La Beata si distinse tra tutte per abnegazione e resistenza alle fatiche. Sovente rimaneva fino a mezzanotte al capezzale dei colerosi, noncurante del loro vomito continuo e del sonno. Alle difficoltà che Suor M. Enrica incontrava ad ogni passo nel disimpegno dei propri doveri, si aggiunsero pene interiori alle quali cercava sollievo facendo una visita a Gesù sacramentato, leggendo in ginocchio un brano dell’Imitazione di Cristo, e riconfermando il proposito più volte fatto prima di entrare in religione “di essere pronta a soffrire la privazione di ogni conforto sia umano che divino” per amore dello sposo dell’anima sua. Suo motto era: “Dio, Dio solo, sempre e in tutto”.
La Dominici fu la seconda superiora generale delle Suore di Sant’Anna e della Provvidenza, fondate a Torino il 10-12-1834 per l’istruzione e l’educazione della gioventù dai marchesi Carlo di Barolo (1782-1838) e da Giulia Colbert de Maulévrier, sua sposa (1785-1864), con l’aiuto di Don Pietro Ponte e di Silvio Pellico (1789-1854), loro bibliotecario, il quale per parecchi anni diresse gli studi dell’Istituto.
Per conoscere la propria vocazione e seguirla, Anna molte volte, la sera si recava in chiesa, dietro l’altare, e vi rimaneva a lungo raccolta in preghiera. Attesta nell’autobiografia: “Aborrivo dal seguire la mia volontà, e volevo ad ogni costo seguire quella di Dio, ma pregavo che la divina volontà fosse conforme alla mia, perché io volevo essere monaca ad ogni costo”. Provò a fare in casa per proprio conto un po’ di noviziato, ma cadde in eccessi fino a compromettere la salute. Non accontentandosi delle astinenze e dei digiuni prescritti dalla Chiesa, cominciò a digiunare tre volte la settimana e a passare la maggior parte della notte nel leggere e meditare. Il confessore la moderò in quel desiderio di fare penitenza per la conversione dei peccatori e di riparare le offese fatte dagli uomini a Dio specialmente nel tempo del carnevale. Poiché bramava ardentemente di farsi religiosa conversa per vivere sottoposta all’ubbidienza e ai lavori più umili, egli s’incaricò di parlarne allo zio. Costui si oppose risolutamente alla decisione della nipote perché non riteneva la vita claustrale adatta alle sue forze. Le diceva infatti: “Con il tuo carattere che soffre persino degli sguardi, nonché dei rimproveri, diventeresti tisica in tre mesi”. La mamma non le era contraria benché sentisse la solitudine avendo già permesso al figlio unico di entrare tra i Somaschi.
Per cinque anni, la beata raddoppiò le mortificazioni e le preghiere, soprattutto l’invocazione allo Spirito Santo, per riuscire a compiere a costo di qualsiasi sacrificio la volontà di Dio. Per vincere la naturale inclinazione alla vanità andò modestamente vestita, nonostante le proteste della sorella, si iscrisse alla Compagnia delle Umiliate che avevano lo scopo di accompagnare i morti alla sepoltura, si recò a visitare nell’ospedale le ammalate più ripugnanti e moltiplicò i soccorsi ai poveri. Non meraviglia quindi che da tutti fosse chiamata “l’angelo del paese”.
Il Padre dell’Oratorio al quale si rivolgeva abitualmente per la direzione spirituale, le raccomandò di comunicarsi più sovente, e di fare ogni giorno la meditazione sulla Passione del Signore, ma ella confessa nell’autobiografia: “A me pareva di meditare continuamente e non avevo allora bisogno di molta fatica per tenermi raccolta e unita a Dio anche in mezzo alle più distraenti occupazioni. Un acceso fervore mi accompagnava ovunque, e dovendo talvolta uscire di casa andavo per via senza badare ad alcuna cosa… In chiesa mi fermavo alcune volte, specialmente nei giorni festivi, anche quattro o cinque ore di seguito… Il tempo davanti a Gesù sacramentato mi passava come un lampo. Avrei voluto starvi sempre se altri doveri non mi avessero chiamata altrove… A poco a poco Dio ritolse tutti i suoi doni, e io rimasi arida, fredda, insensibile. Un tal combattimento dolorosissimo per l’umanità non recò pregiudizio al mio spirito, e con la grazia di Dio proseguii in tutti i consueti esercizi e pratiche di pietà, benché più non vi sentissi il trasporto di prima”.
