Il beato Maurizio Tornay nacque a Rosière (comune di Orsières – cantone del Vallese), in Svizzera, il 31 agosto 1910 e morì martire a To Thong, in Tibet, l'11 agosto 1949. La sua tomba si trova presso la missione di Yerkalo, Tibet-Cina. E’ stato beatificato a Roma da Giovanni Paolo II il 16 maggio 1993.
Un certo ecumenismo alla moda, che rasenta il sincretismo, stenterà a credere che, soltanto nel 1949, un missionario cattolico sia stato ucciso dai buddisti nel Tibet (Cina). Si tratta di P. Maurizio Tornay, nato il 31-8-1910 a la Rosière, borgata del comune di Orsière, nel cantone svizzero del Vallese, settimo degli otto figli che Giovanni Giuseppe, povero contadino e sensale di cavalli, ebbe da Faustina Rossier, donna molto pia e caritatevole. Al fonte battesimale gli furono imposti i nomi di Maurizio e Nicola. A otto anni fu pure cresimato.
Per aiutare la famiglia il Beato si trasformò con gioia in guardiano di bestiame al pascolo. Allora, ma specialmente quando frequentò le scuole elementari, diede a vedere di quale spirito vivo e battagliero fosse posseduto, motivo per cui ogni tanto i più grandicelli gli somministravano una buona dose di scappellotti. Era pure un artista nel giocare brutti tiri ai coetanei nel bosco. Però, il suo maestro, negli ultimi anni di scuola, disse di lui: "Ecco il ragazzo più pio della classe". Durante le vacanze si ritirava abitualmente da solo in un angolo tranquillo del bosco a meditare. Fu là che prese la decisione di confessarsi tutte le domeniche.
Maurizio frequentò le scuole secondarie a Orsières, poi all'età di 15 anni entrò nel collegio dell'Abbazia di St-Maurice per lo studio della grammatica e della retorica (1925-1931). Durante i sei anni che vi rimase si rivelò un giovane deciso e anche caparbio, se riteneva essere nel giuste autoritario fino a trascinare i suoi compagni, molto bravo a scuola, diligentissimo, austero in materia di castità, altrettanto pio e fervorose nelle sue pratiche di pietà. Gli anni trascorsi in collegio lo fecero mutare rapidamente. Quando ritornava in famiglia per le vacanze i suoi parenti avvertivano che, anno dopo anno, diventava più riflessivo.
Nel corso degli studi ci fu un periodo in cui il Tornay fu fortemente tentato di farsi avvocato per sottrarre alla miseria la propria famiglia. Invece, quando li ultimò, chiese di essere ammesso al monastero dei Canonici Regolari del Gran San Bernardo, benché la sorella Maria le avesse pregato di restare a casa. Fu ammesso alla vestizione dell'abito e al noviziato il 25-8-1931. Al suo maestro era stato dato ad intendere che avrebbe trovato in lui un giovane dal carattere difficile e volubile. Invece costatò che, nell'anno di prova, oltre ad essere molto ubbidiente, un giorno lo era andato a trovare per chiedergli con insistenza: "Che cosa devo fare per santificarmi?" Continuò ad essere un religioso di una assai marcata originalità, ma abitualmente di buon umore.
Dopo la professione religiosa il canonico Tornay studiò per due anni filosofia, e lesse le opere di molti autori classici. Nella sua propensione al paradosso, era abilissimo nel porre questioni imbarazzanti anche per il professore. Da buon religioso, molto stimato dai superiori e dai confratelli, sopportò con coraggio le sofferenze che gli provennero da un'ulcera allo stomaco, da cui fu liberato, durante lo studio della teologia, con un'operazione subita in un ospedale di Losanna senza pregiudizio per gli esami finali. L'8-9-1935 fu in grado di emettere pure la solenne professione dei voti.
La missione del Gran San Bernardo, fondata nella Marca Tibetana dello Yunnam (Cina), chiese rinforzi. Il Beato, appena ne venne a conoscenza, sollecitò il permesso di recarvisi benché non avesse ancora terminato gli studi della teologia. I superiori in principio rimasero sorpresi di quella sua inattesa richiesta, poi, in considerazione delle eccezionali qualità del suddito, l'accolsero con favore. Il Tornay s'imbarcò a Marsiglia il 24-2-1936, dopo essere andato a salutare la mamma e a dire al fratello Luigi: "Se tutto andrà bene, da quei luoghi non farò più ritorno".
