Nasce nel 1901 a Torino in una famiglia della ricca borghesia. Amico di tutti, esprime sempre una fiducia illimitata e completa in Dio e nella Provvidenza ed affronta le situazioni difficili con impegno, ma con serenità e letizia. Frequenta le Opere di san Vincenzo e si dedica alle opere assistenziali a favore di poveri e diseredati. Si iscrive a diverse congregazioni e associazioni cattoliche, aderisce alla «Crociata Eucaristica» e frequenta la Congregazione Mariana che lo inizia al culto della Madonna. Fonda con i suoi amici più cari una «società» denominata «Tipi loschi» che raccoglie giovani attenti ad aiutarsi nella vita interiore e nell\’assistenza degli ultimi. Muore di poliomelite fulminante il 4 luglio 1925.
Giovanni Paolo II, quand\’era arcivescovo di Cracovia, dopo aver visitato la mostra fotografica su Pier Giorgio, effettuata nel 1977 nella diocesi polacca, ebbe il felice intuito di definirlo "l\’uomo delle otto beatitudini, che reca con sé la gioia della salvezza offertaci da Cristo"; e il Card. Giuseppe Gamba, arcivescovo di Torino, a pochi anni dalla morte del suo diocesano dichiarò che era stato "un modello di vita integralmente cristiana". Il giudizio dei due porporati confermava quanto di lui dicevano i compagni di università, i poveri e la gente comune: "Quel ragazzo è un Santo". Frassati nacque a Torino il 6-4-1901, secondo dei tre figli che Alfredo (+1961), autoritario giurista liberal-democratico, fondatore di La Stampa e sostenitore della politica di Giovanni Giolitti (+1928), ebbe dalla cugina Adelaide Ametis, donna appassionata di pittura, ma impulsiva e presuntuosa. Fu battezzato subito, in casa perché asfìttico, da Mons. Alessandro Roccati, parroco di Santa Maria delle Grazie (Crocetta) coni nomi di Pietro, Giorgio e Michelangelo. Le cerimonie furono supplite a Pollone (Vercelli), dove i Frassati possedevano una grande villa e trascorrevano le vacanze.
Con la sorella Luciana, ultima dei figli, Pier Giorgio apprese i primi rudimenti del sapere in casa. Sostenne gli esami di maturità presso l\’Istituto dei Salesiani di Alassio (Savona) il 20-7-1910 e, pochi mesi dopo, iniziò con la sorella, a Torino, le scuole superiori, presso il Regio Ginnasio-Liceo Massimo d\’Azeglio. Dal ginnasio furono ritirati dalla madre forse per le difficoltà scolastiche incontrate. Don Antonio Coiazzi (+1953), primo biografo del beato, dai suoi superiori fu incaricato di dare loro ripetizioni di latino. La Stampa aveva difeso i salesiani dalla campagna inscenata da anticlericali e massoni contro loro presunte immoralità nel collegio di Varazze (Savona). Il rettore maggiore dei Salesiani, Don Paolo Albera (+1921), espresse al direttore tutta la sua riconoscenza mettendo a disposizione dei suoi figli un abile professore.
I due Frassati nel 1911 si accostarono alla prima Comunione nella cappella delle Suore Ausiliatrici del Purgatorio sotto la guida di Don Cesarlo Boria, amico di famiglia e maestro di religione. Poco dopo furono reiscritti al "Massimo D\’Azeglio". Nel passaggio dalla seconda alla terza ginnasiale, Pier Giorgio fu bocciato in latino. Suo padre venne nominato senatore del Regno (1913). Pier Giorgio fu trasferito all\’Istituto Sociale non pareggiato, retto dai Padri Gesuiti. In esso frequentò la terza classe ginnasiale e si ascrisse all\’Apostolato della Preghiera e alla Crociata Eucaristica. Nel 1915, corroborato in parrocchia dal sacramento della Cresima, con la sorella frequentò la quarta e la quinta ginnasiale e il primo anno di liceo classico al "Massimo d\’Azeglio". Bocciato in latino, ritornò all\’Istituto Sociale, dove compì seconda e terza liceo insieme (1917-1918), come permetteva un\’apposita legge varata in vista di una eventuale chiamata alle armi per la guerra, e ricuperando quella lontana prima ginnasiale interrotta. Alla fine del 1918, riuscì a conseguire la licenza liceale.
