Beato LEOPOLDO da GAICHE (1732-1815)

Quest’umile Frate Minore recolletto, apostolo dell’Umbria e degli Stati Pontifici, nacque a Gaiche (Perugia) il 30-10-1732 da benestanti contadini e cristiani esemplari: Giuseppe Croci e Antonia Giorgi. Giovanni ricevette da essi un’educazione profondamente religiosa. I primi rudimenti del catechismo e delle lettere egli li apprese dal vicino parroco di Greppoleschieto. Era tanto grande il desiderio che aveva d’imparare che studiava persino sorvegliando il gregge al pascolo.

Un giorno il pievano lo incontrò mentre si recava in chiesa e gli chiese: “Quando sarai grande, ti farai sacerdote?”. “No – gli rispose il fanciullo – mi farò religioso”. – Eh via!! I Frati vivono di stenti, dormono poco e mangiano male”. – “Io non cerco di stare bene, ma di salvarmi l’anima facendomi frate”.

I genitori furono felici di offrire il loro figlio al Signore nell’Ordine dei Frati Minori della provincia di Santa Chiara. Il beato vestì il saio nel convento di San Bartolomeo di Cibottola assumendo il nome di Fra Leopoldo. Nessun novizio fu esemplare quanto lui nell’ubbidienza, nell’osservanza delle regole e nelle pratiche di devozione. Fra Leopoldo si preparò al sacerdozio studiando con impegno lettere, filosofia e teologia nel convento di Norcia, la patria di S. Benedetto. La sua formazione intellettuale dovette essere molto accurata se i superiori, dopo l’ordinazione sacerdotale, che ricevette per le mani del vescovo di Terni, Mons. Pietro Maculari, lo destinarono per tre anni all’insegnamento della filosofia e quindi della teologia. Si disponeva così a diventare un competente ed efficace banditore della divina parola.


Essendo dotato di eccellenti qualità oratorie, era naturale che Fra Leopoldo si sentisse propenso piuttosto alla predicazione che alla scuola. I superiori lo assecondarono in quella sua naturale inclinazione ed egli per quarantasette anni percorse l’Umbria e il Patrimonio della Chiesa dando missioni secondo il metodo di S. Leonardo da Porto Maurizio (+1751). La Santa Sede di costui aveva approvato il Regolamento per le Missioni e il nostro beato lo portava sempre con sé e lo dava da leggere anche ai confratelli che guidava nell’esercizio del ministero essendo stato nominato capomissionario nel 1771, quattro anni dopo cioè che si era dato d’ufficio a quell’apostolato. Per tutta la sua vita egli mostrò di essere uno di quegli uomini straordinari che Iddio di quando in quando suscita nella sua misericordia in mezzo ad una regione per santificarla. Fra Leopoldo si preparava alle prediche con lo studio dei Libri Santi e la preghiera. Non saliva il pulpito senza prima raccogliersi in se stesso e trattare con Dio gl’interessi dei suoi uditori. Trovava così infallibilmente la via dei cuori. Difatti sapeva porgere la parola di Dio con tale unzione tanto col dire concitato quanto con il declamare profetico che illuminava le menti più ottenebrate e piegava le volontà più ostinate nel male.


Durante tutto il suo lungo ministero il beato non cambiò mai metodo o consuetudini di vita. Raggiungeva i paesi o le città in cui doveva predicare sempre a piedi, armato tutt’al più di un rozzo bastone, noncurante del freddo, del caldo, del vento e della pioggia. Appena s’incontrava con la gente che lo andava a ricevere in processione, esortava i suoi compagni a mettersi in ginocchio e poi intonava il Veni Creator per ottenere l’assistenza dello Spirito Santo sopra le sue fatiche apostoliche. Estraeva quindi dal petto alcune sacre reliquie con cui scongiurava il principe delle tenebre a non ostacolare l’esito della missione, e si scalzava per associarsi alla processione cantando le Litanie della Vergine. Arrivato in chiesa riceveva dal parroco il crocifisso e dava inizio alla missione. Non saliva mai il pulpito senza tremare perché era di temperamento timido e riservato, alieno dai vani discorsi. A poco a poco riacquistava la sicurezza desiderata e finiva col conquistare gli uditori che accorrevano così numerosi ad ascoltarlo da costringerlo talora a parlare all’aperto.


