«Grandi cose» Dio ha operato in questo figlio della nostra terra bergamasca
di ROBERTO AMADEI
Vescovo di Bergamo
Fin dalla più tenera età, come ogni bambino bergamasco, aveva imparato ad aprire e chiudere le giornate nell’incontro con il Signore, introdotto dall’orazione: «Vi adoro, mio Dio, e vi ringrazio per avermi creato, redento, fatto cristiano…»; inoltrandosi nella vita aveva aggiunto il grazie perché «sacerdote e bergamasco». Così aveva confidato all’amico mons. Adriano Bernareggi, Vescovo di Bergamo (1932-1953), che aveva reso pubblica tale confidenza nel saluto di apertura dei festeggiamenti in onore del neocardinale Roncalli (1952) per sottolinearne l’amore e il legame profondo con la tradizione bergamasca.
Venendo a contatto con altre tradizioni – così ricordava Roncalli rispondendo al saluto – aveva potuto constatare la ricchezza di fede operosa presente in quella della sua terra d’origine, e da lui respirata, conosciuta e assimilata in profondità nella famiglia, nella parrocchia di Sotto il Monte, nel seminario di Bergamo, visitando le realtà diocesane come segretario del «suo» Vescovo, Mons. Giacomo Maria Radini Tedeschi (1905-1914) e nei molteplici impegni pastorali esplicati fino alla chiamata a Roma (1921). Nella famiglia, numerosa e modesta per risorse economiche come tutte le famiglie contadine bergamasche dell’epoca, aveva imparato e spontaneamente interiorizzato le linee fondamentali del vivere evangelico, la gioia e serenità della fede cristiana: «Io ho dimenticato molto di ciò che ho letto sui libri, ma ricordo ancora benissimo tutto quello che ho appreso dai genitori e dai vecchi. Per questo non cesso di amare Sotto il Monte, e godo di tornarvi ogni anno. Ambiente semplice, ma pieno di buoni principii, di profondi ricordi, di insegnamenti preziosi», così scriveva il 20 dicembre 1932 ai familiari. Aveva avuto la fortuna di crescere in un ambiente dalla fede profonda e solida, capace di illuminare e guidare l’intera esistenza. Una fede che si esprimeva nel rivolgersi al Signore con spontaneità, fiducia, rispetto e obbedienza, perché fonte benevola dell’esistenza, fedele compagno di viaggio, Padre che sempre ci attende per l’abbraccio eterno. Alle sue parole e alle sue vie ci si affida con pace e intima gioia, perché sempre apportatrici di salvezza anche quando sono molto diverse dalle nostre.
Parole e vie radicate nella mente e nel cuore
Parole e vie radicate nella mente e nel cuore dalla diuturna e costante catechesi parrocchiale, nutrite dalle frequenti celebrazioni sacramentali e dalle numerose e sostanziose devozioni. Una fede che con spontaneità diventava operosa sia nella vita personale che in quella sociale: «Diversamente da ciò che accade quasi in tutta l’Italia dove le organizzazioni economiche e sociali sono state e rimangono un mezzo per ricondurre a Cristo e alla Chiesa, attraverso conquiste di carattere materiale, le masse lavoratrici traviate, a Bergamo la vasta e potente organizzazione non fu e non è se non una emanazione spontanea del sentimento religioso della folla…», così si esprimeva nel discorso pronunciato al Congresso Eucaristico Nazionale tenuto
Quell’approccio benevolo e misericordioso alle persone
In questo periodo appaiono anche altri elementi che hanno caratterizzato il suo ministero sacerdotale svolto in luoghi, momenti, ruoli e tradizioni molto diversi. L’approccio benevolo e misericordioso alle persone, accolte ed amate nella concretezza delle situazioni: «Altro che tuoni dal cielo! Carità, carità e verità semplice, schietta, amorevole!». Fedeltà al presente da leggere con attenzione, amore, fiducia e speranza, per aprirlo al Vangelo. La tradizione viva
Dopo il 1920 i bergamaschi l’hanno un po’ perso di vista, perché impegnato in terre lontane e in ministeri non particolarmente brillanti agli occhi umani. Lui non ha mai dimenticato Bergamo,
Le ricchezze seminate dallo Spirito Santo
Abbiamo incominciato a scoprire le «grandi cose» che Dio aveva operato in questo figlio della nostra terra, quando è stato chiamato alla Cattedra di Pietro. La beatificazione ci stimoli a continuare questa scoperta per sempre meglio comprendere la parola che Dio ci rivolge mediante la sua storia. Conoscerlo per esprimergli la gratitudine per quanto ha dato in affetto, in lavoro apostolico e in testimonianza alla storia della nostra Chiesa. Conoscerlo per meglio capire le ricchezze seminate dallo Spirito Santo nella vita della nostra comunità. Individuare queste ricchezze per riviverle nel presente, con la sua fedeltà e gratitudine, per renderle dialogo aperto, fiducioso, accogliente di ogni altra esperienza umana, perché dono del Padre di tutti.