Nel corso degli studi ginnasiali il Frassati non aveva dimostrato di possedere una particolare prontezza e facilità di apprendimento. Sovente appariva distratto, ciarliere e assente alla disciplina collettiva. Dai genitori era ritenuto un po\’ tardo, buono a nulla; "l\’ultima ruota della famiglia". I successi conseguiti erano dovuti, perciò, alla tenacia con cui affrontava lo studio, animato com\’era da un severo senso del dovere. Fu frequentando i Gesuiti dell\’Istituto Sociale, che Pier Giorgio approfondì, maturò e prese in considerazione il proprio sentimento religioso, fino allora rinchiuso come in un bozzolo. Dalla mamma ebbe una educazione borghese più spartana che religiosa. Tra lui e i genitori non esistevano confidenze e vicinanza perché i Frassati possedevano una fede molto astratta ed esteriore. Dal padre, agnostico, ma onesto giornalista, ereditò soltanto un profondo rigore di coscienza, motivo per cui il figlio soffrì "di solitudine in casa", perché, mosso dalla grazia, crebbe con aspirazioni del tutto diverse dai suoi familiari, che non lo compresero, accanto ai quali visse come un estraneo. Gli stessi rapporti tra i suoi genitori non furono facili, per una sorda lotta che da anni recava loro tristezza e dolori silenziosi, da giungere al punto della rottura che sarà scongiurata soltanto dalla prematura morte del figlio.
Pier Giorgio ricavò le linee portanti della sua spiritualità dalla parola di Dio, dall\’Eucaristia, e dall\’amore ai poveri, nei quali vedeva il volto del Cristo, tramite il P. Lombardi SJ., direttore spirituale degli alunni dell\’Istituto Sociale e della Congregazione Mariana, che ne costituiva l\’anima. Dalla Congregazione aveva avuto origine la Conferenza di S. Vincenzo de\’ Paoli dedicata al Cottolengo. Il Frassati vi appartenne dal 1918 al 1923, anno in cui passò a quella del circolo universitario "Cesare Balbo", ospitata presso la chiesa della Madonna della Visitazione in Via XX Settembre.
Nel Novembre del 1918, Pier Giorgio si iscrisse al Politecnico di Torino nella facoltà di ingegneria industriale meccanica, con specializzazione in ingegneria mineraria, sia per essere a contatto dei minatori, la classe operaia più sacrificata, e sia per la maggior facilità con cui apprendeva le scienze esatte. Negli anni giovanili aveva sentito in sé una certa inclinazione per il sacerdozio, ma vi aveva rinunciato. Come seminarista avrebbe trovato un insormontabile ostacolo nella famiglia, come laico impegnato avrebbe potuto aiutare meglio il popolo minuto trascurato da tutti. Per integrare la sua formazione religiosa, nel novembre del 1919, con il permesso della mamma, alla quale ubbidì sempre con sollecitudine, si era fatto socio del circolo universitario cattolico "Cesare Balbo" in cui, sotto la guida dei gesuiti, si discutevano problemi di attualità e questioni sociali. Nella sua mente cominciò a coltivare idee che non potevano collimare con quelle di suo padre, anzi ne sconvolgevano i piani perché aderiva ai cattolici di sinistra.
Nel vedere il figlio crescere distaccato da La Stampa, così restio a prendersi carico dei suoi doveri di erede maschio, Alfredo, sottovalutandone il serio impegno negli studi, non comprendendo da che spirito era animato nello svolgere simultaneamente un\’intensa attività apostolica, nel 1922 gli scrisse da Berlino, dove era stato inviato come ambasciatore: "Bisogna che ti persuada che la vita bisogna prenderla sul serio… ho poca speranza che tu cambi, eppure sarebbe strettamente necessario cambiare subito… non vivere alla giornata, senza pensiero come uno scervellato qualunque. Se vuoi un po\’ di bene ai tuoi, devi mutare. Io sono molto, ma molto di cattivo umore". Nessuno seppe mai quale tacito dolore fosse per il beato la mancanza di fede nel padre. Con il trascorrere degli anni, la famiglia venne ad ignorare completamente quale fosse la vita del figlio e cosa facesse fuori casa. Soltanto al momento dei suoi funerali i genitori apriranno gli occhi sulla grandezza d\’animo del loro Pier Giorgio.
