Di Jérôme Lejeune
Sulla terra l’uomo è il solo che si domanda chi è, dove va, e che talvolta si sente rivolgere queste temibili domande: “Cosa ne è di tuo fratello?”, “Cosa hai fatto di tuo figlio?”.
Le pulsioni elementari che sono alla base della perpetuazione delle specie sono presenti in tutti gli esseri viventi, ma l’uomo è il solo a conoscere il misterioso rapporto tra l’amore e il futuro. Né lo scimpanzé più malizioso né quello meglio ammaestrato potranno mai concepire che esista un rapporto tra la monta della sua femmina e l’arrivo, nove mesi più tardi, di un cucciolo che gli assomiglia.
L’uomo, da parte sua, ha sempre saputo che l’appetito sessuale e la sua soddisfazione voluttuosa sono collegati, per loro natura, alla procreazione. In modo poetico, e assolutamente realista, gli antichi non rappresentavano forse la passione amorosa con i tratti di un bambino?
Natura umana
Oggigiorno, ognuno di noi sa bene che la natura umana non esiste più. Le nostre pulsioni e i nostri atti, soprattutto nella sfera sessuale, non sono altro che mere convenzioni imposte d alla società e che variano secondo i tempi. Non c’è nessuna legge biologica che sia in grado di guidarci né di illuminarci, come è stato formalmente decretato dai nuovi umanisti.
Dato che lo spirito scientifico non accetta affermazioni perentorie se non con beneficio d’inventario è permesso pensarci due volte prima di ammettere che gli istinti nella nostra specie non esistono, o che le pulsioni amorose non sono altro che brividi senza significato né logica. La neuroanatomia ci mostra quale imprudenza sarebbe disconoscere il modo in cui siamo fatti.
Il “sacco di pelle” che copre e delimita questa casa di carne di cui siamo gli abitanti è repertoriato punto per punto nella corteccia cerebrale. All’incirca all’altezza del cerchietto con il quale le ragazze tengono fermi talvolta i capelli, si osserva, sul versante posteriore della scissura di Rolando, la rappresentazione sensitiva di tutto il nostro corpo.
L’omuncolo neurologico si trova come allungato sulla parietale ascendente, la testa rivolta verso il basso, le gambe verso l’alto, con i piedi penzoloni nel solco che separa i due emisferi.
Ogni parte si ritrova nell’ordine consueto: la testa, il collo, la mano, il braccio, il tronco, il bacino, la gamba, il piede e le sue dita e, in fondo alle dita del piede, gli organi genitali. Questa disposizione, a prima vista scioccante, diventa assolutamente ovvia non appena ci si ricorda che viviamo in piedi. Se l’uomo camminasse a quattro zampe, vedremmo che l’organo genitale si troverebbe effettivamente all’estremità posteriore del tronco e, di conseguenza, verrebbe proiettato immediatamente dopo la rappresentazione della gamba e delle dita del piede.
In questo modo, la sfera genitale è la sola parte del nostro corpo la cui rappresentazione cerebrale viene direttamente in contatto con l’enorme lobo limbico, sede di tutte le emozioni. t in quest’ultimo, infatti, che si organizzano le pulsioni che ci muovono: quelle che mirano alla sopravvivenza dell’essere (la fame, la sete, l’aggressività), e quelle che mirano alla continuazione della specie (l’appetito genitale, l’attrazione verso il partner, la difesa del piccolo, la fedeltà al proprio simile).
Ne consegue che siamo fatti in modo tale che ciò che coinvolge la sfera genitale turba direttamente il morale dal punto di vista neurologico. Da cui l’impossibilità, sembrerebbe, di dominare il comportamento emotivo e di controllare gli istinti, se l’impero della volontà non si estende anche, e forse anzitutto, al comportamento genitale cosciente e deliberato.
La vecchia battuta degli amorali di un tempo: “se la morale esiste si trova molto mal collocata in fondo ai calzoni” , non era che ignoranza della neuroanatomia. Non è lo smarrimento dei rigoristi che ha collocato l’organo genitale in stretto contatto con le emozioni, è la memoria della vita…
Fontes vitae
Durante tutto il corso della vita, le pulsioni amorose si presentano di volta in volta sia isolatamente sia tutte insieme, e spetta alla persona equilibrarle.
Pulsione particolarmente potente, l’appetito genitale può manifestarsi del tutto isolatamente negli esseri viventi di grado più basso. Certi pesci maschi, per esempio, spargono il loro sperma sulle uova deposte da una femmina sconosciuta che non incontreranno mai. Ridotto alla pulsione genitale, il comportamento sessuale sarebbe soddisfatto da un mero sfogo automatico.
Negli esseri superiori, l’attrazione verso l’altro sesso orienta questo appetito e, in noi, la tenerezza gli dà tutto il suo significato: è necessaria l’unione di due persone per generarne una terza.
Questa trilogia caratteristica della riproduzione naturale impone che la tenerezza unisca persone di sesso diverso. Da cui l’espressione del linguaggio comune, che reputa contro natura il rapporto omosessuale, che soddisfa l’appetito in modo contraffatto e non può in alcun modo rispettare il partner, e ancor meno il figlio.
