di Marta Sordi
È possibile che l’Apostolo delle genti e il potente ministro neroniano si siano conosciuti? Tracce di un probabile scambio di lettere tra due grandi del passato
Sono usciti a Milano, nel 2001, presso l’editrice Vita e Pensiero, gli Atti del convegno su “Seneca e i Cristiani”, tenuto presso l’Università Cattolica nell’ottobre del 1999. Nel corso del Convegno è stato ripreso in esame, con conclusioni diverse, il problema dell’epistolario fra Seneca e Paolo, di cui Maria Grazia Mara ha ribadito, sulla linea dell’opinione più largamente diffusa, il carattere apocrifo, mentre io, sulla base di nuove ricerche avviate nell’Istituto di Storia Antica dell’Università Cattolica, ho proposto di riaprire tutta la questione.
Gli argomenti in base ai quali ho ritenuto di dover rimettere in discussione la natura apocrifa dell’epistolario, della quale io stessa non dubitavo nei miei studi precedenti, sono innanzitutto due: il primo nasce dalla datazione alla fine del I secolo, o agli inizi del II secolo d.C., di un’iscrizione funeraria di Ostia (C. XIV, 566), rivista per me da un insigne epigrafista, il compianto prof. G. Susini dell’Università di Bologna, dedicata dal padre, M. Anneo Paolo, al figlio M. Anneo Paulo Petro; la presenza di membri certamente cristiani, forse liberti, nella famiglia degli Annei, è la migliore conferma di quei rapporti che già altri indizi (Paolo aveva conosciuto il fratello di Seneca, proconsole di Acacia, al tempo della denuncia a lui mossa a Corinto dal capo della sinagoga locale, e fu poi, con ogni probabilità, assolto, nel suo primo processo romano, dal prefetto del pretorio Afranio Burro, amico e collaboratore di Seneca), lasciavano supporre.
Il secondo motivo è la dimostrazione, fornita con validi argomenti da I. Ramelli, del carattere tardivo di due lettere dell’epistolario, quella relativa all’incendio del 64 e l’ultima, ambedue veramente apocrife, aggiunte al documento da una mano estranea: eliminate queste lettere cadono a mio avviso gli argomenti che inducevano ad affermare il carattere apocrifo dell’intera raccolta e il problema deve essere riaperto.
Le dodici lettere rimaste, alcune datate con i consoli ordinari e con quelli suffetti, un uso che cessa col III secolo d.C., appartengono tutte al periodo fra il 58 e il 62, al periodo, dunque, in cui, come affermava s. Gerolamo, che credeva all’autenticità dell’epistolario, Seneca era ancora potente. Dal punto di vista linguistico, i grecismi sono tutti contenuti nelle lettere di Paolo, mentre la traduzione, da parte di Seneca, horrore divino del paolino phobos theou, sembra escludere la presenza di un falsario cristiano, che avrebbe certamente tradotto timor Dei.
Seneca appare nelle sue lettere come un pagano e parla apertamente degli dei, anche se mostra di conoscere le lettere di Paolo ai Galati, ai Corinzi e agli Achei (i Corinzi?) e di apprezzarne le idee morali e la dottrina, impegnandosi, nel frattempo, a migliorare il difettoso latino di Paolo. Il contenuto non apertamente religioso e il carattere di scambio privato di lettere fra amici giustifica l’ignoranza che i Cristiani ebbero di questo epistolario fino a san Gerolamo: esso è giunto, in effetti, tra le opere di Seneca, non fra quelle di Paolo.