Alla scuola dei Gesuiti, il Frassati si abituò a servire la Messa, a fare quasi quotidianamente la comunione e la visita a Gesù Sacramentato.
Quando doveva trasferirsi da una parte all\’altra della città cercava di percorrere quelle strade che lo mettevano in condizione di passare davanti al maggior numero possibile di chiese per togliersi il cappello, fare un ampio segno di croce e recitare una preghiera. Ogni volta che prendeva parte a processioni o funzioni liturgiche, pregava e cantava forte con il popolo benché fosse stonato. La sera non andava a dormire se prima non aveva recitato le preghiere inginocchiato per terra, accanto al letto, anche d\’inverno. Attestò il suo più intimo amico, Antonio Severi: "Quando pregava, quando parlava, quando in ogni altro modo agiva, rendeva la sua testimonianza cristiana con così connaturale spontaneità, da suscitare stupore, meraviglia, desiderio di emulazione".
Nel turbolento ambiente universitario, diviso tra opposti estremisti di destra e di sinistra, Pier Giorgio svolse un apostolato non punteggiato da gesti grandiosi o da discorsi altisonanti, ma caratterizzato dalla fermezza con cui difendeva i suoi ideali, la semplicità con cui annullava le differenze sociali, la disponibilità con cui aiutava in tutto gli amici. Queste virtù erano unite a un temperamento allegro ed espansivo, niente affatto bigotto. Per lui lo studio era "il dovere del suo stato" e il mezzo per entrare con competenza nel mondo del lavoro e bastare a se stesso. Lo portò infatti a un passo dalla laurea.
Oltre che studioso delle scienze esatte, il Frassati si appassionò anche di arte, di teatro, di musica classica operistica. Della Divina Commedia ricordava a memoria molte terzine che declamava nei luoghi più disparati, persino sui rami degli alberi. Avvertiva fortissima l\’esigenza di conoscere sempre meglio la religione che professava. Aveva persino progettato, appena ottenuta la laurea, di iniziare lo studio della Somma Teologica di S. Tommaso d\’Aquino. Leggeva frattanto la Bibbia, le Confessioni di S. Agostino, l\’Imitazione di Cristo, le Vite dei santi, specialmente quella di S. Caterina da Siena di cui farà dono alla sorella quando si mariterà. Dalla lettura del De contemptu mundi di Innocenzo III mutuò l\’assoluta indifferenza per le ricchezze e uno sviscerato amore per i poveri, i malati, i sofferenti. Approfondiva inoltre le motivazioni del suo impegno sociale, studiando la Rerum Novarum di Leone XIII, il pensiero del ven. Giuseppe Toniolo (+1918) e le vicende liete e tristi della Storia della Chiesa.
Pier Giorgio in questa maniera cresceva monolitico e granitico, incapace di dire la minima bugia o di compiere la minima ingiustizia. Come era pronto a portare la pace tra i suo compagni, umile nel chiedere scusa a chi avesse involontariamente offeso, così era alieno dal serbare rancore per chicchessia e dal dire male del prossimo. Pur essendo profondamente religioso non era ne insistente, ne invadente, e rispettava il comportamento degli altri. Era fervido e vivace nelle discussioni, tanto nel suo circolo quanto nel Politecnico. Nei contrasti con gli avversari, però, non scendeva a escandescenze o a particolarismi, anzi perdonava generosamente chi lo insultava a motivo dei suoi principi religiosi.