Dopo cinque anni di aspettativa, Anna, grazie alle sollecitazioni di un suo cugino religioso, ottenne finalmente dallo zio il sospirato permesso di entrare a Torino, non in un monastero di clausura, ma tra le Suore di S. Anna che Gregorio XVI aveva approvato il 7-12-1841. Nella vita religiosa la beata fu costantemente accompagnata dal desiderio di patire per il Signore. Lo stato di aridità e di pene interiori in cui si trovava non diminuì, e la maestra del noviziato alla quale si confidò non fu in grado di comprenderla. Fu tentata di fare ritorno in famiglia, ma la fiducia posta nel Cuore di Gesù e la considerazione dei dolori da lui sofferti durante l’agonia nell’Orto del Getsemani l’aiutarono a superare la prova.
Il 27-7-1851 Anna fu rivestita dell’abito religioso. Chiese allora, come aveva già fatto durante il postulato, il permesso di fare uso di qualche strumento di penitenza, ma non le fu concesso perché la sua salute lasciava alquanto a desiderare. Trascorse il primo anno di noviziato occupata negli asili d’infanzia sforzandosi di compiere con diligenza il proprio dovere, benché tormentata da un continuo dolore di capo. Trascorse il secondo anno a Santena (Torino) in compagnia di una superiora anziana e incontentabile la quale, quando la incontrava, aveva sempre qualche cosa da rimproverarle. Dio si servì di lei per farle trascorrere un noviziato molto penoso alla natura, ma molto profittevole all’anima.
La beata fu ammessa alla professione religiosa in casa madre il 26-7-1853 con il nome di Suor Maria Enrica e fu incaricata subito della formazione delle educande. Non paga del suo compito, scrive nell’autobiografia: “Non sapevo vedere un bisogno anche piccolo nelle sorelle senza che mi sentissi stimolata ad accorrere in loro aiuto… Per chi ha buona volontà e non cerca di risparmiarsi il lavoro non manca nella comunità specialmente se numeroso. Io ne avevo sempre, e con tutto il buon desiderio che sentivo di aiutare le sorelle compiendo il mio dovere, pure non riuscivo ad accontentare tutte. Questo mi era doloroso, ma non rimproverandomi la coscienza e parendomi di fare quanto potevo in loro favore, me ne rimanevo tranquilla”.
A un anno e mezzo circa dalla professione Suor Maria Enrica fu trasferita dalla superiora generale, Madre Maria degli Angeli, nella casa di Castelfidardo (Ancona), dove giunse il 4-10-1854 con il compito di togliere gli abusi che vi erano stati introdotti. Fu quindi considerata dalle consorelle come una spia e, siccome non sapevano che farsene, le affidarono la cura del pollaio. Per volere della superiora generale ebbe invece la custodia della portineria. Nel 1855 a Castelfidardo infierì per tre mesi il colera. Le Suore di S. Anna si offersero spontaneamente per l’assistenza degli ammalati nel lazzaretto. La Beata si distinse tra tutte per abnegazione e resistenza alle fatiche. Sovente rimaneva fino a mezzanotte al capezzale dei colerosi, noncurante del loro vomito continuo e del sonno.
Alle difficoltà che Suor M. Enrica incontrava ad ogni passo nel disimpegno dei propri doveri, si aggiunsero pene inferiori alle quali cercava sollievo facendo una visita a Gesù sacramentato, leggendo in ginocchio un brano dell’Imitazione di Cristo, e riconfermando il proposito più volte fatto prima di entrare in religione “di essere pronta a soffrire la privazione di ogni conforto sia umano che divino” per amore dello sposo dell’anima sua. Suo motto era: “Dio, Dio solo, sempre e in tutto”.
Poiché a Castelfidardo mancava una buona maestra di noviziato, la superiora generale fece cadere anche quel compito sulle spalle della beata, la quale ne approfittò per rinsaldare l’unione dei cuori e togliere alcuni abusi che erano stati introdotti tra le suore.
Il 17-5-1857 Pio IX si recò a visitare la basilica di Loreto. All’udienza che il papa concesse alle religiose fu presente anche Suor M. Enrica con le sue novizie, e S. Maddalena Sofia Barat (+1865), fondatrice delle Dame del Sacro Cuore.