Il «Papa della bontà»
di LORIS F. CAPOVILLA
Arcivescovo titolare di Mesembria, già Segretario particolare di Giovanni XXIII
Tra i fasti dell’anno giubilare si iscrive la beatificazione del «Papa della bontà», decretata da Giovanni Paolo II, che ha accolto il voto di ecclesiastici e laici del mondo intero, tra i primi dell’Episcopato Polacco e del suo Primate Card. Stefan Wyszyñski, la cui testimonianza mi appare ora tra le più sollecite e convincenti.
Giovanni XXIII Successore di Pietro, Vescovo di Roma, chiuse gli occhi alle vicende terrene 37 anni or sono, lunedì di Pentecoste. Per molti di noi risentire la viva voce di lui, non le registrazioni meccaniche, suscita nostalgia inappagabile; ripensare ai suoi insegnamenti, conforto ed incitamento al bene e al meglio. Da quando egli si è dipartito, sentimenti contrastanti si susseguono: abbiamo come l’impressione del definitivo allontanamento di lui e, al tempo stesso, della sua riapparizione nelle sembianze del sacerdote anziano, dal volto mite,
Alcuni si sbagliarono nel giudicarlo
Sia egli benedetto per essersi collocato accanto a noi, averci insegnato a servire e a saperci dimenticare. Sia benedetto per essere stato un cristiano schietto e contento; un prete, uno dei
Ha catechizzato giorno dopo l’altro, con l’aria di chi non si impone, né impone un giogo sulle spalle altrui, insegnando ad amare gli uomini senza escluderne alcuno, a perdonare e a dimenticare le offese. Poiché non presumeva di presentarsi con eleganza e non era preoccupato di far bella figura, né di suscitare simpatie, da principio, oppure osservandolo superficialmente, taluni e molti si sbagliarono nel giudicarlo. Adesso non lo possono più. Egli parla attraverso le rivelazioni del suo Giornale dell’anima, che narra il suo mai intermesso colloquio con Dio; parla attraverso gli atti e i documenti di un diuturno servizio della Chiesa e dell’Umanità. Le affrettate definizioni di ieri, elogiastiche o riduttive, cedono il posto a valutazioni più ponderate, e noi riconosciamo in lui bontà e non debolezza, semplicità e non semplicismo, misericordia e non bonarietà; fiducia e non dabbenaggine, disponibilità interiore e non credulità, candore e non
La prova della sua fortezza cristiana
Conveniamo finalmente che egli era schietto e non arrendevole, generoso e non accomodante; fermo e rigido nei principi, longanime e magnanimo nella comprensione delle nostre debolezze.
Più volte egli diede prova di fortezza umana e cristiana in circostanze innumerevoli prima di farla risplendere dal letto della sua agonia. La incrollabile fede in Dio generava in lui speranza inespugnabile, così da fissare gli occhi su sorella morte corporale senza sentirsene intimidito o spaventato. Ricordo il pomeriggio dell’11 novembre 1953. Gli annunziai la morte di sua sorella Ancilla. Era al tavolo intento a preparare un’omelia. Volevo esprimergli con parole di circostanza la partecipazione al suo dolore. Mi fece cenno con la mano : «Lasciami solo». E subito, a passi rapidi si recò in cappella. Dopo il Rosario della sera, a cena, il volto disteso, come di chi ha ricevuto risposta al più difficile quesito, aggiunse questo breve commento: «Non ti crucciare per me. Due lagrime le ho versate per la morte della mia Ancilla, veramente Ancella del Signore; ora basta. A tanto bisognava arrivare. Al cospetto dell’Altissimo, mia sorella mi sarà d’oggi in avanti di maggior aiuto. La morte è spaventevole per chi non crede. Ma noi, nos qui vivimus benedicimus Domino, noi i viventi benediciamo il Signore ora e sempre (Sal 115, 18)». Senza avvedersene, diede una lezione ai suoi collaboratori. Il giorno dopo riprese le ordinarie udienze, presenziando, inoltre, ad un vivace raduno di cooperatrici domestiche. Si dimostrò, al solito, lieto pieno di brio, arguto, amabilissimo. Alla fine della giornata, avvertii una nota di mestizia nel tremito della voce «Prepara la valigia. Andremo domattina a Sotto il Monte, al funerale». Molti rammentano la sua presenza al capezzale degli ammalati, alcuni particolarmente assistiti da lui, ammirandone l’inimitabile arte di consolare e di incoraggiare, senza l’ombra di restrizioni mentali.