La famiglia Frassati non si trasferì stabilmente a Berlino con la nomina di Alfredo ad ambasciatore (1921). Di conseguenza i soggiorni di Pier Giorgio in terra tedesca furono saltuari, a causa degli impegni di studio in Italia. Egli ne approfittò per visitare con cura i musei, le opere più insigni e le miniere delle regioni e città per cui transitava. Per non lasciarsi sfuggire spettacoli teatrali, conferenze, manifestazioni artistiche evitò accuratamente la vita mondana dell\’ambasciata. A Berlino partecipò pienamente alla vita e allo spirito di Pax Romana, una organizzazione nata nel 1921 a Friburgo (Svizzera) allo scopo di promuovere un coordinamento reciproco fra i diversi circoli universitari cattolici e di affermare i principi di una pacifica convivenza internazionale fondata sul cristianesimo. Molto incisivo fu l\’influsso che esercitò su di lui Don Carlo Sonnenschein (+1929), una delle figure di primo piano nel campo delle attività sociali e delle organizzazioni cattoliche tedesche. Da lui fu invitato specialmente alle riunioni dei circoli misti, composti da universitari e operai, che aveva istituiti allo scopo di promuovere l\’azione dei cattolici per la rinascita sociale e morale del paese.
Nel 1921 Pier Giorgio partecipò, con una delegazione tedesca, al decimo congresso nazionale della FUCI, che si tenne a Ravenna, in coincidenza con il sesto centenario della morte di Dante Alighieri. Vi avanzò la proposta che fosse fusa con la Gioventù Cattolica Italiana, per amore di unità d\’intenti e di azione, in base al risultato della sua esperienza in Germania, ma fu respinta dall\’Assistente Ecclesiastico, Mons. Giandomenico Pini (+1930). Il beato continuò a farne parte, ma nello stesso tempo aderì alla G.C.I. fondando alla Crocetta, nonostante l\’opposizione del viceparroco, Don Formica, il circolo "Milites Mariae". In qualità di delegato degli studenti, vi costituì una scuola di religione e vi formò una compagnia filodrammatica.
Al termine del Congresso della FUCI a Ravenna, Pier Giorgio si recò a Roma per il cinquantenario della fondazione della G.C.I.. Il 4-9-1921 il governo vietò la celebrazione della Messa e il corteo dei 30.000 giovani dal Colosseo al Vaticano. La Messa fu celebrata sul sagrato di San Pietro da Mons. Pini e l\’udienza fu concessa da Benedetto XV nei Giardini Vaticani. All\’uscita, parte dei giovani decise di andare a rendere omaggio al Milite Ignoto, all\’altare della Patria, ma davanti alla chiesa del Gesù furono caricati dalla cavalleria della guardia regia che aveva ricevuto l\’ordine di sequestrare le bandiere. L\’alfiere del circolo di Pier Giorgio, nel parapiglia, rimase con la sola asta del tricolore spezzata in mano. Prima di lasciarsi confinare col suo gruppo nel vicino cortile di palazzo Altieri, Frassati riuscì ad afferrare il drappo calpestato e a farlo sventolare agli occhi dei compagni eccitati. A un tenente che permetteva a una guardia di minacciare con la baionetta un sardo, perché non voleva cedere la bandiera, urlò in faccia il nome di suo padre ambasciatore.
L\’ufficiale gli propose all\’istante di andarsene, ma egli rifiutò di lasciare, da solo, il cortile. Preferì inginocchiarsi per terra, sollevare in alto la corona del rosario e invitare tutti a recitarlo per coloro che li avevano malmenati.
Il beato, che non amava rimanere rinchiuso nelle congregazioni stabilite per età e professione, che desiderava ardentemente portare i valori evangelici anche agli agnostici e agli indifferenti, frequentò pure ambienti non studenteschi, come il circolo "Savonarola" composto soltanto da operai della FIAT, il circolo "Bianchetta", formato da reduci scontenti, e l\’Unione del Lavoro, per sostenere dibattiti e contraddittori in favore del sindacalismo cristiano. Intuiva che certi atteggiamenti di tipo caritativo non erano più adeguati allo spirito del tempo. Se si voleva arginare il socialismo arrogante e invadente, occorreva imboccare la strada dell\’orientamento democratico.
