fondatore delle Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth
Usò la forza della preghiera contro ogni sfruttamento
di GIULIO SANGUINETI – Vescovo di Brescia
La difesa della Chiesa e del mondo cattolico e del Papato nei confronti dello Stato apertamente anticlericale e sostanzialmente avverso alle masse contadine ed operaie sono alcune note del contesto ecclesiale e sociale che caratterizzano la seconda parte del secolo scorso dentro il quale ha vissuto il sacerdote Arcangelo Tadini. Nasce a Verolanuova, nella bassa bresciana, il 12 ottobre 1846. Dalla famiglia e dall’ambiente impregnato di forte religiosità e di patriottismo ha acquistato la vigorosa sensibilità verso le condizioni di vita degli umili e degli oppressi. Arcangelo Tadini, con il discernimento frutto della profonda preghiera e dello studio, intravede prospettive di intervento a favore della sua gente. Pastore nella parrocchia di Botticino Sera fu parroco attivissimo. Diceva che «la preghiera è la forza di Dio».
È un uomo tutto di Dio e quindi sapiente nell’azione. Nella Brescia industriale dell’Ottocento nascevano bisogni nuovi che reclamavano rimedi nuovi. Un aspetto che affliggeva il cuore del parroco Tadini era lo sfruttamento impietoso delle operaie, giovani ragazze costrette a recarsi fuori parrocchia compiendo viaggi disagevoli e pericolosi. Nel 1894 fonda la filanda per loro. E per annunciare il Vangelo a quanti lavorano fonda la Congregazione delle Suore Operaie. È la preoccupazione di evitare contatti pericolosi con le nuove dottrine che lo spinge alla fondazione della filanda prima e della Congregazione religiosa poi. È dall’osservazione del momento storico e della richiesta di nuovi modi di annunciare il Vangelo che il pastore è stimolato alla ricerca di nuovi strumenti e modalità di evangelizzazione. Si può ben dire che il suo apporto fu una originale applicazione della «Rerum novarum», e, letto nello sfondo della Chiesa di Brescia, questa pagina risulta essere una delle più fulgide del clero e del movimento cattolico bresciano. La beatificazione di Arcangelo Tadini nella immediata vigilia dell’Anno Giubilare ci fa leggere con una originale attualità le sue parole lasciate alle Suore Operaie come stile di vita religiosa: «Gesù, il Verbo, nella redenzione non solo sacrificò se stesso sulla croce, ma per trent’anni non disprezzò di maneggiare la pialla, la sega e altri attrezzi di falegname… Onorate dunque le sante fatiche del Verbo; unite le sue alle vostre, per la redenzione del mondo». Quando don Arcangelo Tadini moriva, il 20 maggio 1912, la Fondazione delle Suore Operaie era incompiuta. Ma il suo essere stato uomo radicato nel suo tempo ma creativamente impegnato sul fronte del nuovo è stato premiato dal riconoscimento postumo della Fondazione e le Suore Operaie restano oggi come presenza viva e tangibile di Lui Parroco e Fondatore.
Eroico testimone al servizio della gente
MARIA REGINA BISCELLA
Arcangelo Tadini nasce a Verolanuova, Brescia, il 12 ottobre 1846. Suo padre, segretario comunale, sposa in prime nozze Giulia Gadola. Rimasto vedovo a 39 anni, con sette figli tutti ancora in tenera età, sposa in seconde nozze la cognata Antonia Gadola, madre di Arcangelo. Di salute delicata e precaria, è cresciuto con particolare cura dai genitori a cui è molto affezionato. Conclusi gli studi elementari nel paese natale, Arcangelo si iscrisse al ginnasio di Lovere, seguendo le orme dei fratelli. Nel 1864 entra nel seminario di Brescia, frequentato anche dal fratello don Giulio. Proprio in questo periodo ha un incidente che lo rende claudicante per tutta la vita. Nel 1870 è ordinato sacerdote. Sono i tempi dell’unità, d’Italia e delle tensioni tra Stato e Chiesa, caratterizzati da una grande povertà del popolo, dalle contrapposizioni politiche e dai primi tentativi di industrializzazione; sono tuttavia tempi di grande carità cristiana e di diffusa religiosità. Don Arcangelo esordisce nel suo nuovo ministero con un anno di malattia, che lo costringe a rimanere in famiglia.