Non mentiva mai, preoccupato di annunciare all’ammalato, con accorta dolcezza, l’imminenza dell’incontro col Signore. Mi par di vederlo all’ospedale di Treviso, ove l’ancor giovane Vescovo Egidio Negrin si dibatteva tra gli spasimi di una martoriante agonia, chinato su di lui, gli occhi negli occhi, il Crocifisso in mano: «Monsignore, coraggio. Diamolo insieme l’ultimo bacio alla croce in segno di fraternità episcopale che si prolunga dalla terra e dal cielo sino al giorno del finale ricongiungimento. Noi Vescovi la portiamo sul petto, ma talora ne viviamo lo strazio nel nostro cuore di pastori». Non parlava così perché anziano. Il tema della morte lo aveva attratto sin dalla giovinezza. Morte e paradiso erano due temi consueti delle sue catechesi, non certo finalizzati alla alienazione dell’uomo, ma piuttosto ad impegnarlo al compimento, financo eroico, dei doveri personali e comunitari, ad impedire l’accusa al cristiano di sottrarsi alle proprie responsabilità. Vive bene e opera santamente chi crede nell’incontro col suo Creatore.
Alla fine, nei giorni di maggio-giugno 1963, richiamando attorno al suo letto miriade di figli e di amici, egli ricapitolò in unum l’emblematica lezione e tramutò l’inevitabile mestizia di quelle ore in un rito pontificale: una grande Messa con la sua omelia, la preghiera universale, l’offerta dei doni, l’immolazione generosa e contenta. Lui agonizzante, una voce anonima delle lontane Americhe commentò: «Papa Giovanni dopo averci insegnato a vivere, ora ci mostri come si deve morire».
Io ho obbedito senza farmi avanti
Moriva un uomo anziano, duramente colpito da morbo inesorabile, non moriva però un sorpassato, un deluso, un pavido. Moriva sapendo di andare incontro al suo Dio, preannunciando ai vicini e ai lontani l’alba sicura dell’immortalità.
Sul principio del suo governo pastorale veneziano gli era giunto all’orecchio che qualcuno, più d’uno, della stessa cerchia domestica, osservava: «È vecchio, viene a noi dopo una troppo lunga
Riaccompagnati per mano alle sorgenti della vita cristiana, non pochi si resero conto di aver coltivato presunzioni e dimenticato talora l’essenziale, l’anima dell’apostolato, che è silenzio e contemplazione, nascondimento ed interiorità, povertà di mezzi, semplicità di parola e di metodo. Mille esempi potrebbero illustrare il successo pastorale riportato da Angelo Giuseppe Roncalli, non il successo senza fatica, prove, rischi, contrarietà e ombre; bensì quello che si manifesta attraverso limitazioni e difficoltà, proprio quando tutto sembra finito e si ritiene non a torto, che un uomo settantasettenne declini verso il riposo e non risalga incontro ad ulteriore testimonianza di servizio.
La vita diplomatica è come una grande Messa
Sull’accomiatarsi da Parigi, dopo otto anni di Nunziatura, il 5 febbraio 1953, Roncalli invitò a colazione i Presidenti del Consiglio succedutisi in Francia dal 1944 al 1952 e i Presidenti dei due rami del Parlamento. La proposta gli era venuta spontanea: mettere tutti insieme, almeno una volta, nella casa del Papa uomini di diverso ed anche contrastante indirizzo politico. Attorno al Nunzio essi si trovarono a loro agio. Quello che doveva apparire un congedo, e per il Card. Roncalli l’ora del rientro in Italia, dopo trent’anni di missione all’estero, in realtà divenne il segno misterioso della missione cui la Provvidenza lo destinava: convocare al convito della pace anzitutto i figli della Chiesa cattolica, e poi i cristiani di tutte le denominazioni ed infine l’umanità intera. In quell’occasione l’anziano Edouard Herriot trovò accenti inconsueti per celebrare le doti di un Ecclesiastico, con cui aveva spesse volte conversato sui temi più disparati di cultura umanistica e di storia: «Voi non vi siete accontentato di risiedere a Parigi e di rappresentarvi degnamente il Sovrano Pontefice, avete messo il vostro cuore accanto al cuore
Così lo avevano scoperto persone dai nomi altisonanti, insieme agli innominati abitatori della periferia parigina e delle parrocchie di campagna convenendo con lui che «per un ecclesiastico, la diplomazia così detta deve essere permeata di spirito pastorale, diversamente non conta nulla e volge al ridicolo una missione santa». Persino i saccenti e i furbi al cospetto del Nunzio, che era un prete, si resero conto che le loro armi si spuntavano, perché «il generato di carne è carne, il generato di Spirito è spirito»: «La vita diplomatica di un Prelato della Santa Sede è come una Messa grande e continuata col suo canone che avvolge di misterioso segreto la celebrazione sostanziale del sacrificio; ma, e prima del canone, e al di là, intreccio di insegnamenti, di preghiere e di canti, che sono gioia dello spirito, soavità incantevole del cuore sacerdotale ed edificazione commossa dei fedeli».