Tuttavia era più facile incontrare il Frassati in tutte le manifestazioni religiose di una certa importanza, per esempio nelle processioni del Corpus Domini, di Maria Ausiliatrice e della Consolata, del cui ordinato svolgimento si occupava insieme al B. Filippo Rinaldi (+1931), Rettore Maggiore dei Salesiani, e del B. Giuseppe Allamano (+1926), fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata. Il 29-8-1920 festeggiò con tanta fede e molto entusiasmo la quarta incoronazione della Madonna nera di Oropa. Quando trascorreva a Pollone le vacanze, si recava sovente al santuario per confessarsi e fare la comunione, ordinariamente a piedi, con la corona del rosario in mano, talora anche con il cavallo di suo padre. Nel dicembre del 1920 divenne socio della sezione "Giovani Adoratori Notturni universitari" e della sezione "Giovani Operai" i quali si radunavano regolarmente nella chiesa di Santa Maria di Piazza, officiata dai padri del SS. Sacramento. Il 28-5-1922 entrò nel Terz\’Ordine Domenicano con il nome di Fra Girolamo. Del Savonarola ammirava la radicalità evangelica nella lotta al malcostume. Da quel giorno non tralasciò più la recita quotidiana del rosario e del Piccolo Ufficio della B. V. Maria, che portava sempre con sé e leggeva con tanta devozione e raccoglimento anche in treno o in tram. La mamma attestò che diverse volte trovò il figlio inginocchiato per terra nella sua camera, con la testa appoggiata al letto, addormentato con la corona del rosario in mano. Il 29-7-1923, alla benedizione della bandiera del circolo giovanile cattolico di Pollone in qualità di padrino, il beato commentò a lungo e con ardore il motto proprio dell\’Associazione: "Preghiera, Azione e Sacrificio". Il 9 settembre dello stesso anno fu felice di prendere parte al Congresso Eucaristico Nazionale che si tenne a Genova; il 24-5-1924 di fare parte del picchetto d\’onore all\’entrata in Torino di Mons. Giuseppe Gamba, già vescovo di Novara; e il 20-6-1925 di presenziare alla traslazione delle reliquie del B. Giuseppe Cafasso alla Consolata.
La coscienza di cattolico integrale che andava in lui progressivamente formandosi, portò Pier Giorgio a iscriversi, nel 1920, al Partito Popolare Italiano, fondato a Roma nel 1919 dal siciliano Don Luigi Sturzo (+1959) e a divenirne un convinto militante, anche quando, dopo il congresso nazionale di Torino (1923), i ministri popolari furono costretti da Benito Mussolini (+1945), succeduto a Luigi Facta, in seguito alla marcia su Roma, a dimettersi. Nell\’ottobre di quell\’anno il Duce compì una visita a Torino. In quell\’occasione il circolo "Cesare Balbo" espose la bandiera.
Il Frassati, appena giunse in sede, la rimosse con sdegno. Tante volte l\’aveva portata nei cortei religiosi. Non voleva, perciò, che fosse esposta a rendere omaggio al fondatore del fascismo che riteneva un movimento sostanzialmente incompatibile con il cristianesimo. I suoi contemporanei, Pietro Gobetti, (+1926), liberale, e Antonio Gramsci (+1937), comunista, lo combattevano per motivi politici diversi. E quando Il Momento da sostenitore del partito popolare, diventò, per convenienza, filofascista, cessò di propagandarlo. In precedenza lo aveva sempre diffuso con tale dedizione, anche alla porta della sua parrocchia, da meritare dal padre l\’ammonimento: "Vuoi dire che quando avrai fame, andrai a mangiare al Momento".
Il fascismo, che si era proposto di riportare l\’ordine in Italia con l\’olio di ricino e il manganello, andò sempre più consolidandosi con la collaborazione dei grandi industriali e dell\’alto clero, e le opposizioni, rese sterili dalle divisioni e dalla inutile protesta dell\’Aventino dopo l\’assassinio dell\’On. Giacomo Matteotti (+1924), socialista, furono ridotte al silenzio. Era così finita anche per il Frassati la stagione dell\’impegno politico più diretto. Limiterà fino alla morte la propria azione concentrata ad attività religiose e caritative.
