Nel 1681 il beato fu mandato nel convento di S. Francesco da Paola ai Monti, in Roma, perché aiutasse il parroco nell’assistenza religiosa al popoloso quartiere e facesse da portinaio. Ebbe così modo di venire a contatto di tanti poveri, di dire loro una buona parola e di soccorrerli nelle loro necessità con l’aiuto di benefattori. Quando non riusciva a soddisfare le loro necessità, i bisognosi lo insultavano con le parole più volgari, ma egli le sopportava con pazienza, in silenzio, in riparazione dei propri peccati. I parrocchiani e i devoti di S. Francesco da Paola, però, si avvidero presto di quante virtù fosse adorno l’umile oblato, basso di statura, ossuto, macilento, ma forte e agile nelle fatiche. Tutti lo ricercavano per confidargli le loro pene e raccomandarsi alle sue preghiere.
Questo Fratello Oblato, professo dell’Ordine dei Minimi, nacque a Longobardi (Cosenza), il 6-1-1650, primo dei tre figli che Fulvio Saggio e Aurelia Pizzini, contadini poveri di beni, ma ricchi di virtù, diedero alla luce. Al fonte battesimale gli furono posti i nomi di Giovanni Battista e Clemente. Crescendo negli anni, invece di frequentare la scuola, egli imparò a maneggiare la zappa e la falce in compagnia del padre. Anche se soltanto a diciotto anni poté ricevere la cresima dal vescovo di Tropea (Catanzaro), Mons. Luigi de Morales, dai genitori e dal parroco aveva imparato a frequentare la chiesa tutti i giorni di buon mattino, ad accostarsi con frequenza ai sacramenti e a fare delle volontarie mortificazioni oltre quelle imposte dalla tristezza dei tempi e dalle misere condizioni familiari. Il venerdì e il sabato digiunava a pane ed acqua per dare ai più poveri di lui quello che risparmiava.
A contatto dei Frati Minimi che a Longobardi avevano un convento, il beato si sentì chiamato a lasciare il mondo e a tendere alla perfezione nella pratica dei consigli evangelici come aveva fatto fin dalla gioventù il suo grande conterraneo e taumaturgo, Francesco da Paola (+1507). I genitori, che facevano affidamento sulle sue forze, gli dissero che per servire il Signore non era necessario chiudersi in un convento, ma che bastava essere buoni dove ci si trovava. Il figlio, per piegare la loro volontà, andò al convento dei Minimi, si fece dare un abito, lo indossò e poi si presentò alla madre sperando di metterla così dinanzi al fatto compiuto, ma ella, indignata, gli ingiunse di deporre immediatamente quel saio e di non frequentare più il convento dei Minimi. Il beato a malincuore obbedì, ma mentre si spogliava dell’abito religioso perse ad un tratto la vista. Non la riacquistò se non quando i genitori, pentiti della loro ostinazione, non gli permisero di seguire la propria vocazione.
Il giovane santo chiese di essere ammesso nell’Ordine dei Minimi al P. Isidoro Verardo da Fuscaldo, provinciale per la Calabria inferiore, il quale lo autorizzò a recarsi al santuario di Paola, a rivestirvi l’abito in qualità di fratello oblato con il nome di Fra Nicola e iniziarvi il noviziato.
Essendo ormai deciso di darsi a Dio con tutte le forze, divenne ben presto modello di osservanza religiosa a tutti, superiori a sudditi, chierici professi e novizi. Al termine della prova fu quindi ammesso senza difficoltà alla professione dei tre voti comuni a tutti i religiosi, e di quello speciale dei Minimi riguardante la perpetua interdizione dell’uso della carne, delle uova e dei latticini. Come oblato ve ne aggiunse un quinto: quello di fedeltà all’Ordine, consistente nel consegnare integralmente all’economo le elemosine che avrebbe ricevuto in dono.
Fra Nicola iniziò la sua vita di oblato proprio a Longobardi. Per due anni, e cioè dal 1670 al 1671, si comportò in chiesa, in cucina e nell’orto da vero uomo di Dio. In seguito, docile alla volontà dei superiori, si occupò dei lavori più umili nel convento di S. Marco Argentano, di Montalto Uffugo, di Cosenza, di Spezzano della Sila e infine di Paterno Calabro con il gradimento di superiori, confratelli e fedeli. Il P. Provinciale, P. Carlo Santoro, lo richiamò a Paola perché gli facesse da compagno nelle “visite” ai conventi. Si sentì perciò maggiormente impegnato nella fedele osservanza delle regole e nella sollecita obbedienza ai superiori.