Dal 1873 è Vicario-cooperatore a Lodrino, piccolo paese di montagna, e poi curato al santuario di s. Maria della Noce, frazione di Brescia. In entrambe le parrocchie è anche maestro elementare. La sua attenzione ai bisogni della gente emerge fin dai primi anni di ministero sacerdotale: quando, a causa di un’alluvione molti parrocchiani rimangono senza casa, riesce ad organizzare in canonica una mensa per 300 pasti al giorno e dare un riparo ai sinistrati. Nel 1885 entra a Botticino Sera come Vicario-cooperatore. Due anni dopo, a 41 anni di età, è nominato Parroco arciprete della stessa chiesa. Qui celebra i suoi venticinque anni da parroco prima di tornare al Signore il 20 maggio 1912. Sono certamente gli anni vissuti a Botticino i più fecondi della vita di don Tadini. Egli ama i suoi parrocchiani come figli e non si risparmia in nulla, perché questa porzione di popolo di Dio affidata alle sue cure di pastore possa crescere umanamente e spiritualmente. Dà inizio al coro, alla banda musicale, a varie confraternite; ristruttura la chiesa, offre ad ogni categoria di persone la catechesi più adatta, cura la liturgia. Ha una particolare attenzione per la celebrazione dei Sacramenti. Prepara le omelie tenendo presente da una parte la Parola di Dio e della Chiesa, dall’altra il cammino spirituale della sua gente. Quando parla dal pulpito, tutti rimangono stupiti per il calore e la forza che le sue parole sprigionano. La sua cura pastorale è rivolta soprattutto alle nuove povertà. È il tempo della 1ª rivoluzione industriale. Don Tadini, seguendo l’esempio di altri sacerdoti, fonda a Botticino l’Associazione Operaia di Mutuo Soccorso, che garantisce agli operai un sussidio in caso di malattia, infortunio sul lavoro, invalidità e vecchiaia. Tra i suoi parrocchiani le giovani, proprio perché giovani e perché donne, sono tra i lavoratori quelle che maggiormente vivono nell’incertezza e subiscono ingiustizie.
Sfruttate, spremute come limoni, difficilmente riescono a formare una famiglia e a crescere i propri figli. A loro don Tadini dona gran parte delle proprie forze. Sollecitato dalla «Rerum novarum» di Papa Leone XIII del 1891, interpretando i segni dei tempi, progetta e costruisce una filanda dando fondo a tutto il suo patrimonio familiare. Nel 1895 la filanda è ultimata con strutture e impianti all’avanguardia. Tre anni più tardi acquista con un prestito la villa adiacente alla filanda per farne un convitto per le operaie. Per educare le giovani operaie don Tadini fonda, non senza difficoltà, la Congregazione delle Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth. Esse entrano negli stabilimenti industriali a lavorare con le operaie; si occupano delle ragazze condiscendendo le fatiche e le tensioni del lavoro e le educano con l’esempio, guadagnandosi il pane sullo stesso banco di lavoro. Alle Suore Operaie e alle famiglie don Tadini addita come modello Gesù, Maria e Giuseppe a Nazareth, che nel silenzio e nel nascondimento hanno lavorato e vissuto con umiltà e semplicità. Alle Suore e alle giovani lavoratrici indica come esempio Gesù, che non solo ha sacrificato se stesso sulla croce, ma prima per 30 anni a Nazareth non si è vergognato di usare gli strumenti del carpentiere, di avere le mani incallite e la fronte bagnata di sudore. Il suo amore di padre e le sue opere fanno comprendere ai lavoratori che il lavoro non è una maledizione; esso è il luogo dove l’uomo è chiamato a realizzarsi come uomo e come cristiano. Di più, se accettato nella fatica e nelle sue inevitabili difficoltà, permette all’uomo di cooperare alla redenzione e diventa tempo di unione con Dio. Con una salute così gracile e zoppicante ad una gamba, dove ha trovato don Tadini la forza per realizzare quanto ha fatto? La risposta sta nella sua intima e costante unione con il Signore, sostenuta dalla penitenza e dalla preghiera. Dorme in media cinque ore per notte, si nutre solo di minestra, verdura cruda, decotto d’avena e frutta. I suoi parrocchiani lo vedono stare per ore davanti all’Eucaristia, immobile, in piedi – la gamba claudicante non gli permette di inginocchiarsi – assorto completamente nella contemplazione di Dio.