Pier Giorgio del suo circolo era diventato l\’anima anche se non ricopriva cariche. Era persuaso di non avere le doti necessario per fare da direttore. Nelle associazioni alle quali apparteneva preferiva svolgere i lavori meno appariscenti come scopare i locali, recapitare lettere a mano o attaccare manifesti. Luciana attestò del fratello: "era l\’umiltà personificata, non un vanitoso, un eccentrico o un contestatore". Don Cesare Boria testimoniò: "II suo portamento esterno era fatto di serietà e gravita. Non era ricercato nel vestire. Soltanto quando si recava in chiesa si vestiva in modo più elegante". Antonio Severi dichiarò del beato: "Tutti sentivamo che egli era il migliore… fece sistematicamente bene ogni cosa della sua vita, anche la più piccola… cercò sempre e senza ostentazione, di nascondere e di non dare grande importanza a quanto faceva di bene\’".
Secondo Franz Massetti, altro compagno di studi, "Pier Giorgio aveva pochissima fiducia in se stesso… Negli altri vedeva la bontà mentre in sé notava la cattiveria. Non si riteneva degno di nessuna considerazione. E tutto questo manifestava apertamente agli altri e con gli scritti e con le parole. Si dichiarava peccatore e si raccomandava alle preghiere degli amici, perché il Signore lo perdonasse e lo aiutasse".
Pier Giorgio prediligeva il suo circolo, perché in esso poteva approfondire la fede con i corsi annuali di religione e gli esercizi spirituali, che si svolgevano nella settimana santa, presso Villa Santa Croce a S. Mauro Torinese dei Padri Gesuiti, al termine dei quali rinnovava il proponimento "di evitare anche le piccole viltà quotidiane". Egli edificava tutti con la partecipazione alla celebrazione di Messe e di solennità religiose, alle assemblee dei soci, alle loro gite, alle lotterie e ai concerti organizzati per rimpinguare le sempre scarse finanze delle associazioni. Tutta la sua vita non fu che una ininterrotta pratica di fede, che sapeva coniugare con la semplicità, la serenità, l\’espansività che nutriva per i poveri, cosicché da tutti era ritenuto un giovane "simpaticissimo, chiassoso e burlone".
Aveva quattro idee chiare in testa su cui non transigeva e da cui traeva le più logiche conseguenze. Tuttavia, secondo un altro grande amico del Frassati, Marco Beltramo, "sapeva moderare e dominare la propria naturale cocciutaggine, accettando e rimettendosi ai consigli di bene che potevano venirgli da altri".
Specialmente d\’inverno, organizzava gite ed escursioni in montagna allo scopo di tenere lontani gli amici dal carnevale e da feste mondane, di avvicinarli a Dio per mezzo della bellezze della natura, di farli pregare dopo la conquista di qualche vetta o nella quiete del loro rifugio. Vi prendevano parte giovani del circolo "Cesare Balbo" e ragazze del circolo "Gaetana Agnesi".
Le madri lasciavano andare volentieri in gita le loro figlie quando sapevano che vi prendeva parte Pier Giorgio, perché sapevano che trattava le signorine con serietà e disinvoltura come se fossero sue sorelle. I suoi compagni di fede lo ammiravano per l\’illibatezza dei costumi, i giovani mondani, invece, lo schernivano perché lo consideravano "un anormale".
Nel febbraio del 1923, mentre il beato trascorreva il carnevale al Piccolo San Bernardo con i soliti amici, sentì nascere prepotente in sé un ardente amore per una compagna delle gite, Laura Hidalgo, di tre anni più anziana di lui. Per delicatezza non si dichiarò. Ne parlò alla sorella la quale capì subito che il loro ambiente familiare non era preparato a riceverla. Don Coiazzi lo convinse a rinunciarvi, anche perché i dissensi tra il padre e la madre erano sul punto di sfociare nella separazione. Pier Giorgio stesso, con la tempesta nell\’anima, si interrogava: "Perché creare una famiglia per distruggerne un\’altra?". Luciana il 24-1-1925 si sarebbe unita in matrimonio con Jan Gawronski, primo segretario della legazione polacca all\’Aya (Olanda). Pier Giorgio forse sperava che la sua presenza in casa sarebbe riuscita a tenere uniti per tutta la vita i genitori.