La trasmissione della vita non si esaurisce nella procreazione; la difesa del piccolo ne rappresenta il seguito obbligato. Questa pulsione è cosi forte in tutti i vertebrati (e persino negli il vertebrati) che non parrebbe necessario insistere sulla sua in portanza per noi esseri umani. Al primo strillo del neonato ognuno percepisce la forza di questo irresistibile richiamo. Tuttavia, l’aborto e l’infanticidio dimostrano quanto la natura umana sia terribilmente dilaniata.
Infine, la fedeltà alla famiglia e al gruppo, questo sentimento di appartenenza, questo bisogno di darsi totalmente costituisce la base della società. Tuttavia, l’abbandono de bambini o la soppressione dei malati che certi innovatori esaltano, rispolverando instancabilmente i più antichi sofismi rivelano la vulnerabilità degli istinti nella nostra specie.
Le scienze naturali, però, non sono in grado di condurre oltre; pur non rinunciando a un’analisi approfondita, il biologo osserva con prudenza e rispetto questo fenomeno, squisitamente umano, dell’impegno delle persone:
– lasciare il padre e la madre per formare una carne sola, per sempre, con il proprio sposo, appare facilmente immaginabile;
– proteggere i propri figli, i propri genitori e tutti i membri del gruppo si rivela assolutamente auspicabile;
– dare la propria vita per coloro che si amano, anche questo pare concepibile, almeno teoricamente.
Senza pretendere di ignorare le difficoltà e le sofferenze, o semplicemente gli inconvenienti, si vede che il matrimonio da equilibrio ai rapporti d’amore.
Allora, perché rifiutare le umili gioie del focolare, il fascino dei figli, il calore della famiglia e del gruppo?
Perché questo abbandono volontario delle felicità più garantite?
Nessuna inclinazione ci predispone in questo senso. Cionondimeno, il celibato consacrato dimostra chiaramente che un altro equilibrio è possibile.
Coelibatus
La riflessione di un biologo non può pretendere di spiegare un fenomeno religioso, ma rimane la possibilità di studiarne gli effetti più evidenti.
Il sentimento d’appartenenza può trovare nel celibato il suo maggior sviluppo.
Ne è testimone questa confidenza di un missionario di grande esperienza: “In tutta la mia carriera – diceva – e nelle regioni più sperdute, non ho mai incontrato stranieri. Dovunque ho trovato dei fratelli“.
Vista dal cielo, infatti, se si potesse dire così, la prospettiva è più ampia. Il sacerdote riconosce nel suo prossimo un suo simile, ma egli, al tempo stesso, sente, nel fratello che vede, lo spirito del Padre che non vede. La natura umana è uno specchio deformante scalfito e gonfiato dalla cicatrice del nostro peccato originale, intelligenza divisa tra la ragione e il cuore. Ma questa similitudine incerta, questa immagine indecisa, quasi irriconoscibile, rimane tuttavia accessibile a colui il cui occhio è cambiato.
La difesa del piccolo viene anch’essa esercitata in pieno. L’inibizione geniale dei popoli cristiani è quella di associare al carattere genitoriale una virtù, la bontà.
Di quelle che servono i più poveri, i diseredati, i poco amati, si dice molto giustamente che sono sorelle e, meglio ancora, che sono buone. Più di ogni parametro sociologico o statistico, il ruolo delle buone sorelle rappresenta la misura empirica del grado di cristianità. Un dettaglio dell’abbigliamento viene in aiuto alla loro azione. Il velo è estremamente efficace affinché l’affetto manifestato e la carità prodigata non si prestino a false interpretazioni.
Una piccola sorella degli infermi osservava che, vestita alla meno peggio, come si fa oggigiorno, non osava più entrare con la stessa sicurezza di una volta negli ambienti mal frequentati: “La gente”, diceva lei, “non riesce più a vedere nel nome di Chi io vengo”.
Essa esprimeva così l’impegno della persona, sola ragione del celibato, così come me lo ha fatto comprendere una superiora che guidava il suo convento con la più efficace delle dolcezze.
“L’impegno, la scelta dello sposo, ed è di vocazione che si parla! Il prete e la suora, dicono, non devono sposarsi perché possano restare pienamente disponibili per consacrare a Dio e dedicarsi agli altri.
– Certo, questo non è sbagliato, ma è vero nell’ordine i verso: quando ci si è impegnati totalmente per Dio, come potrebbe contrarre un altro matrimonio?
– Alle postulanti rispondo: se voi non vi sentite chiama a seguire il Signore come se foste le sue compagne, cercatevi un marito. Entrambe le vocazioni sono legittime, ma non contemporaneamente! “.
Resta l’appetito genitale, questa pulsione esplosiva più insistente nell’uomo, almeno a livello fisico. Per fondamentale che essa sia (ne dipende l’avvenire della specie), questa funzione biologica è l’unica la cui mancata soddisfazione non comporta alcuna patologia.
Non si può dire lo stesso della fame, della sete, o del bisogno di dormire.
Nel celibato, la pulsione persiste, sempre altrettanto specializzata, ma l’appetito si generalizza. Da genitale che era si accresce genialmente, risalendo l’albero della vita fino a Colui che la genera. Cercando la propria felicità sull’altro versante del tempo, l’essere umano, finalmente guarito, si unisce all’infinito Presente.
Questo appetito sublime è forse l’origine della parola coelibatus. Seneca la impiegava per lo stato non matrimoniale; Giulio Valeriano l’applicava alla vita celeste. Lo storico poco conosciuto è forse andato più vicino alla verità di un moralista di fama: il cuore che rinuncia agli amori per l’amore più grande è davvero Coeli beatus.