La missione del Gran San Bernardo si trovava nel Vicariato Apostolico di Tatsienlu, trasformato nel 1946 in diocesi di Kangting (Cina centrale). I Padri della Società per le Missioni Estere di Parigi vi lavoravano già dal tempo di Gregorio XVI, ma furono costretti dal fanatismo dei Lama (monaci buddisti) e dalle rigorose leggi a fermarsi ai confini del paese, con centro a Weisi. L'unica stazione cattolica del Tibet era stata fondata nel 1867 a Yerkalo. I canonici del Gran San Bernardo si erano assunti il compito di edificare un ospizio sul colle del Latsa, a 3800 metri di altezza, al confine con la Cina e la Birmania.
Il Beato, arrivato a Weisi l'8-5-1936, iniziò subito con ardore lo studio del cinese e privatamente continuò anche quello della teologia. Appena lo terminò, fu ordinato sacerdote il 24-4-1938 ad Hanoi (Tonchino). Si trasferì quindi a Tsechung, nella parte settentrionale della missione, per lo studio del tibetano, essendo stato nominato dai superiori direttore del probandato di Houa-lo-pa, piccolo centro situato non molto lontano da Weisi.
Fino al 1945 il lavoro che il Beato fu chiamato a svolgere presso i giovani non lo spaventò di certo, anzi egli seppe farsi amare e seguire da loro, dopo essere riuscito a conquistarli con l'adattamento al loro duro genere di vita, il suo buon tratto, il giuoco, il teatro, la fanfara, i camping. Si è dedicato al suo compito con grande zelo e prudenza, per formare i suoi allievi a una solida pietà e istillare nei loro cuori la devozione alla Madonna, venerata sotto il titolo del Perpetuo Soccorso.
Nel giugno del 1945 il P. Maurizio, dopo la morte del P. Burdin, responsabile di Yerkalo, l'unica parrocchia cattolica del Tibet indipendente con circa 300 battezzati, fu destinato a sostituirlo. I Lama del distretto (lamaserie di Karmda e Sogun), erano i titolari del potere spirituale e temporale. Essi non hanno mai ammesso la presenza tra loro del missionario cattolico. Al suo arrivo il lama-capo del distretto, Gun-Akio, dispotico e crudele amministratore, rivendicò i terreni che la Missione cattolica aveva comperato a caro prezzo, e di cui il governo centrale di Lhassa aveva riconosciuto la proprietà. Senza di essi la Missione non avrebbe potuto né conservare la propria indipendenza, né continuare ad esistere perché priva del titolo legale che l'autorizzava a restare nel paese. Il Beato resistette alle ingiunzioni dei Lama. Informato degli avvenimenti, Mons. Pietro Valentin, suo Vicario Apostolico, gli ordinò di cedere soltanto alla violenza. Per quattro anni almeno P. Maurizio fu eroicamente fedele al suo dovere di pastore, ed espose la vita e, infine, la offerse sull'esempio del buon Pastore perché il Tibet si aprisse finalmente al Vangelo.
Il canonico Angolino Lovey affermò del confratello: "Io sono stato il testimone della sua vita esemplare, delle sue veglie e delle sue preghiere, del suo spirito di povertà, del suo zelo apostolico, delle sue sante collere, dell'ardore dei suoi desideri per la giustizia e il regno di Dio, della sua obbedienza eroica, del suo intrepido coraggio davanti ai pericoli e alla morte, della sua mansuetudine malgrado un temperamento vivo e facilmente irritabile". "Fin dall'inizio del suo soggiorno a Yerkalo… mi disse a più riprese: "La mia anima a Dio, la mia carcassa ai Lama, ma partire! Io non parto!" Avendo saputo che i Lama praticavano la sodomia con i loro giovani aspiranti alla vita monacale, esclamò, profondamente amareggiato: "E meglio morire che lasciare i cristiani in tale condizione!"
I Lama, rapaci e fanatici, decisero di sopprimere il P. Maurizio, perché erano convinti che, con lui vivente, non sarebbero mai riusciti a spadroneggiare sui cristiani e a farli apostatare. Già nel 1938 essi avevano spogliato la Missione, ma il governo di Lhassa, la capitale, aveva imposto lo status quo anteriore.