In ogni corso formale di missione ripeteva per tre volte il cosiddetto esercizio dello “svegliarino” allo scopo di destare dal letargo i peccatori. Dopo il suono notturno dell’Ave Maria usciva di Chiesa con gli altri missionari e percorreva le vie del paese cantando. Gli uomini e i giovani gli andavano incontro ed egli cercava allora d’infervorarli nel bene con un breve sermone. Quando la comitiva era cresciuta a sufficienza ritornava sempre cantando in chiesa dove il beato teneva un discorso più veemente del primo, e lo terminava flagellandosi aspramente le spalle per tutto lo spazio del Miserere e del Nunc dimittis, che recitava ad alta voce. Verso la fine della missione aveva luogo la processione di penitenza alla quale prendevano parte anche le donne a piedi nudi, con pesanti croci sulle spalle, catene al collo e corone di spine in capo. Anche Fra Leopoldo, già macilento per le continue austerità, reso più pallido del solito per l’eccessiva stanchezza, lentamente incedeva senza sandali, coronato di spine, portando in spalla la croce e cantando. Al suo apparire anche i più incalliti nel male piangevano e gridavano: “Signore, misericordia!”.


La sera precedente e seguente la processione penitenziale il beato faceva suonare a lenti rintocchi la campana maggiore perché i fedeli nelle case si mettessero in ginocchio, si domandassero scambievolmente perdono delle offese e si abbracciassero col proposito di deporre per sempre dal proprio animo ogni odio e rancore. Un’altra processione in onore della Madonna aveva luogo durante la missione alla quale prendevano parte specialmente le donne e le giovanotte vestite di bianco, incoronate di fiori e di spine, che poi conservavano a ricordo della missione. All’ora della partenza dei missionari la gente si affollava intorno alla casa nella quale erano stati ospitati per salutarli, ma il beato, che rifuggiva dalle lodi degli uomini, si dileguava d’ordinario prima dell’ora stabilita.


Dalle deposizioni dei suoi compagni e più ancora da un piccolo Diario o Giornale delle predicazioni iniziato dal beato nel 1761, si rivela che in quarantasette anni d’ininterrotto ministero, egli tenne 330 corsi di missioni formali, quasi sempre della durata di quindici giorni e anche più, 40 quaresimali, 14 corsi di Avvento, 94 corsi di esercizi spirituali, novene e tridui a decine, panegirici e discorsi d’occasione a centinaia, e infine molte altre prediche tenute in luoghi e circostanze svariatissime. Nel corso della sua vita quindi Fra Leopoldo raccolse frutti molto abbondanti con le migliaia di prediche che recitò benché nell’umiltà del proprio cuore dubitasse sempre di sé, ritenendosi inferiore al compito che gli era stato assegnato. Tenacissimo nei suoi propositi, rigoroso nell’adempimento dei doveri, ascoltava volentieri il parere degli altri, specialmente dei parroci da cui dipendeva in tutto ed era propenso a ritenere l’opinione altrui come migliore della propria. Quando poi, dopo aver pregato per la guarigione di un infermo o la conversione d’un peccatore, si vedeva esaudito, allora quasi esterrefatto si buttava piangendo ai piedi del crocifisso temendo per la propria umiltà. Ad imitazione di S. Leonardo da Porto Maurizio eresse 73 Viae Crucis, molte ne restaurò e ovunque tenne missioni fece erigere croci commemorative.


In seno all’Ordine Fra Leopoldo esercitò per ubbidienza importanti uffici: fu guardiano, custode e ministro provinciale. Durante il suo governo con lettere circolari e con visite ai vari conventi, si adoperò per fare rifiorire la piena osservanza, mostrandosi inflessibile contro i negligenti e i colpevoli. Rallentò, ma non smise la predicazione delle missioni al popolo. Ogni volta che ritornava al convento, egli sentiva il bisogno di ritemprarsi nello spirito conducendo una vita più austera e più separata dal mondo. Pensò quindi di trasformare il convento che S. Francesco d’Assisi aveva fondato sopra Spoleto, a Monteluco (1218), in un ritiro di stretta osservanza in cui non fosse introdotto il denaro, non si ricevessero offerte in natura superiori alle necessità, non si mangiasse carne, si dormisse per terra o sopra stuoie, si facesse uso comune di cilici e si osservasse un silenzio continuo durante i pasti per facilitare l’unione con Dio.