Escluso ogni interesse teologico dell’epistolario, esso potrebbe avere invece, se riconosciuto autentico, un grande interesse storico: innanzitutto esso conferma il periodo della prima prigionia romana di Paolo, 56/58 d.C., risultante dalle fonti migliori relative alle procuratele di Antonio Felice e di Porzio Festo in Giudea; esso permette inoltre di cogliere il momento preciso della svolta anticristiana del governo neroniano, che, se coincide con la svolta generale del 62, trova nell’ostilità della giudaizzante Poppea, sposata in quell’anno dall’imperatore, la sua causa immediata. L’accenno ripetuto all’indignatio della domina per l’allontanamento di Paolo dal giudaismo, con la reticenza incomprensibile in un falsario ma ben giustificabile in un contemporaneo, rivela da parte di chi scrive la conoscenza di fatti (il filogiudaismo di Poppea), che noi conosciamo solo da Flavio Giuseppe, ma che nessun autore cristiano poteva inventare. L’epistolario sembra inoltre presupporre un rapporto che non riguarda solo Seneca e Paolo, ma alcuni dei loro amici e seguaci. Lucilio, amico di Seneca, Teofilo, il cavaliere romano a cui Luca dedica il suo Vangelo.
Nella I lettera Seneca ricorda a Paolo un colloquio avvenuto tra lui e Lucilio negli horti Sallustiani, a cui erano presenti quidam disciplinarum tuarum comites: il rapporto non riguarda dunque solo due persone, ma due ambienti, quello cristiano e quello che faceva capo all’ancora potente ministro di Nerone; i convertiti romani al Cristianesimo, presenti anche nella corte neroniana (come risulta del resto anche dalla lettera ai Filippesi, in cui si parla di Cristiani della casa di Cesare) e i seguaci dello Stoicismo romano.
Sono proprio questi rapporti che inducono a non sottovalutare e a non confinare nella leggenda ciò che emerge dall’epistolario, l’esistenza, cioè, di un dialogo in atto fra gli ambienti dello stoicismo romano di età neroniana e la prima predicazione cristiana.
Contatti spesso verbali sono stati riscontrati tra gli scritti neo testamentari e, specialmente, tra le lettere paoline e gli Stoici dell’opposizione neroniana, Musonio Rufo, che Giustino martire proclama martire del logos seminale, Persio, lodato anche da Agostino. Ma è ancora a Seneca e al suo ambiente che ci riporta la tragedia senechiana Hercules Oetaeus. che, se non è di Seneca, è certamente di uno stoico a lui vicino e che rivela, pur essendo sicuramente l’opera di un pagano, quella stessa conoscenza del Cristianesimo, piena di ammirazione e di simpatia, (ch)e troviamo nell’epistolario fra Seneca e Paolo.
Il rispetto e l’ammirazione che gli Stoici romani ebbero per la figura di Cristo emerge del resto anche in altri autori dello stesso I secolo: Silio Italico rivela nei Punica un ripensamento della croce, che da strumento infamante diventa glorioso martirio e simbolo di vittoria sulla morte per Attilio Regolo, il più grande eroe romano. Prima di Silio è ancora e soltanto Seneca che attribuisce a Regolo la morte in croce.
Io credo, pertanto, che l’attribuzione ad un falsario dell’epistolario fra Seneca e Paolo, debba essere almeno ripensata: né può essere ritenuta una prova di falsità il fatto che Paolo non si presenti esplicitamente come Apostolo (sta scrivendo ad un pagano) né che, semplice cittadino romano, riveli un rapporto di amicizia con il potente ministro di Nerone. Ad Efeso, secondo gli Atti degli Apostoli, egli era divenuto amico degli asiarchi, le più alte autorità locali della provincia d’Asia: ciò rivela la sua indubbia capacità di stabilire dei rapporti, nel suo servizio del Vangelo, anche con i potenti della terra.
Bibliografia
Marta Sordi, I rapporti personali di Seneca con i Cristiani, in Seneca e i Cristiani, a cura di A. P. Martina, Milano 2001, p. 113 sgg
I. Ramelli, L’epistolario apocrifo Seneca-San Paolo, in Vetera Christianorum 34, 1997, p. 1 sgg.
I. Ramelli, La Chiesa di Roma e la cultura pagana: echi cristiani nell’Hercules Oetaeus?, in Rivista di Storia della Chiesa, 52, 1998, p. 11 sgg.
L. Cotta Ramosino, Il supplizio della croce in Silio Italico, in Aevum 73. 1999, p. 93 sgg.
© Il Timone n. 18, marzo / aprile 2002