Il portoghese Michele Carvalho, nato a Braga nel 1577, affascinato dalla spiritualità missionaria della Compagnia di Gesù, divenne gesuita nel 1597 e a 23 anni nel 1602 partì per l’India ed in seguito per il Giappone dove fu arrestato e condotto in prigione ad Omura, dove si trovò in compagnia del domenicano Pietro Vazquez e dei francescani Ludovico Sotelo, Ludovico Sasanda e Ludovico Baba insieme ai quali fu martirizzato il 25 agosto 1624 a Focò presso Scimabara.
Nella prima metà del secolo XVII una furiosa persecuzione imperversò in Giappone durante la quale furono uccisi in odio alla fede migliaia di cristiani. Di 205 di essi fu possibile raccogliere testimonianze storiche, motivo per cui Pio IX li beatificò il 7-5-1867. Nella gloriosa schiera figurano anche i cinque religiosi di vari Ordini che furono bruciati vivi a Scimabara il 25-8-1624.
Principale esponente di essi fu il B. Michele Carvalho, nato a Braga (Portogallo) nel 1577. A vent'anni entrò nella Compagnia di Gesù perché nutriva la speranza di essere mandato ad evangelizzare i giapponesi. Al termine del noviziato partì per Goa (India), dove terminò gli studi, e rimase fino ai quarant'anni, occupato nell'insegnamento della teologia. Il suo desiderio di recarsi in Giappone fu alfine appagato dal P. Francesco Rodriguez, allora visitatore della Cina e del Giappone, ma quando vi giunse (1621) travestito da soldato, il paese era sconvolto dalla persecuzione. Dopo due anni di residenza nell'isola Amakusa per apprendere la lingua ed i metodi di apostolato, non sapendo più contenere la brama del martirio si presentò spontaneamente davanti al governatore dell'isola e gli dichiarò di essere "sacerdote, religioso e predicatore della legge di Dio".
Il governatore pagano, sorpreso e timoroso di complicazioni, trovò il mezzo di salvare il missionario e di non esporre se stesso fingendo di considerarlo pazzo e dando ordine che fosse trasferito fuori dei confini della sua giurisdizione. Due cristiani che lo conoscevano si presero la briga di condurlo a Nagasaki presso il suo Provinciale, il B. Francesco Pacheco (120-6-1626), il quale gli raccomandò la prudenza e gli affidò la direzione di una cristianità nei dintorni della città. Un giorno fu chiamato ad Omura per il ministero della confessione, ma al ritorno fu riconosciuto da una spia e denunciato alla polizia, la quale il 22-7-1623 lo rinchiuse nella prigione in cui attendevano già il martirio un domenicano e tre francescani, di cui due giapponesi.
La prigione di Omura consisteva in una stretta capanna, aperta da ogni lato ed esposta a tutte le intemperie. Ai confessori della fede veniva somministrato un vitto così scarso e malsano che tutti ne risentirono. Il P. Carvalho scrisse difatti ai suoi superiori: "Siamo tutti infermi e deboli di corpo, ma grandemente rinvigoriti e consolati nello spirito perché Dio, che è padre di misericordia, nei maggiori travagli concede più grandi favori e aiuti per sopportarli. Se egli ha stabilito che io muoia in questo carcere divorato dai vermi e coperto d'immondezze, sia fatta la sua volontà: io vi sono preparato". Non ancora pago di tanto patire, il beato continuò a portare sulle carni un aspro cilicio, a digiunare tre giorni la settimana a pane ed acqua, a flagellarsi tutte le notti fino al sangue.
I sentimenti da cui era animato furono da lui espressi in una lettera che scrisse il 10-2-1624 al P. Benedetto Fernandez, suo confratello: "Quanto sarei fortunato se mi trovassi in un gran fuoco, ardendo per amore di un Dio tanto buono! Quanto sarei felice se mi tagliassero le membra in minuti pezzi in onore di quel Signore che mi ha prevenuto con tanti doni, che mi ha seguito e sostenuto sempre, sapendo quanto era grande la mia ingratitudine! O amoroso Gesù, che farà mai questo miserabile peccatore per gradirti? Quali tormenti potrà mai patire per compiacerti? Signore, che vuoi che io faccia? Dammi quello che comandi, e comanda quello che vuoi. Adesso è tempo, Padre mio carissimo, di aiutare questo indegno servo con ferventi preghiere e santi sacrifici, affinchè il Signore mi dia forza in tutto quello che vuole che io patisca per i miei peccati".
Tre mesi prima di lui era stato incarcerato a Omura il B. Pietro Vasquez. Egli era nato a Berin, nella Galizia, e si era fatto domenicano a Madrid. Per il grande desiderio che aveva manifestato di convertire anime a Cristo, dai superiori era stato mandato prima a Manila e poi in Giappone. Fu arrestato il 18-4-1623 mentre nascondeva il corpo del B. Luigi Florez (+19-8-1622), suo confratello.
Nella prigione di Omura si trovava pure rinchiuso il B. Luigi Sotelo, nato a Siviglia (Spagna) il 6-9-1574 da nobili genitori. Mentre stava studiando all'università di Salamanca, entrò tra i Francescani osservanti del locale convento del Calvario, in cui fece la professione religiosa (1594). Desiderando dedicarsi alla conversione degl'infedeli, ottenne di essere inviato nelle Isole Filippine (1600), dove gli fu affidata la cura dei cristiani giapponesi residenti a Dilao. Nel 1603 fu trasferito alle missioni giapponesi. Per i suoi talenti fu subito preso tanto a benvolere dal luogotenente imperiale Ieyasu che, per dieci anni, fu l'arbitro di tutte le più importanti questioni sorte tra il Giappone e la Spagna.