All\’interno del circolo nel Frassati nacque l\’idea di una unione più stretta tra i suoi intimi amici e amiche. L\’idea prese forma nella primavera del 1924 quando, durante una gita al Pian della Mussa, nella Val di Lanzo, fu fondata la Società dei Tipi Loschi, il cui motto era: "Pochi, ma buoni come i maccheroni". Scopo principale dell\’unione era quello di servire il Signore e vivere affratellati. Quante volte il beato scrisse: "Noi Tipi Loschi ci disperderemo, ma non potremo mai separarci, uniti come siamo dal vincolo della fede".
L\’aspetto più edificante della vita di Pier Giorgio è tuttavia quello dell\’esercizio della carità verso i poveri. Invitava i nuovi compagni del circolo a iscriversi alla Conferenza di S. Vincenzo, asserendo che "per lui, la più bella scuola era la pratica della visita ai poveri". Raggiungeva i suoi assistiti una volta la settimana, subito dopo pranzo, con un borsone pieno di ogni ben di Dio. Anche quando, per doveri di scuola, doveva tralasciare tutte le altre attività, quella della Conferenza di S. Vincenzo non la trascurava mai. Gli dava grande gioia la pratica di "visitare un povero dopo aver ricevuto la comunione, per restituire a Gesù Cristo la visita che gli aveva fatto". A chi lo accompagnava diceva: "Intorno all\’infermo, al miserabile, al disgraziato, io vedo una luce particolare, una luce che non abbiamo noi".
Per aiutare gli infelici talora si accollava personalmente pacchi voluminosi contenenti cibi, medicinali e indumenti, e li offriva loro "con una spontaneità e giocondità tali da rendere particolarmente accetto il dono".
Valendosi delle larghe conoscenze che aveva, si adoperava per fare ricoverare vecchi e malati al Cottolengo o per fare collocare i figli di famiglie disunite presso i salesiani, per fare riscattare i loro pegni o traslocare le loro masserizie. A chi era capace di lavoro procurava occupazione o impieghi. Un miserabile, un giorno, gli manifestò il desiderio di avere un carretto, per gelateria ambulante. Il beato glielo provvide e poi glielo portò personalmente. Dai genitori ricevette soltanto delle piccole somme da mettere a disposizione dei bisognosi. Soltanto quando compì i suoi 24 anni, nel ritiro dei Gesuiti di San Mauro, il padre gli fece dono di 5.000 lire. Egli, anziché servirsene, le destinò immediatamente all\’acquisto del mobilio di cui il circolo Milites Mariae aveva bisogno. In casa alle volte appariva melanconico perché, sprovvisto di denaro, non sapeva come fare a soccorrere i poveri e a restituire agli amici i piccoli prestiti temporanei che da loro aveva ottenuto. Il padre, che aveva soggezione del figlio, capiva a volo. Metteva allora mano al portafogli, ne estraeva discrete somme di banconote e gliele consegnava dicendo: "Tanto so che le dai ai poveri".
Pier Giorgio molto si industriò perché parte delle offerte che giungevano all\’amministrazione di La Stampa, o che venivano raccolte in occasione della Befana dei giornalisti, fossero destinate ai poveri assistiti dalla sua Conferenza. Più volte fu udito dire a chi lo invitava a prendere un vermout e a servirsi del tram per uno spostamento più rapido: "Perché sprecare questi denari di cui la S. Vincenzo ha tanto bisogno?". Quando la Conferenza organizzava l\’annuale concerto di beneficenza, il figlio dell\’ambasciatore a Berlino ne andava a vendere i biglietti e a raccogliere offerte, senza arrossire dei rifiuti che sovente riceveva. Quando i poveri, da lui soccorsi, si dichiaravano spiacenti di non poter far niente per lui, diceva loro: "Voi potete fare molto, potete pregare per me". E non lasciava i loro tuguri senza averli esortati a frequentare la Messa nei giorni festivi, a fare la Pasqua, a regolarizzare il matrimonio e a educare cristianamente i figli.