Nel mese di novembre 1945, i Lama fecero circolare a Yerkalo la voce che i missionari sarebbero stati espulsi dalla regione con la forza, perché nel Tibet doveva essere praticata una sola religione. Il 25-1-1946 una trentina di Lama, armati di fucile, invasero la residenza del missionarie e, al rifiuto di lui di andarsene, cominciarono a saccheggiarla. Il missionario disse allora che cedeva soltanto alla violenza. Affidò i beni della Missione ad alcuni cattolici, mise egli stesso i sigilli sulla residenza e, il giorno dopo, partì. Gun-Akhio gli diede una certa somma di denaro, e lei fece accompagnare da soldati fino a Pamé, a due giorni di viaggio da Yerkalo, in cui era presente una sola famiglia di cristiani. L'8 maggio dello stesso anno, l'intrepido Beato in seguito all'invito del governatore di Chamdo, tentò di rientrare nella sua parrocchia, ma fu arrestato a Peline, dirimpetto ad essa, da Gun-Akhio e dai Lama di Kharmda i quali lo ricondussero, la sera stessa, a Pamé.
Dopo essere rimasto alcuni mesi a Weisi, P. Maurizio risalì ad Atuntze per restare in relazione con i cristiani di Yerkalo che vi transitavano per il commercio del sale con i cinesi. Lo animava tra tante afflizioni. solitudini e abbandoni soltanto l'idea di un possibile ritorno a Yerkalo in cui i Lama avevano costretto tutti i cattolici a tornare alle pratiche del buddismo.
Con la morte nell'anima il P. Maurizio riuscì a penetrare in Cina per sollecitare l'appoggio del suo vescovo, di Mons. Antonio Riberi, Nunzio Apostolico, delle principali autorità consolari. Malgrado i loro energici interventi presso il governo cinese, questo non poté fare sentire la sua voce a Lhassa, alle prese com'era con la sovversione comunista, sfociata il 1-10-1949 nella proclamazione della Repubblica Popolare Cinese da parte di Mao-Tse-tung (+1976).
In quel tempo l'intrepido missionario concepì un piano molto arduo e rischioso: recarsi a Lhassa per esporre le sue ragioni alle supreme autorità tibetane, le uniche che avrebbero potuto reintegrarlo a Yerkalo nel suo ruolo di pastore. I suoi superiori ne approvarono l'audace progetto senza troppo entusiasmo. Lo condivise in pieno soltanto Mons. Riberi il quale gli fece dono di 200 dollari USA. P. Maurizio si preparò alla partenza, in tutta segretezza, con l'aiuto di due domestici che lo avrebbero accompagnato con i muli: Doci (Domenico) e Joouang.
Appena una carovana, diretta a Lhassa, formata quasi esclusivamente da cristiani, passò il 10-7-1949 da Atuntze, il Beato chiese di farne parte al capocarovaniere Aouang, con il quale viaggiava pure il cognato di lui, Casimiro Sandjrou, commerciante di professione, antico ospite suo a Houa-lo-pa. Oltre il bagaglio, stivato sui muli, secondo l'usanza, il missionario aveva preso per sé una pistola Browning, e per Doci una mitraglietta Mauser. A Gialang, 4.a tappa del viaggio, il P. Maurizio si tagliò la barba e si travestì da tibetano per non essere riconosciuto. I Lama, che avevano ovunque degli spioni, appena vennero a conoscenza del motivo del viaggio a Lhassa del Beato, temendone il successo, decisero di impedirlo mandando sulle sue tracce due loro coloni con il compito di avvisare i doganieri di Tchrayul – posto di frontiera cino-tibetana – che avrebbero dovuto fermare il P. Tornay e farlo tornare indietro.
Durante il giorno il Beato, con Doci, cercava di non farsi vedere nella carovana compiendo giri più lunghi e astenendosi dall'entrare nei diversi paesi. Strada facendo diceva un rosario dopo l'altro. Raggiungeva d'ordinario l'accampamento al tramonto del sole. Nelle tappe, prima aiutava a scaricare i muli, e poi riuniva i cristiani sotto la sua tenda per farli pregare. Nei pressi del colle Chuia, P. Maurizio fu riconosciuto dagli abitanti di Gunra. Essi ne diedero avviso ai Lama di Karmda, i quali, per ucciderlo quanto prima, dislocarono undici uomini armati, con il compito di tendergli l'agguato sulla via del ritorno, e avvertirono del passaggio del missionario i diversi posti di frontiera, in modo speciale quello di Tentho.
