i veri credenti, come infallibile sentenza dello Spirito Santo (77).
Altri negozi ancora occuparono il Concilio Niceno; la controversia sulla Pasqua e in particolare lo scisma di Melezio. Questo si tentò di spegnerlo, permettendo a Melezio, con tutto che fosse conosciuto immeritevole di una tale indulgenza, il titolo di vescovo e la dimora a Licopoli; ma interdicendogli però l'esercizio della giurisdizione e di conferire gli ordini. Ai consacrati da lui si permise che rimanessero nelle cariche loro, dopo ricevuto una nuova imposizione delle mani, in forma di riconciliazione, dall'arcivescovo di Alessandria, tenessero il secondo luogo dopo i consacrati dal legittimo vescovo, ma con la facoltà di succedere nelle sedi vacanti per la morte di alcuno di essi. Il partito noverava, come poco di poi si vide, 20 vescovi in Egitto e in Alessandria 8 soli preti; ma questi resero vano il disegno così benigno del Sinodo, diedero di poi un successore a Melezio e si strinsero in fine con gli Ariani.
Allo stesso modo il Concilio cercò di ritrarre all'unità della Chiesa anche i Novaziani; fra essi il vescovo Acesio accettò in tutto la professione di fede dei Padri. Ai loro ecclesiastici si consenti che durassero nei loro uffizi, dopo ricevuto una imposizione delle mani nella forma stessa dei Meleziani, con questo però che si dovessero soggettare alla Chiesa cattolica in ogni punto, anche nella pratica della penitenza. Rispetto ai partigiani di Paolo Samosateno (Paulianisti), il loro battesimo fu dichiarato invalido; ma pure si riconobbe la validità del battesimo dagli eretici conferito nella forma debita. I loro preti, che fossero al tutto irreprensibili, ricevessero di nuovo il battesimo e la consacrazione (78).
In tutto, il Concilio diede venti Canoni disciplinari; i quali insieme col simbolo, gli anatemi relativi e una lettera sinodale lilla Chiesa alessandrina sono i soli atti del Sinodo che siano giunti fino a noi (79). L'imperatore Costantino che sull'ultimo testimoniò ancora la venerazione sua pei vescovi con ricchi doni e con uno splendido banchetto, stabilì i decreti del Sinodo a leggi dell'impero.
NOTE
(62) Intorno a Luciano, vedi sopra I, p. 371; Theodoret., Hist. eccl. I, 4 sq. Hefele, Conciliengesch. I (2a ed.) 208 sq.
(63) *** (Alexander Alex., Epist., ap. Socr. l. c. I, 6).
(64) *** (Arius ap. Athan., Or. I, n. 5). Quindi il nome di Exucontiani dato loro già dal vescovo Alessandro (Theodoret., Hist. eccl. I, 4).
(65) Athan., Or. II c. Arian. n. 24; Ep. ad episc. Aegypti et Libyae c. 12.
(66) Gli Ariani leggevano il passo così: *** (al. ***, in verità ***, giusta l'ebreo e la Volgata, altri ***; Greg. Niss., Serm. adv. Aria., et Sab. c. 5; Mai, Nova Bibl. PP. I, 5). Cf. Athan, De decr. Nic. Syn. c. 13; Hergenrother, Die Lebre von der gottl. Dreieinigkeit nach Gregor von Nazianz (Regensb. 1850) p. 176. Parole di Ario presso Athan., Or. I, c. Arian. n. 5.
(67) Il Figliolo è Dio ***, (Alex., Ep. inter Opp. S. Athan. I. 397, ed. Maur).
(68) Arius ap. Athan.. Or. I c. Arian. n. 5, 35, 42; III n. 26. Alex.. Ep. l. c.
(69) Ammian, Marcell,, Rer. gest. l. XX, 9.
(70) Gli ***, sono menzionati da Filostorgio (Hist. eccl. II, 1).
(71) Il numero di 318 vescovi è ammesso universalmente, secondo Athan., Ep. ad Afr. c. 2; Socr. l. c. I, 8; IV, 12; Damas. ap. Theodoret. l. c. II, 17 (al. 22); Basil., Ep. 114; Hilar., De syn. n. 86; Sulp. Sever., Chron. II, 35, ed. Halm p. 89; Zeno Imp. ap. Evagr. Schol., Hist. eccl. III, 20; Ambros., De fide ad Gratianum Aug. I, 1. Sopra a 250 vescovi sono contati da Eusebio (Vita Const. III, 8); da S. Atanasio (Apol. C. Arian. c. 23, 25; De syn. Arim. et Sel. n. 43; Hist. Arian. ad mon. c. 66) più di 300; da Sozomeno (l. c. I, 17) 318, da Teodoreto (l. c. I, 6 [al. 7]) 318, e appresso (c. 7 [al. 8]) 270. Verosimilmente, non vi erano da principio raccolti tanti vescovi quanti ve ne furono dappoi; e alcuni antichi ne diedero un numero rotondo (Anon. ap. Mai, Spicil. Rom. VI, 600. Gelas Cyz., Hist. Conc. Nic. II, 5).