Lo vedono camminare per le vie del paese sempre con la corona del rosario in mano. La sua fiducia nella Provvidenza è illimitata: la sua umiltà e la sua obbedienza ai superiori brillano nelle situazioni di maggiore difficoltà. Quando don Arcangelo Tadini conclude la sua vita terrena il 20 maggio 1912, la comunità parrocchiale di Botticino si accorge che si è spenta una luce. Era la vigilia della prima guerra mondiale e si stava realizzando un avvenire torbido per la fede, per la pace e per la giustizia.
La sua testimonianza è stata forte e piena di opere di carità. Nel suo ministero tutti hanno visto un maestro di vita spirituale, ma in forma silenziosa, quasi nascosta, ma proprio per questo più credibile. Il suo ministero sacerdotale è stato sorgente di vita e di grazia. Il popolo semplice, come anche le suore, che vivono lo spirito soprannaturale, chiamano tutto questo «santità».
Una Congregazione dedicata alla carità
PIA PELLUCCHI
Per don Tadini l’Eucaristia è mistero di silenzio e di solitudine, qualche volta di angoscia e di dolore, ma sempre mistero della tenerezza di Gesù che riempie l’uomo. «O mio buon Gesù, io credo fermamente che ricevendo quell’Ostia venerabile, riceva il vostro Corpo il Vostro sangue, l’anima e la divinità vostra. Credo e darei la vita a conferma di questa fede, ma Voi ravvivatela e rafforzatela… Vi amo con tutto il cuore vi amo, vi amo sopra ogni cosa. Ecco dunque Gesù proprio qui nel mio cuore, vi credo, vi amo, vi sento, vi adoro, vi contemplo nell’Ostia santa o Gesù. Il mio Creatore, il mio Redentore, il mio Re è proprio qui con me». Sono stralci di una sua meditazione. E la sua contemplazione continuava nella preghiera, una preghiera che diventava per lui continua, uno stile di vita. Si diceva di lui: «È uomo di preghiera sia in chiesa che fuori, lo si vede con la corona del rosario in mano anche per la strada; il suo contegno è raccolto, sempre, e questa è opinione comune; è un uomo di grande virtù e preghiera, è opinione di tutti».
Per il Tadini la preghiera è il respiro dell’anima, è «versare tutto il nostro cuore nel cuore di Dio, è un nasconderglisi in seno, è un cercare la nostra pace, è uno smarrirsi in Dio». E lo smarrirsi in Dio del prete di Botticino arriva alle vette più alte della fede: «Mio Dio io mi vergogno di me stesso al vedere quanto voi fate per salvarmi, vi ringrazio di tanta vostra bontà, benedico la vostra misericordia; io fuggo da voi e voi venite a cercarmi, io vi offendo e voi mi offrite il perdono… o mio Dio quanto siete buono… eccomi ai vostri piedi, perdono mio Dio, perdono. Io sono un figlio ingrato, siate voi un padre amorevole». E quando la sua piccolezza, nell’infinita misericordia di Dio, diventa coscienza di essere strumento del suo amore, il suo cuore si esprime così: «Sono un ambasciatore povero, tutta la mia scienza è la croce, tutta la mia forza: la stola. Signore, ti ringrazio che sono un buono a nulla». E la sua povertà e austerità di vita si esprimeva in mille sfumature, dal sistema vegetariano da lui adottato, alla vendita di tutte le sue sostanze per aiutare le operaie con il convitto, la filanda, la congregazione, fino a rischiare il pignoramento. Ma il momento più duro e umiliante fu anche il punto massimo di abbandono alla Provvidenza. «Io non vivrò ancora molto, E non ho nulla da lasciare a Botticino in ricordo. Ma vi è una cosa che vivrà dopo di me e che lascio a voi; mi sono sacrificato per dare il pane ai miei parrocchiani, fabbricando a stento e con grandi fatiche la filanda, affinché le figliole non uscissero di paese con loro pericolo. Se tutto ciò continuerà nel timore di Dio e nella fede all’opera, allora le difficoltà saranno, con l’aiuto di Dio, superate, altrimenti io pregherò il Signore che tutto si sciolga».