Fra Leopoldo stesso con l’approvazione della Santa Sede compilò le Regole e le Costituzioni che in esso si dovevano osservare. Il ritiro fu solennemente inaugurato dall’arcivescovo di Spoleto, Mons.Francesco Locatelli, il 1-11-1788, ma quando cominciava a dare consolanti frutti spirituali per i predicatori che vi si raccoglievano dopo le apostoliche fatiche, fu soppresso dalla bufera napoleonica (1809). Fra Leopoldo esortò a sopportare la croce della persecuzione dicendo: “Non sarà lunga”. Costretto a lasciare il convento spoglio del saio francescano, trovò asilo nel villaggio di Terraia, poco distante da Spoleto. Una buona famiglia gli mise a disposizione una rustica casetta nei pressi di una cappella ed egli la trasformò in centro di devozione. In quel rifugio condusse per quanto gli fu possibile una vita conforme alle regole del ritiro. Essendo stato espulso il parroco di Morgnano, paese confinante con Terraia, perché si era rifiutato di prestare il giuramento di fedeltà al governo usurpatore, Fra Leopoldo lo sostituì nella cura delle anime senza esigere retribuzione alcuna. Persino le elemosine dei fedeli che sopravanzavano alle necessità sue e dei due confratelli che lo avevano seguito, voleva che fossero distribuite ai poveri.


In ubbidienza al vescovo di Perugia il beato lasciò Terraia per predicare in diversi paesi. A Cannara potè terminare senza persecuzioni l’intero quaresimale. Come al solito operò prodigiose guarigioni, ma siccome gli fu richiesto il giuramento ed egli non ne volle sapere, prima fu costretto a vivere come recluso presso la nobile famiglia Lauri di Spoleto, e poi fu confinato nel convento di San Damiano, in Assisi. Dio lo favorì di doni straordinari. Almeno due volte fu visto da confratelli pregare genuflesso davanti al SS. Sacramento con le braccia aperte e il volto così splendente che illuminava la chiesetta. Fu udito pure sospirare alcune volte: “Paradiso! Paradiso! Quanto sei bello!”.


Durante il suo soggiorno in quel santuario molti lo andarono a trovare per chiedergli consiglio e raccomandarsi alle sue preghiere e furono in relazione epistolare con lui. La stella di Napoleone frattanto stava per tramontare. Pensando alla prigionia di Pio VII a Fontainebieau e alle tristi sorti della Chiesa, Fra Leopoldo raddoppiava le preghiere e le penitenze ed esortava gli altri a fare altrettanto. Quando seppe che, caduto il regno napoleonico, Pio VII sarebbe ritornato a Roma attraverso l’Umbria, egli corse ad attenderlo a Foligno per baciargli il piede e chiedergli la facoltà di riaprire l’amato ritiro di Monteluco con altri sei volenterosi confratelli (1814).


Con il saio francescano Fra Leopoldo avrebbe voluto riprendere anche le missioni al popolo, ma le gambe più non lo reggevano. Un giorno, mentre predicava nel ritiro la novena del Natale, cadde riverso sul sedile del pulpito. Fu portato a letto da cui più non si alzò. Non potendo i confratelli somministrargli le cure necessarie nel ritiro, lo trasportarono nel paese, in casa di un benefattore. La camera in cui Fra Leopoldo fu divenne una scuola di santità. Avrebbe voluto morire per terra, adagiato sulla cenere, ma non gli fu consentito. Rese a Dio la sua anima il 2-4-1815 dopo aver più volte invocato il nome di Gesù e di Maria.


Il giorno dopo, il corpo del defunto fu trasportato alla chiesa del ritiro per la sepoltura. Al suo passaggio alcuni infermi ricuperarono all’istante la salute. Per soddisfare la propria devozione la folla accorsa fece più volte a pezzi la tonaca che ricopriva la salma di P. Leopoldo. Quarantotto ore dopo la morte dalle vene di lui fu ancora cavato del sangue molto limpido. Leone XIII lo beatificò il 4-3-1893.



Sac. Guido Pettinati SSP,


I Santi canonizati del giorno, vol. 4, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 27-31.


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