Nel 1681 il beato fu mandato nel convento di S. Francesco da Paola ai Monti, in Roma, perché aiutasse il parroco nell’assistenza religiosa al popoloso quartiere e facesse da portinaio. Ebbe così modo di venire a contatto di tanti poveri, di dire loro una buona parola e di soccorrerli nelle loro necessità con l’aiuto di benefattori. Quando non riusciva a soddisfare le loro necessità, i bisognosi lo insultavano con le parole più volgari, ma egli le sopportava con pazienza, in silenzio, in riparazione dei propri peccati. I parrocchiani e i devoti di S. Francesco da Paola, però, si avvidero presto di quante virtù fosse adorno l’umile oblato, basso di statura, ossuto, macilento, ma forte e agile nelle fatiche. Tutti lo ricercavano per confidargli le loro pene e raccomandarsi alle sue preghiere. Tra gli altri spiccavano il Card. Mellini e il principe Don Antonio Colonna. Ma quando i suoi ammiratori, incontrandolo per strada, si profondevano in attestati di stima verso di lui, egli protestava di essere il più miserabile degli uomini, e si considerava indegno di portare l’abito dei Minimi essendo “il più grande peccatore”.
I superiori, temendo che la virtù di Fra Nicola corresse pericoli, decisero di sottrarlo a tanti onori rimandandolo, dopo dodici anni di permanenza nella Città Eterna, nel protocenobio dei Minimi. Quando giunse a Napoli, la contessa di S. Stefano, vice-regina, avrebbe voluto trattenerlo, me le fu comunicato che l’umile oblato doveva raggiungere il santuario di Paola per volere del papa Innocenzo XII (+1700). Nel convento gli fu assegnato il compito di aiutante del sacrista. Il beato ne approfittò non soltanto per tenere in ordine i paramenti, pulita la chiesa, ben sistemati gli altari, ma soprattutto per moltiplicare le sue adorazioni davanti al SS. Sacramento. In quel tempo non gli mancarono umiliazioni e pubblici rimbrotti da parte del Provinciale che lo considerava un buono a nulla, indegno dell’ufficio di sacrestano, capace soltanto di pulire gli zoccoli dei cavalli, ma egli sopportò la prova con grande dignità meditando la Passione del Signore. Quando era vilipeso e ingiuriato, anziché rattristarsene, diceva: “Merito tutto per i miei peccati perché sono peggiore di un cane morto per avere offeso Dio”.
Nel 1695 Fra Nicola fu trasferito prima a Fiumefreddo Bruzio, poi a Cosenza e finalmente a Longobardi, dove lavorò con i muratori intenti nell’ampliamento della chiesa. Per ottenere aiuti in denari, in natura e in mano d’opera visitò le famiglie delle campagne circostanti. Molti gli prestarono volentieri la loro collaborazione tanto che, dopo due anni, la costruzione della chiesa si poteva dire compiuta.
Nel 1697 Fra Nicola fu rimandato a Roma a fare da portinaio nel convento-parrocchia di S. Francesco da Paola ai Monti con grande esultanza dei poveri i quali ben sapevano di costituire il principale oggetto delle sue premure. Accorrevano al convento a tutte le ore per raccomandarsi alle sue preghiere, chiedere un consiglio, ricevere un aiuto. I più assidui erano un centinaio. Per essi di buon mattino preparava la minestra che avrebbe distribuito loro a mezzogiorno dopo una preghiera fatta in comune. Per trovarsi a tempo con loro una volta rinunciò all’udienza di Clemente XI (+1721) al Quirinale, e un’altra volta a un invito dei Colonna-Pamphili dicendo: “I poveri di Gesù Cristo mi aspettano a quest’ora, dai signori potrò recarmi in altro tempo”. Nella propria cella custodiva in due cassette i piatti e vari alimenti per i poveri di riguardo. Con le offerte che riceveva dai benefattori o che andava questuando, procurava vesti alle vedove, doti alle ragazze da marito, aiuti agli studenti poveri e alle famiglie cadute in miseria.