Tanto era austero con se stesso, quanto attento ai poveri, tanto che per il suo venticinquesimo di sacerdozio organizzò un banchetto per bisognosi e anziani soli del paese, che andò egli stesso, casa per casa, a invitare. E come la sua povertà era attenta al bisognoso, così la sua intimità con Dio sapeva percepire le necessità degli uomini e della società del suo tempo. Ecco allora l’attenzione alla famiglia, per la cui cura organizzò corsi di formazione per fidanzati e puntualizzò tanti suoi interventi nella predicazione per la pastorale ai genitori, affinché sempre più la famiglia fosse una vera chiesa domestica.
Ecco allora l’insistenza sulla carità: «Sì, o cari, per quanto intraprendiamo pratiche devote, salutari penitenze, per quanto soffriamo di fatiche e di stenti e di patimenti, se tutto ciò non è diretto alla carità, non potremo ottenere salvezza. Le parole non bastano, ci vogliono i fatti. Dalle opere si conosce l’amore, poiché l’amore non è vero amore se non opera cose grandi e se ricusa di operare e di tessere l’unità… La carità è come il fuoco: o brucia o si spegne. Potrà star ferma, l’aria, l’acqua potrà stagnarsi, ma il fuoco o avvampa o muore. Tutte le altre virtù potranno far sosta, ma la carità giammai, conviene o che operi o che muoia».
Una carità che in don Tadini diventa operatività, diventa messaggio evangelico, perché la vita si incarni nel feriale scorrere della storia dell’umanità e la Parola diventi grido silenzioso sommerso nel quotidiano, dove il Verbo continua la sua incarnazione. È da questa carità, attenta all’uomo e risposta a Dio, che nascono: la Società Operaia di Mutuo soccorso, la filanda per dare lavoro alle ragazze del paese, e per impedire che le stesse giovani lasciassero famiglia e parrocchia e perché al lavoro fosse resa quella dignità voluta da Cristo Gesù. Ma la filanda non è sufficiente, le giovani hanno bisogno di un convitto, ma ancora non basta: il Tadini vuole religiose operaie con le operaie; è l’opera di don Arcangelo, ma anche la sua croce, da cui lui potrà vedere risurrezione solo dal cielo.
Le peripezie che incontra il giovane istituto sono le più varie e arrivano da ogni parte, fino alla volontà di fondere la nascente congregazione con altro istituto religioso. La fiducia e l’abbandono alla volontà di Dio da parte del Fondatore furono sempre grandi, come altrettanto grande fu la tenacia nel difendere l’opera. Il Tadini moriva il 20 maggio del 1912 senza vedere una sicurezza per il suo istituto, ma nella certezza che «…quest’opera è la più necessaria, la più importante, la più calda di palpitante attualità. Potrà sembrare la sua nascita un po’ innanzi tempo, ma se Dio l’ha fatta sorgere è segno che è giunto il tempo». E lasciando un testamento alle prime suore: «…e se voi non continuerete nel vero spirito che richiede l’istituto delle Suore Operaie, io per primo aiuterò il Signore a distruggerlo». In una lettera del Tadini alla Congregazione dei religiosi, lettera datata 2 novembre 1910, è chiaramente delineato il fine dell’Istituto «che vuole chiamarsi delle Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth: entrare negli opifici e stabilimenti industriali, non tanto a dirigere e sorvegliare, quanto a lavorare insieme con le operaie, facendosi esse stesse operaie». Questo il dono dello Spirito che don Tadini ci consegna: l’evangelizzazione del mondo del lavoro attraverso la condivisione, nella predilezione per i più poveri, come il Padre Fondatore affermava nel suo tempo: «Se la classe operaia, in generale, è miserabile, quella che lavora nei setifici è la più miserabile ancora: perché donna e perché deve lavorare in condizioni disumane». Don Tadini avverte che la parte di Chiesa in cui è chiamato ad attuare la salvezza, è il mondo operaio impegnato nell’industria. Il suo intento è di contrapporre alla disgregazione dei valori, la testimonianza cristiana e religiosa delle suore, per quel bene morale dei giovani, quella promozione umana e giustizia sociale auspicate dalla «Rerum novarum».