Vi ringrazio per quello che non mi avete detto
Accadeva inoltre che qualche personaggio, rotto a tutte le malizie, volesse mettere in imbarazzo il Nunzio. Un giovane diplomatico ci si provò, raccontando una storiella condita con allusioni
Una carezza ad Andrea Una carezza a Ivan
Sono memorabili le udienze a due donne diversissime per rango sociale ed educazione: Elisabetta d’Inghilterra (5 maggio 1961) e Rada Krusciova Adjubei (7 marzo 1963). Ad entrambe la stessa domanda lasciata cadere nel bel mezzo della conversazione come un fiore: «Come si chiamano i vostri figli? È così dolce sentirne pronunciare i nomi dalle labbra di una mamma». Risponde la prima : «Anna, Carlo, Andrea». Commenta il Papa: «Anna significa grazia. Anche mia madre, umile donna dei campi si chiamava così; Carlo mi ricorda il grande amore dei miei studi, il santo Arcivescovo di Milano che tanta parte ebbe nella riforma della Chiesa; Andrea: Dilexit Dominus Andream in odorem suavitatis. Auguro che sia motivo di consolazione per i genitori. Una carezza ad Andrea che è l’ultimogenito». Risponde Rada con voce timida sillabando in un francese delicatissimo : «Nikita, Alexis, Ivan». Commenta il Papa:
«Nikita, il nonno. Ci sono parecchi santi venerati con questo nome, ma uno, un austero anacoreta, ho venerato a Venezia. Alexis: egli racconta una misteriosa storia di penitenza e di nascondimento. Lo veneravo in Bulgaria. Ivan! Ivan sarei io che ho voluto chiamarmi Giovanni. Prediligo il Battista e l’Evangelista, al punto che, eletto Papa, li invitai a farmi da angeli tutelari nel corso del mio Pontificato. Una carezza a Ivan. Gli altri due non se n’avranno a male».
A raccontare questi fioretti, dove un nonnulla ha vibrazioni delicatissime, si teme di storpiare tutto. Negli incontri con gli uomini, egli si attaccava al filo che gli tendeva la Provvidenza: «Per esile che esso sia, non ho il diritto di disfarmene». Non il telefono rosso o bianco dei grandi della terra, ma la semplicità. Sempre la strategia del piccolo Davide: «O Golia, tu vieni a me armato di tutto punto; io vengo a te nel nome del Signore».
Su questo libricciolo egli si è fatto santo
Papa Giovanni camminò sulle strade del mondo col passo misurato dei contadini della sua terra. A piedi giunse per la prima volta al seminario di Bergamo, ragazzo undicenne, la rozza sacca a tracolla con pochi indumenti e quattro libri. Giunto sulle rive del Tevere ad anni 77, nemmeno più i suoi libri, lasciati a Venezia, portò con sé. Ma subito si premurò di cercarne uno nella biblioteca di Pio XII e vi appose questa nota: «Dalle intimità del Santo Padre Pio XII passato a quelle del suo umile successore». Era L’Imitazione di Cristo. Lo stesso libriccino che s’era fatto dare in dono alla morte del parroco Rebuzzini che l’aveva battezzato: «Ci sono riuscito ad ottenere per prezioso ricordo del Parroco il suo Kempis, quello istesso che egli, fin da quando era chierico usava tutte le sere. E pensare che su di questo libricciolo egli si è fatto santo».
Quest’uomo colto ed erudito, questo cristiano e prete sin nelle intime fibre del suo essere, concluse il suo servizio «tutto contento del messale, del breviario, della Bibbia, dell‘Imitazione di Cristo e del Bossuet, Meditazioni ed elevazioni». Nel suo testamento, egli ebbe la carità di ricordare tutti coloro, defunti o sopravviventi, che aveva incontrato lungo il suo cammino. Dopo aver raccomandato la esecuzione delle sue estreme volontà e ringraziato dei servizi che gli erano stati resi, promise al suo segretario la grande benedizione «che gli assicuro dal Paradiso dove lo starò attendendo per il finale ricongiungimento e per la festa eterna». Ora che Papa Giovanni sta per affacciarsi non più alla finestra dell‘Angelus, ma ad una loggia della Basilica Vaticana, gli chiedo di mantenere la promessa a mio riguardo e nei confronti di quei cristiani che mentr’era tra noi lo riconobbero «allo spezzar del Pane», tanto era manifesta la sua
© L’OSSERVATORE ROMANO Domenica 3 Settembre 2000