(72) Quanto ai membri del Concilio v. Athan.. Hist. Arian. ad mon. c. 12; Socr. l. c. I, 8:Sozom. l. c. I, 17: Theodoret. l. c. I, 7; Rufin. l. c. c. 4 sq. Intorno a s. Giacomo di Nisibi, v. Assemani, Bibl. or. I, 17 sq.; a Leonzio di Cesarea, il quale nel suo viaggio a Nicea battezzò il padre di San Gregorio Nazianzeno, v. Greg. Naz., Or. 18, n. 12, ed. Par. I, 338.
(73) Intorno alla presidenza del Concilio cf. Hefele, Conciliengesch. (2a ed.), 38 segg., 300, e il trattato del Wolff citato sopra (p. 42). A questo proposito fanno: 1) Athan., De fuga c. 5; Theodoret. l. c. II, 15 sopra Osio; 2) Gelas Cyz., l. c. II, 5; 3) l'elenco presso Socr. l. c. I, 13, il quale assegna pure con precisione l'ordine dei seggi; 4) le sottoscrizioni presso il Mansi, Conc. Coll. II, 692, 697 ex Gelas., ibid. 882, 927; 5) la ricognizione della presidenza dei Romani, anche presso i Greci susseguenti, come ad es. Fozio, Ep. 1 ad Mich. n. 6 (ove a bello studio è preposto a tutti il vescovo della nuova Roma); Ep. ad Zachar. Armen. n. 9 (ove Silvestro è messo innanzi a tutti i vescovi. Migne, Patr. gr. t. CII, p. 632, 767). Diversi Greci con Socrate falsamente nominano Giulio, scambio di Silvestro.
(74) I vescovi ligi ad Ario sono contati fino a venti da Filostorgio (l. c. ed. Vales. p. 539); da Rufino l. c. X, 5) o da Gelasio (l. c. II, 7) solo diciassette.
(75) Athan., Epist. ad episc. Aegypti et Libyiae c. 21.
(76) Athan. l. c. c. 3; Theodoret. l. c. I, 12; Euseb., Ep. ap. Migne, Patr. gr. t. XX, p. 1535 sq.
(77) Costantini Ep. ad Alex., ap. Socrat. l. c. 1, 9; Euseb., Vita Const. III, 20; Athan., Ep. ad episc. Afr.; Ambros., Ep. 21; Basil., Ep. 114 (al. 201); Isid. Pelus., Ep. IV, n. 99: *** è chiamato in S. Atanasio, De syn. n. 5.
(78) Ep. synod. de Melet., ap. Socr. l. c. I, 9; Theodoret. l. c. I, 8 (9); Gelas. l. c. II, 33; Athan., Apol. c. Arian. n. 71; Sozom. l. c. I, 24; c. 8 de Novat., c. 19 de Paulicianis. Hergenrother, Photius II, p. 335 segg.
(79) Sopra i Canoni di Nicea in generale cf. Rufin. l. c. X. 6; Theodoret. l. c. I, 8; Gelas., l. c. II, 30 sq.; Hefele l. c. I, 356 sqq. La supposizione che i Canoni fossero da prima in maggior numero non si può dimostrare, ancorché gli Orientali più moderni ne contino da 80 a 84. Il Padre G. B. Romano S. J. trovò ai tempi di Pio IV presso il Patriarca dei Copti un Codice arabo con ottanta Canoni; questo fu comprato di poi dall'Assemani e deposto nella Vaticana (Mai, Nova Coll. X, Praef. p. V). I Canoni trasportati in latino e riveduti dal Turriano furono inseriti da Alfonso Pisano nella sua «Storia del Concilio Niceno» libro III (Dillingen 1572), donde passarono poi nelle Collezioni dei Sinodi. Una nuova traduzione e più esatta ne diede con l'aiuto di un altro manoscritto il Turriano, Append. ad lat. vers. Const. apost. Antwerp. 1578. Il Maronita Abr. Echellensis ritrovò questi Canoni anche presso altri Orientali, e ne diede in luce 84 (Testo presso il Mansi, Conc. Coll. II, 982-1082). Altri Canoni posteriori furono di sovente attribuiti al Niceno. La storia di questo Concilio, scritta da Maruta di Tagrit (fine del IV secolo) andò perduta, ma sussiste ancora, benché non sempre degno di fede, il *** – opera di Gelasio di Cizico, vescovo di Cesarea in Palestina, composta circa al 476, in tre libri, di cui il secondo contiene la storia propriamente detta (Mansi l. c. II, 754-946. Migne, Patr. gr. t. LXXXV, p. 1185-1360).