In quel tempo la beata si angustiò per le difficoltà che incontrava nel fare la meditazione secondo il metodo inculcato dai Gesuiti, che ogni tanto erano chiamati da Loreto come confessori straordinari e predicatori di esercizi spirituali. Scrive nella sua autobiografia: “Da un po’ di tempo sentivo in me grande timore riguardo al metodo che io tenevo nel fare le mie quotidiane meditazioni. Da molti anni non capivo ciò che facevo in detto tempo, ma da alcuni mesi ero diventata talmente incapace di fare il minimo atto, che temevo proprio di perdere tempo e che dovessi un giorno rendere conto a Dio di tanta mia tiepidezza. Mi pareva di stare sempre con il mio buon Dio in modo che non saprei spiegare. Mi pare che il mio spirito si trovasse subito fermo e fisso in Dio senza che io usassi qualche mezzo per introdurvelo”. Parlò di questa sua “croce terribilissima” al P. Pellicani SJ. il quale, avendo capito che era giunta senza saperlo alla contemplazione infusa, la lasciò con la certezza di trovarsi sulla retta via. Nel 1857 allo stesso Padre fece intravedere il desiderio che aveva di andare nelle Indie per lavorarvi e spargervi il sangue se fosse stata la volontà di Dio. Dopo averla ripetutamente esaminata, il P. Pellicani, il 2-2-1858, le permise di farne il voto a determinate condizioni. Essendole stata concessa maggior libertà d’azione in vista del voto emesso, confessa nell’autobiografia: “Incominciai col privarmi delle cose non assolutamente necessarie, e da certe comodità che più non avrei potuto avere in quei lontani paesi. Quindi dormivo frequentemente sul pavimento, con sotto una sola coperta; nel cibo, essendo refettoriera, cercavo di servirmi delle cose meno sostanziose; portavo tutta la mattina una catenella e qualche volta tre a un tempo, e mi davo sovente la disciplina”.
Nel 1858 Suor M. Enrica fu richiamata a Torino e riconfermata nel compito di maestra delle novizie. In noviziato c’erano anche delle professe e persino alcune suore che coprivano le prime cariche nella comunità. Costoro giudicarono in modo sfavorevole le virtù della beata, la schernirono, la trattarono con disprezzo, mormorarono di lei quasi volesse rendersi singolare con il suo bigottismo. Suor M. Enrica, anziché mostrarsi offesa, usava con loro ogni riguardo quasi fossero le sue beniamine.
Madre Maria degli Angeli, da vent’anni superiora generale, non si comportava con la fondatrice con uniformità di sentimento e con lealtà. Dalle suddite era considerata senza cuore per il suo ferreo dominio e per la sua asprezza di carattere. Per questi motivi e per gli abusi che aveva introdotto nell’Istituto il 24-10-1858 la S. Sede comunicò a Giulia Falletti, marchesa di Barolo, che Madre Maria degli Angeli non doveva più rivestire cariche nella congregazione. La fondatrice pose allora gli occhi su Suor M. Enrica perché le pareva una religiosa molto virtuosa ed equilibrata.
Il capitolo generale fu posticipato di due anni. Come temeva, nella sessione del 1-7-1861 la beata fu eletta superiora generale. Tuttavia, prima di accettare la carica, volle andare a esporre i propri timori al canonico Luigi Anglesio, superiore della Piccola Casa della Divina Provvidenza, il quale le disse che non poteva opporsi alla volontà di Dio manifestatale per mezzo dei voti della comunità. Poiché ella ci teneva a mettere in risalto la propria incapacità nel governo dell’Istituto, egli le ripose risolutamente: “Metta tutta la sua fiducia in Dio e poi, se non sarà capace di governare, avrà almeno l’umiltà di lasciarsi deporre”. La fondatrice ricevette la notizia dell’avvenuta elezione a superiora generale dell’Istituto della sua Enrichetta mentre si trovava a Lione. Fu tanta la gioia che ne provò che, in ringraziamento, dispose che fosse fatta una sfarzosa illuminazione nel santuario della Madonna di Fourvière.
Madre M. Enrica, benché molto timida, diede subito a vedere di quanta prudenza, carità e fermezza fosse dotata. Poiché non si mostrava ligia ai desideri della superiora deposta, costei la sera la faceva chiamare nella propria camera e per ore intere le muoveva rimproveri. La beata la lasciava dire, la trattava con ogni riguardo, ma restava ferma nella risoluzione presa di fare osservare da tutte le suore la regola professata. Madre Maria degli Angeli quando s’accorse che la sua sucessora non intendeva agire secondo i suoi suggerimenti, per quattro anni si astenne da quasi tutti gli atti comuni, visse chiusa con la sua assistente in una camera, e nel 1865 abbandonò con essa la congregazione.