Prima della carovana giunsero nella suddetta località i due coloni dei Lama di Yerkalo, insieme ad altri due uomini armati, i quali chiesero aiuto ai Lama del posto per far fallire l'operazione. Appena la carovana giunse a Tentho, 17.a tappa, il P. Maurizio fu subito isolato dal resto del gruppo. Per evitare che i Lama facessero tornare indietro tutti, egli, pagando profumatamente, ottenne da essi che soltanto lui, i suoi due domestici e Casimiro Sondjrou fossero ricondotti al posto di frontiera di Tchrayul.
Appena vi giunsero, il missionario cercò, con regali, di convincere il capo della dogana a non farlo tornare indietro. Tutto fu inutile. Allora sia lui che i suoi compagni ebbero la netta sensazione di trovarsi in stato di prigionia. In quella triste situazione il Beato non temeva di proclamare che, se qualcuno doveva essere ucciso, questi poteva essere soltanto lui.
Sulla via del ritorno, esattamente a Pitou, il gruppetto dei viandanti fu raggiunto da due uomini armati. Erano stati inviati dai Lama di Karmda con l'ordine per il missionario di recarsi presso il Lama amministratore di Potine. P. Maurizio si rifiutò di obbedire. Una donna, malata di sifilide, che si era aggregata al gruppo del missionario per farsi curare da lui ad Atuntze, una sera udì alcuni uomini che progettavano di uccidere Doci.
P. Maurizio, in una tappa, ne prese le difese. Disse loro, scoprendosi il petto: "Se volete uccidere qualcuno, uccidete me. Sono io il responsabile della spedizione". Gli uomini armati giurarono e spergiurarono che essi avevano soltanto il compito di ricondurre tutto il gruppo ad Atuntze. Per niente rassicurato, P. Maurizio richiese e ottenne che il delegato del capo dogana togliesse alle armi le culatte per renderle inoffensive.
Il missionario giunse con la comitiva a Gialang la sera dell'8 agosto. La scorta fece sapere che il giorno dopo sarebbe stato giorno di riposo. Invece di fuggire, P. Maurizio fece questa riflessione: "Avviene di tutti noi quello che avvenne del P. Vittorio Nussbaum. Offriamo tutto ciò per i cristiani del Tibet; non lasciamoci scoraggiare". Il P. Vittorio, responsabile dei cristiani di Yerkalo, per ordine dei Lama era stato assassinato a Pamé nel 1940.
La mattina del 10 agosto, alla partenza da Gialang, Doci, dietro il pagamento di 8 piastre, ottenne dal delegato del capo dogana la restituzione della sua mitraglietta. La sera, alla tappa di K'iobe, gli emissari dei Lama, seccati del favore ottenuto da Doci, lo minacciarono di morte e lo disarmarono. Ciò nonostante, durante la cena, P. Maurizio ebbe il coraggio di dire ai suoi compagni: "Non bisogna aver paura; se ci uccideranno, noi quattro, andremo tutti direttamente in paradiso. Moriamo per i cristiani".
L'11 agosto, alla partenza da K'iobe, P. Maurizio mangiò pochissimo. Superò con il suo gruppo il colle del Choula e poi, a piedi, discese verso la Cina stringendo tra le mani la corona del rosario. Dopo circa un'ora di cammino nella valle, nel luogo chiamato To Thong, dal folto di un bosco sbucarono, in una curva, 4 Lama, i quali prima salutarono i viandanti e poi puntarono i loro fucili contro Doci e il missionario. Il Padre gridò inutilmente: "Non sparate. Prima discutiamo". Doci cadde a terra in un lago di sangue gridando: "Mamma!" Gli assassini ignoravano che la sua mitraglietta era priva di culatta. Mentre il missionario, inginocchiato per terra, gli impartiva l'assoluzione, venne a sua volta colpito a morte da una pallottola alla tempia e da un'altra al basso ventre.
I membri della comitiva furono ricondotti a Yerkalo, Joonang e Sondjrou, invece, riuscirono a fuggire. Il giorno dopo, verso mezzogiorno, raggiunsero Atuntze e avvertirono dell'accaduto il P. Alfonso Saviez, sostituto del P. Maurizio. Una decina di uomini, di cui uno faceva parte della pretura di Atuntze, furono inviati sul luogo dell'imboscata perché ricuperassero i corpi dei due assassinati. Furono trovati da essi distesi per terra e completamente nudi. Le bestie feroci non li avevano mutilati. Furono trasportati e sepolti ad Atuntze alla presenza di un folto gruppo di cristiani e di pagani nel giardino dell'antica missione.
Giovanni Paolo II del P. Maurizio Tornay riconobbe il martirio l'11-7-1992.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 8, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 101-107
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