A base della sua operosa esistenza, Pier Giorgio aveva posto una incrollabile fede in Dio e una costante conformità al suo volere. Il giorno 14-2-1925 scrisse alla sorella Luciana, dalla quale si era separato singhiozzando tanto l\’amava: "Tu mi domandi se sono allegro. E come non potrei esserlo? Ogni cattolico non può non essere allegro". Due settimane dopo scrisse ancora: "Poveri disgraziati quelli che non hanno fede; vivere senza fede, senza un patrimonio da difendere, senza sostenere in una lotta continua la verità non è vivere ma vivacchiare".
Secondo Don Boria, Pier Giorgio pensava sovente alla morte e ne parlava allegramente con gli amici. Secondo Don Coiazzi sul suo labbro ogni tanto risuonava la frase: "II più bei giorno della mia vita sarà quello della mia morte". Verso la fine del mese di giugno 1925 il beato cominciò ad avvertire stanchezza, inappetenza, emicrania. Non è improbabile che abbia contratto la poliomielite fulminante infettiva, che lo porterà in pochi giorni alla tomba, nel frequentare le stamberghe dei poveri.
Quando i familiari se ne accorsero era troppo tardi. La medicina non aveva rimedi. Don Formica, dalla Crocetta, accorse a confessarlo e ad amministrargli gli ultimi sacramenti. Il Card. Gamba andò in casa Frassati per confortare il morente, ma i genitori, cocciutamente, non gli permisero di avvicinarlo. Prima di entrare in agonia Pier Giorgio con voce affannata sospirò: "Mi perdonerà Iddio, mi perdonerà il Signore?" e poi Signore, perdonami!".
Il 4-7-1925 quando Pier Giorgio morì, la cameriera Ester Pignatta, che il defunto aveva ricondotto alla fede, scrisse sul calendario di cucina: "Ore diciannove, irreparabile sventura. Povero San Pier Giorgio. Era santo e Dio l\’ha voluto con sé". E l\’On. Spartaco Fazzari annotò sulla sua agenda: "È morto l\’uomo più buono del mondo". A lui fece eco Filippo Turati (+1932), socialista: "Ciò che si legge di lui è così nuovo ed insolito, che riempie di riverente stupore anche chi non divideva la sua fede.
Credente in Dio, professava la sua fede con aperta manifestazione di culto, concependola come sua milizia, come una divisa che si indossa in faccia al mondo, senza mutarla mai con l\’abito consueto, per comodità, per opportunismo, per rispetto umano".
La notizia della morte del santo giovane apparve su La Stampa con la sua fotografia. Fu una scoperta emozionante per i poveri che lo stimavano e amavano senza conoscerne il nome. A centinaia presero parte ai suoi funerali. La bara, spoglia di drappi e di fiori, portata a spalla da otto compagni di studio, quando uscì di casa fu accolta dalla gente con venerazione. Molti dei presenti caddero in ginocchio. Tra essi fu visto piangere anche Giovanni Amendola (+1926), liberale antifascista, padre di Giorgio, comunista. Per il padre, senatore Alfredo, la dipartita del figlio segnò l\’inizio di un cammino che lo porterà alla fede. Quando seppe che il suo Pier Giorgio, ancora in vita, aveva manifestato il desiderio di fare edificare al Cottolengo un padiglione per i malati, se ne avesse avuti i mezzi, nel 1928 volle che il desiderio di lui fosse attuato.
Dopo i funerali celebrati nella parrocchia della Crocetta da Mons. Alessandro Roccati, la salma fu traslata al cimitero di Pollone dove da pochi giorni era stata seppellita la nonna, Linda Ametis. A poco a poco, in tutta Italia sorsero 1500 circoli e associazioni intitolate al suo nome. Giovanni Paolo II del giovane torinese, che aveva visto e sentito Dio nel prossimo, riconobbe l\’eroicità delle virtù il 23-10-1987 e lo beatificò il 20-5-1990. Le sue reliquie dal 16-9-1990 sono venerate nel duomo di Torino.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 7, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 33-45
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