Nella sua vita Fra Nicola svolse sempre i compiti più faticosi e più umili nei vari conventi in cui visse. In quello di Roma, secondo le necessità, fu sacrestano, portinaio, giardiniere, ortolano, refettoriere, infermiere e compagno del parroco nelle visite alle famiglie della parrocchia. Un suo confratello, il P. Paolo Stabile, dichiarò: “Mi stupiva vederlo impegnato in tanti uffici che richiedevano più persone, e come potesse provvedere a tutto con esattezza”. Nessuno lo vide mai starsene in ozio o fare visite e discorsi inutili. Si recava nelle famiglie quando c’erano malati da assistere o questue da fare per la celebrazione delle Quarantore e la riparazione della chiesa. Con le offerte dei benefattori, specialmente di Donna Olimpia Pamphili, consorte del principe Don Filippo Colonna, i quali lo vollero padrino al battesimo dell’erede, nella cappella dedicata al santo fondatore fece eseguire decorazioni e dorature artistiche, e dispose che fosse adornato l’altare di un paliotto d’argento.
Benché la sua giornata fosse ripiena di mille gravose occupazioni Fra Nicola non rifuggì dalla pratica della penitenza. Nella propria cella conservava in una cassetta di legno le discipline di cui faceva sovente uso specialmente nel campanile, quando vi si recava per regolare il grande orologio a pesi. Per vincere le violenti tentazioni alle quali andava soggetto portava anche cilici e catenelle, e dormiva pochissimo di notte per terra o su due tavole, facendo uso come guanciale di un pezzo di legno. In questo modo riuscì a conservare illibata l’innocenza battesimale secondo le testimonianze dei suoi direttori di spirito, e a ridare a confratelli sfiduciati o tribolati la serenità dello spirito. Benché non avesse frequentato le scuole possedeva una così sorprendente intelligenza delle verità della fede da destare meraviglia anche nei più provetti professori di teologia, e da spingere cardinali, prelati, sacerdoti e semplici fedeli a fare ricorso al suo consiglio. A chi gli proponeva dubbi su verità difficili da comprendere come quella della predestinazione rispondeva: “Bisogna semplicemente credere e fermamente operare”.
Un giorno il P. Tommaso da Spoleto, dei Frati Minori Riformati e suo amico, chiese a Fra Nicola: “Come fai a resistere senza mangiare, bere e dormire per molto tempo?” Con la sua solita semplicità il beato gli rispose: “E tanto l’amore che sento verso Dio che non penso ad altro che a lui. Non ho altro desiderio che piacere a lui. E posso aggiungere che e tale il fervido amore che provo nel mio cuore che, per spegnere questo ardore, mi getterei in un fiume”. In altra occasione il medesimo Padre gli chiese: “Fra Nicola, ami molto Dio?” Il beato, molto emozionato, gli rispose: “Il mio Spirito langue e si liquefa perché non lo amo come dovrei amarlo e come desidero, cioè come gli angeli lo amano in cielo… Per questo mi sono legato all’Istituto religioso al quale appartengo”. E ne osservò sempre la regola con tanta perfezione che, chi lo conobbe, lo ritenne degno della canonizzazione benché ancora vivente.
Di giorno e di notte Fra Nicola trascorreva molte ore in preghiera. Più volte i confratelli lo trovarono in estasi in coro e in cella. Al Card. Colloredo che un giorno gli chiese quale profitto ricavava dalle sue molte preghiere, rispose: “Non altro che la conoscenza delle mie miserie e del mio nulla”. Alle volte non riusciva a contenere l’impeto del suo amore, e allora esplodeva in gioiosi canti di lode e di ringraziamento a Dio oppure sospirava: “Signore, il mio cuore brucia per te. Non ne posso più… Muoio, muoio di amore!”. Il P. Giovanni Battista Picardi più volte lo vide andare in estasi all’udire soltanto ragionare dei misteri della fede, o al vedere un confratello sollevare le tre dita della mano. Il gesto era sufficiente per richiamargli alla mente la SS. Trinità.
Quando Fra Nicola era in estasi e godeva di celesti visioni, l’unico mezzo efficace per richiamarlo in sé era l’ordine dategli anche solo mentalmente per obbedienza. Un giorno andò in estasi mentre i confratelli in coro cantavano il Te Deum. Poiché aveva cominciato a sospirare così forte da perturbare i salmodianti, il superiore fece tornare la calma dicendo soltanto: “Fra Nicola… per obbedienza”. Il beato abbassò subito le braccia che teneva sollevate in alto, volse la testa verso di lui e sommessamente esclamò: “Deo gratias!”