La suora operaia, nella concezione del Padre fondatore, è una lavoratrice che come religiosa si conforma a Cristo nell’intenzione del lavoro nella Santa Casa di Nazareth. Lo stesso Fondatore esprime questo concetto che ci viene trasmesso dai suoi scritti: «Se il lavoro è così disprezzato, anzi, odiato da molti, perché non vi possono essere delle anime generose che, col loro esempio, diano a vedere che il lavoro non è un’umiliazione, ma bensì una gloria che nobilita facendoci simili a Gesù Cristo che l’amò e santificò per trent’anni là nella casa di Nazareth». Senza ombra di dubbio il modello per don Tadini è Nazareth, Gesù lavoratore, la Santa Famiglia nella casa di Nazareth, e lo si sente in alcuni stralci di meditazioni raccolte dalle memorie delle sue suore: «Onorate le sante fatiche del Verbo, unite alle sue le vostre, per la redenzione del mondo. Mentre lavorate con le mani, il vostro cuore, la vostra mente, si elevi e si unisca a Dio. In tal modo il vostro lavoro sarà una continua preghiera. Gesù, il Verbo della redenzione, non solo sacrificò se stesso sulla croce, ma per trent’anni non disdegnò maneggiare la pialla, la sega e altri attrezzi di falegname, sì che le sue mani si devono essere incallite, la sua fronte dovette essere madida di sudore. Animo dunque, noi che siamo chiamati ad educare le operaie, dobbiamo fare ogni sacrificio perché siano ben istruite, questo procureremo di fare con ogni premura. Sacrificatevi per tutte le operaie, senza cercare la soddisfazione. Non abbandonate le discole. Precedetele con l’esempio, non risparmiando fatica alcuna, per umiliante che sia».
In quanto alla spiritualità ispirata alla Sacra Famiglia, si legge in una testimonianza: «Dopo la povertà, tutto il cuore del Servo di Dio era per la Sacra Famiglia e andava pensando al modo di averla rappresentata al più naturale nella chiesetta. E vi riuscì dopo quattro anni che era iniziata la congregazione, mettendo sull’altare un plastico rappresentante la Sacra Famiglia che lavora. Così, con maggiore forza, andava formando le sue figure a modellarsi in tutto nei santi personaggi, spronandone a rispecchiare in se stesse le loro virtù». Tuttora nella cappella della Casa Madre possiamo ammirare tale plastico della Santa Famiglia.
Ha portato il fermento del Vangelo nel mondo del lavoro
LIVIO ROTA
Don Arcangelo aveva ricevuto negli anni dell’infanzia e della giovinezza un’educazione distinta e severa. La sua data di ordinazione sacerdotale, il 1870, può essere assunta come chiave ermeneutica delle sue scelte future: la difesa della Chiesa, del mondo cattolico e del papato nei confronti di uno Stato apertamente anticlericale e sostanzialmente avverso alle masse, contadine od operaie che fossero. Don Tadini, che farà sempre aperta e fiera professione di intransigentismo, inizia il suo ministero sacerdotale nel momento in cui si acuisce lo scontro frontale tra cattolicesimo e Stato: come già sappiamo è, il suo, un tempo che vede scaturire in molti sacerdoti bresciani un dinamismo apostolico tra i più rilevanti della storia ecclesiastica di questa diocesi. Sarebbe però fuorviante volgersi subito all’opera sociale di don Tadini senza cercare di capire perché e come egli sia giunto alle sue originali creazioni in tale ambito. È infatti il Tadini parroco che ci aiuta a comprendere il Tadini fondatore delle Suore Operaie.