Nel 1613 il beato fu fatto arrestare dal nuovo luogotenente Hidetada, istigato dagli olandesi che brigavano per soppiantare gli spagnuoli nelle relazioni commerciali con il Giappone. Fu rinchiuso nella prigione di Yedo, la capitale, e condannato a morte, ma per interessamento del signore feudale di Matsu, Date Masamune, che era stato da lui catechizzato, fu graziato e inviato alle corti di Spagna e di Roma con l'ambasciatore giapponese e una comitiva di centocinquanta persone. P. Sotelo aveva preso con sé il B. Ludovico Sosanda, giapponese, figlio di Michele, ucciso a Yedo in odio alla fede e suo discepolo prediletto fin dal 1603 per la santità di vita e l'eccezionale pietà, ed il B. Luigi Baba, pure lui giapponese, figlio di genitori cattolici e suo catechista prediletto. Costoro poterono visitare la Spagna e poi l'Italia e, nel ritorno, il Messico e le Isole Filippine. A Roma la visita al papa Paolo V (+1621) e ai monumenti cristiani li confermarono nei buoni propositi di prodigarsi sempre più al servizio della Chiesa. In Spagna Ludovico fu accolto (1613) nell'Ordine dei Frati Minori e a Manila fu ordinato sacerdote.
Il P. Sotelo quando giunse nelle Filippine visse ritirato dal 1618 al 1622 nel convento di San Giovanni del Monte, che sorgeva nei pressi di Manila.
In Giappone infuriava frattanto la persecuzione scatenata nel 1614 dall'imperatore Tokugawa Ieyasu (+1616) in seguito alle insinuazioni dei protestanti olandesi e inglesi, che gli prospettarono un'invasione del regno da parte della Spagna, e le ire dei bonzi, che gli minacciarono i più severi castighi da parte degli dèi nazionali qualora avesse tollerato in Giappone i missionari cattolici. Ciò nonostante l'intraprendente missionario approfittò della prima occasione che gli si offerse per farvi ritorno con i suoi due discepoli. I marinai della nave giapponese su cui erano saliti, temendo di essere incriminati perché trasportavano sacerdoti cattolici in opposizione alle leggi in vigore, li denunciarono alle autorità di Nagasaki. Queste li arrestarono e li inviarono al carcere di Omura (1622), dove Luigi Babà vide esaudito il suo ardente desiderio di essere ammesso nel Terz'Ordine Francescano e di vestirne l'abito.
Per circa due anni i cinque religiosi, rinchiusi nella stretta e fetida prigione di Omura, attesero il martirio patendo il freddo e la fame. Più volte furono sottoposti a forti pressioni perché apostatassero ma nonostante le lusinghiere promesse, rimasero saldi nella fede. Il 24-8-1624 venne loro comunicato da due commissari del governo di Nagasaki che l'imperatore li condannava ad essere bruciati a fuoco lento. Il mattino seguente i prigionieri furono trasferiti in barca, con un capestro al collo, a Foco, presso Scimabara, dove erano già stati preparati cinque pali in mezzo a una catasta di legna. Appena toccarono terra, i condannati a morte resero grazie ai marinai del servizio che avevano loro reso, e si avviarono alle nozze dell'agnello cantando ad una voce inni e salmi. Ciascuno vestiva l'abito della propria religione e teneva in mano il crocifisso. Dai loro visi pallidi ed emaciati traspariva tanta gioia che i pagani accorsi a vederli ne rimasero meravigliati. Più che alla morte sembrava che andassero a un festino.
Il P. Carvalho, appena giunse davanti al patibolo, parlò alla moltitudine accorsa per gloriarsi di essere ministro di Dio e di essere stato condannato a morte in odio alla sua legge. Esortò quindi con grande energia i cristiani presenti a non temere l'ira di chi può nuocere al corpo, ma nulla può contro l'anima. Infine, pieno di santo ardore, ritenne suo dovere rivolgere severe parole di condanna ai giudici e ai pagani qualora si fossero ostinati nei loro errori. I ministri della giustizia rimasero sdegnati delle sue parole e, ricoperti i missionari d'ingiurie e villanie, diedero ordine che fossero legati ai pali con tenui cordicelle perché potessero fuggire qualora non avessero sostenuto l'ardore del fuoco. La legna che era stata sparsa attorno ai pali era scarsa e disuguale, motivo per cui i martiri ebbero a soffrire atroci dolori per circa tre ore. Al crepitare delle fiamme il P. Carvalho intonò ad alta voce un'orazione che i suoi compagni di sventura continuarono cantando. Il primo a rendere a Dio il suo spirito fu Luigi Baba. Costui, quando si sentì libero dalla fune perché il fuoco l'aveva consunta, si slanciò tra le fiamme e andò a inginocchiarsi ai piedi del P. Sotelo per riceverne l'ultima benedizione.
Poi ritornò giulivo al suo palo e vi attese immobile la morte. Luigi Sosanda avrebbe voluto imitarne il gesto. Non potendo però reggersi in piedi perché erano già stati ridotti ad una piaga dal fuoco, si limitò a voltarsi verso di loro e a salutarli facendo un inchino. Tanto eroismo trasse di bocca ai bonzi parole di ammirazione e di lode.
I corpi dei martiri furono ridotti in cenere, e gettati in mare.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 8, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 288-292
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