A chi lo sorprendeva in estasi il beato diceva confuso: “Per carità, non sopravvalutatemi; sono semplicemente un indegno… Non capisco come il cielo mi soffra e la terra mi sostenga… Se vedete in me qualche cosa di buono è pura misericordia di Dio… pura misericordia di Dio”. Se, dopo un’estasi, i confratelli o i devoti gli si avvicinavano con ammirazione, egli era solito dichiarare: “Io sono l’infimo tra gli infimi, il minimo tra i Minimi. Sono niente”. A chi gli chiedeva che cosa occorresse fare per amare Dio con tutte le forze, rispondeva: “Occorre essere umili”. E soggiungeva: “Umiliamoci, fratelli. L’anima nostra è come una bilancia: quanto più si piega da una parte, tanto più si innalza dall’altra. Umiliamoci sempre, umiliamoci”. Era tanto convinto di quello che diceva che persino nel camminare assumeva l’atteggiamento di un buono a nulla, Clemente XI, molto preoccupato per le sorti della Chiesa ancora scossa dall’eresia gianseniana, e per quelle dell’Europa, devastata da una sanguinosa guerra combattuta tra Leopoldo I (+1705), imperatore di Germania, e Luigi XIV (+1715), re di Francia, per la successione al trono di Spagna, nel 1709 aveva fatto trasportare l’immagine acheropita del SS. Salvatore conservata nel Sancta Sanctorum Lateranense alla basilica di S. Pietro affinchè tutti i fedeli elevassero a Dio speciali preghiere propiziatorie. Fra Nicola, nonostante le precarie condizioni di salute, due volte al giorno andò a venerarla e a offrirsi vittima alla giustizia di Dio tanto era ansioso di morire per andare in paradiso. Il P. Francesco Zavarroni, in seguito superiore generale dei Minimi, lo udì pregare: “Signore, eccomi, fa’ di me ciò che vuoi. Ti raccomando la tua santa Chiesa. Perdona al tuo popolo”. Il Signore accettò la generosa offerta di lui. Difatti, alcuni giorni dopo, l’umile oblato non ebbe più la forza di alzarsi da letto a causa di una violenta febbre.
Trasferito nell’infermeria, il beato fece a un confratello la sua confessione generale e chiese gli ultimi sacramenti. Perché non si stancasse, un sacerdote lo esortò a fare soltanto atti interni di amore di Dio invece di lunghe preghiere, ma egli gli rispose: “Ah, padre mio, io l’amo con tutto il cuore e vorrei essere una candela accesa per consumarmi come olocausto in onore di Dio”. Tra gli altri accorsero a fargli visita i principi Don Marcantonio Borghese, Don Filippo Colonna, Don Augusto Chigi, il marchese Naro, il duca di Patagonia Don Giuseppe Matteo Orsini e molti nobili. A chi si raccomandava alle sue preghiere diceva: “Io sono un grandissimo peccatore, e ho bisogno che il Signore mi usi misericordia per salvarmi. Se mi farà degno della salute eterna, vi terrò raccomandato al Signore”.
Anche il Card. Mellini accorse al capezzale del tanto venerato oblato per chiedergli la benedizione. Il beato gliela impartì con il cordone dell’abito religioso nel nome della SS. Trinità e di S. Francesco da Paola soltanto in seguito all’esortazione del suo superiore. Il confessore, P. Alberto da Cosenza, temendo che la visita di tante persone di riguardo cagionasse nell’animo del morente tentazioni di vanagloria, si preoccupò di dirgli: “Fra Nicola, questi onori si fanno non a tè, ma all’abito di S. Francesco da Paola”. Fra Nicola gli rispose dolcemente: “Padre mio caro. da circa dodici anni Dio mi ha fatto questa grazia… non c’è stato e non c’è in me altro che Lui. Io ho sempre sperato nella SS. Trinità e in essa spero di terminare questa vita”. Diverse famiglie nobili inviarono al convento i propri medici per un consulto. A chi gli dava buone speranze di guarigione l’infermo rispondeva: “I medici non sanno cosa dicono. Facciano pure ciò che desiderano, ma sappiano che io starò in vita fino a quando avrò lucrato l’indulgenza plenaria della prossima festa della Purificazione della Vergine”. Morì difatti nelle prime ore del 3 febbraio 1709, rivestito dell’abito religioso dopo avere tracciato tre segni di croce sugli astanti con le tre dita della mano destra ed esclamato: “Paradiso! Paradiso!”.
Ai funerali di Fra Nicola ci fu un’affluenza tanto grande di popolo che fu necessario lasciarne esposta la salma per tre giorni. Dal 1718 le sue reliquie sono venerate nella chiesa di S. Francesco da Paola ai Monti. Pio VI lo beatificò il 17-9-1786.
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 2, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 63-70.
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