Tutto quello che egli fece e realizzò, infatti, scaturì dal cuore e dalla mente di un parroco che sentiva ardentemente la responsabilità del gregge a lui affidato. Un prete che in 25 anni di permanenza nella parrocchia non se ne allontanò che in rarissime occasioni non poteva non convincersi che il mondo per lui terminava con le ultime case di Botticino: non per ristrettezza mentale, certamente, ma per un coinvolgimento, un’assimilazione profonda con la quotidianità dei suoi parrocchiani.
In definitiva il denominatore comune delle molteplici realizzazioni di don Tadini fu proprio il desiderio di ancorare la gente alla propria terra, al proprio passato. Don Arcangelo incarnò letteralmente il dettato prescritto dal Concilio di Trento alla figura della guida spirituale: che essa si senta chiamata non ad propria commoda, non ad divitias aut luxum, sed ad labores et sollicitudines pro Dei gloria.
Questo zelo paterno, a volte quasi iperprotettivo per i nostri gusti, era innanzitutto fondato su un’intensa vita interiore. Egli fu principalmente uomo di preghiera, segnato da una forte ed ascetica tensione verso l’assoluto. Stupisce notare come un uomo che passava molte ore della sua giornata in canonica od in chiesa, solo come un eremita, fosse sentito dai suoi parrocchiani così vicino, così partecipe delle loro vicende. Tutti si sentivano conosciuti e chiamati per nome da un prete che usciva da casa con molta parsimonia.
Un altro aspetto essenziale del suo ministero parrocchiale fu la predicazione. Venne ricordato a lungo come un uomo dotato di grande talento oratorio, che affinava con lettura di classici come Bossuet, Bourdaloue, Alimonda. La sua era un’omiletica dai contenuti solidi, a carattere prevalentemente apologetico – morale; una viva narrazione, aderente ad un uditorio popolare, che faceva leva sulle emozioni ed abbondava di esempi atti a scuotere ed impressionare; una predicazione che presentava toni affettivamente molto caldi e forme capaci di incidere e di rimanere a lungo nella gente.
Alle doti di predicatore Tadini univa, da buon bresciano, una coraggiosa intraprendenza e lo spirito d’iniziativa e di concretezza che ne fecero un ottimo organizzatore pastorale. Don Tadini portò ad un alto, esemplare, livello di realizzazione quello che è il compito fondamentale del sacerdote: dare forma al Popolo di Dio costruendo ed unificando la parrocchia attraverso lo spezzare il Pane della Parola e dell’Eucaristia e l’esercizio della carità. Da queste considerazioni si può ben comprendere come il Tadini fondatore affondi le sue radici nel Tadini parroco: è la preoccupazione di evitare alle giovani della parrocchia contatti pericolosi con le nuove dottrine che lo spinge alla fondazione della filanda prima e della congregazione religiosa poi. Fu questo, lo sappiamo, la fonte delle maggiori preoccupazioni per il Tadini. Potrà stupire il fatto che un uomo apparentemente così riservato e lontano dal mondo si sia gettato in un’impresa del genere, per lui foriera di critiche ed accuse, anche di non pochi tra i suoi confratelli: ma alla base stava la sincera e disinteressata volontà di andare incontro ai bisogni materiali e spirituali del suo popolo. L’osservazione delle res novae stimolò il cuore e la mente del pastore alla ricerca di nuovi strumenti e modalità di evangelizzazione. Proprio da qui nasce l’idea delle suore operaie, come geniale risposta alla sfida portata alla Chiesa dalla questione operaia e dalla questione femminile. Questa volta ebbe ad affrontare non tanto e non solo problemi di carattere finanziario bensì le perplessità della gerarchia: erano gli anni in cui la Curia Romana esigeva, particolarmente tra le truppe scelte della Chiesa, sacerdoti e religiosi, ordine, chiarezza, disciplina. I Sacri palazzi non erano tanto propensi a concedere facili avventure: così doveva apparire quel gruppo di religiose, dalla vita e dalla regola incerta, troppo a contatto con ambienti ritenuti poveri di spirito religioso, forse addirittura umilianti. E, ancora una volta, in questa serie di paradossi che scandiscono la vita del Tadini, è curioso osservare come un’intuizione così innovativa ed originale sia opera di un sacerdote fieramente intransigente, accanito lettore e diffusore dei più battaglieri giornali conservatori, come La Riscossa dei fratelli Scotton. La sua è una visione del mondo che, pur restando graniticamente tradizionale fornisce uno strumento nuovo per aggiornare il cristianesimo. Infatti se le suore maestre od infermiere facevano parte ormai senza problemi dell’immaginario collettivo ecclesiastico, ancora molto ispirato ai canoni dell’assistenzialismo un po’ paternalistico che aveva contraddistinto a lungo l’azione sociale dei cattolici, la suora lavoratrice, operaia tra operaie, significava l’abbandono di questi schemi ed una comprensione più positiva del mondo del lavoro: esso appariva non più la fucina di visioni atee od avverse alla Chiesa, ma un ambiente bisognoso del fermento del Vangelo, un mondo da incontrare, più che da contrastare.
Quanto questa visione della donna nella società fosse innovativa appare chiaro dal confronto con l’atteggiamento in merito di altri ambienti cattolici. Pensiamo, ad esempio, ad un opuscolo di un gesuita torinese, il Chiaudano, dal titolo Congressi femminili, che si opponeva duramente a quasi tutte le rivendicazioni avanzate della donna. L’opuscolo incontrò un certo favore da parte di alti esponenti della gerarchia ecclesiastica come l’Arcivescovo di Torino e il Cardinale Merry del Val: questa sintonia tra il Chiaudano e Pio X venne confermata nel 1913 dalla nomina del gesuita a direttore della prestigiosa Civiltà Cattolica. Possiamo anche ricordare, inoltre, come un uomo del calibro di Giuseppe Toniolo, stendendo l’appello per la costituzione dell‘Unione Donne di Azione Cattolica, descriveva in modo del tutto negativo la presenza femminile nella scuola, nelle fabbriche, negli uffici, concludendo che non era necessaria nessuna innovazione della posizione femminile, ma solo «una più perfetta applicazione dei principi cristiani». Nel momento di passaggio da una civiltà contadina ad una industriale l’intuizione di don Arcangelo si può ben definire un originale apporto all’applicazione della Rerum novarum e la vita del parroco di Botticino appartiene alle pagine più fulgide non solo del clero bresciano, ma anche a quelle del movimento cattolico di questa diocesi.
Quando Tadini moriva, il 20 maggio del 1912, lasciava la sua creatura in una situazione precaria, senza nessuna sicurezza di carattere giuridico od economico, mentre restava ancora pendente la temuta fusione con la Congregazione delle Ancelle. La morte privava il parroco di Botticino di quel riconoscimento troppe volte postumo nella vicenda della Chiesa: è estremamente e drammaticamente significativo, come ha già fatto rilevare con acume il Fossati nella sua biografia, che il giornale bresciano Il Cittadino, organo in strettissima simbiosi col movimento cattolico del tempo, nel suo elogio funebre del 21 maggio 1912 non faccia alcun cenno all’opera sociale di don Tadini.
La morte lo coglieva così, mentre lasciava incompiuto e precario il sogno di una vita, come Mosé, l’uomo dell’Esodo che non riuscì ad entrare nella Terra Promessa ma che anche «rimase saldo come se vedesse l’Invisibile» secondo l’espressione della lettera agli Ebrei (Eb 11, 27).
© L’OSSERVATORE ROMANO Domenica 3 Ottobre 1999