Libera da quel tormento, Madre M. Enrica a poco a poco fece rifiorire nella congregazione la perfetta osservanza, e continuò a governare le suore con tanta “rara saggezza” da meritare di essere rieletta alla stessa carica per trentadue anni, benché personalmente si ritenesse “un guastamestieri” e ogni tanto cercasse di dimettersi per attendere a occupazioni più umili. Durante il suo generalato fondò una trentina di case e riuscì a mandare alcune suore anche nell’Indostan, nella pianura del Gange, dove si moltiplicarono con l’aiuto di Mons. Barbero, delle missioni Estere di Milano. Lo stesso S. Giovanni Bosco (+1888) quando volle fondare a Mornese, con l’aiuto di S. Maria Domenica Mazzarello (+1881), le Figlio di Maria Ausiliatrice (1868), ricorse alla Madre Dominici, la quale gli concesse due suore perché iniziassero le prime salesiane alla vita religiosa.
Le Suore di S. Anna ritennero la loro superiora come “la regola vivente” e la chiamarono costantemente “la Madre santa”. Persino le alunne quando passavano davanti alla sua camera ne baciavano gli stipiti esclamando: “Lì dentro ci sta una santa!”. Il canonico Luigi Nasi, superiore ecclesiastico della comunità, disse alle suore: “La vostra Madre ha tale rettitudine e delicatezza di coscienza che non sarebbe capace di fare per tutto l’oro del mondo qualcosa che potesse recare offesa a Dio o causare il minimo dispiacere alle sue figlie”. Del resto, a ognuna di esse la beata ripeteva di frequente: “Si ricordi: soffrire, ma non fare soffrire”. Benché fosse gentile e affabile nei modi, tuttavia era assai parca e riservata nelle parole. E voleva che anche le suore evitassero chiacchiere oziose e quel parlottare sconsiderato che facilmente sconfina nella mormorazione e nel pettegolezzo.
Avendo fatto il voto di ricercare in ogni azione quello che le sarebbe parso “il più perfetto”, Madre M. Enrica usciva sovente in simili espressioni: “Tutto per Dio! Tutto per amore di Dio! Dio solo in tutte le cose! Sia sempre fatta la volontà di Dio!”. Oppure: “Io sono niente, valgo niente, merito niente, ma aspetto tutto dal Babbo Buono. Dio è tutto, e io nulla; molto sovente il Tutto si umilia verso il nulla e lo solleva a sé; allora il nulla nel Tutto può tutto!”. Quando aveva un’ora libera di giorno o di notte correva a prostrarsi davanti al SS. Sacramento. Alle suore raccomandava l’ora santa conforme all’uso già introdotto in altre case religiose. Per esse chiese e ottenne dalla S. Sede la facoltà di poter fare la comunione quotidiana.
Senza che se ne accorgesse la beata era insidiata da un carcinoma al seno. Si manifestò in seguito a un forte colpo al petto da lei subito sul battello che da Messina la trasportava a Napoli. Ella però tenne gelosamente nascosto il proprio male sia per amore al patire che per amore al pudore. Si decise a manifestarlo solamente quando il tumore era diventato troppo grande e aveva reso impossibile l’intervento chirurgico. Alla fine di novembre 1893 si mise a letto e, malgrado i lancinanti dolori, continuò a interessarsi dell’Istituto e a compiere tutte le pratiche di devozione prescritte dalla regola. Andarono a visitarla Maria Clotilde di Savoia (+1911), sposa di Gerolamo Bonaparte, e l’arcivescovo di Torino, Mons. Davide dei Conti Riccardi il quale, uscendo dalla cameretta della morente, esclamò: “Quale aria di paradiso! Quale aria di paradiso!”. Il senatore Dott. Lorenzo Bruno, amministratore dell’Opera Pia Barolo, che come medico era andato più volte a curarla, disse alle suore: “La vostra madre da lunghi anni è preparata a morire. Sono sessant’anni che vedo e curo infermità strazianti e penosissime, e confesso che non ho mai trovato un’anima più quieta e rassegnata di Madre M. Enrica”.
La beata trascorse gli ultimi giorni di vita nell’assopimento. Il canonico Pietro Montefameglio, suo direttore spirituale, le disse con voce forte : “Le sue figlie, Madre, desiderano ancora una sua benedizione”. La morente aprì gli occhi, sorrise alle suore che l’attorniavano in lacrime, e sospirò con un filo di voce: “Umiltà! Umiltà!”. Poi spirò guardando fisso in un luogo e sorridendo come a una visione di paradiso. Era il 21-2-1894. Il canonico Domenico Taverna, della Collegiata di Carmagnola, disse a una Suora di S. Anna: “Quando scriveranno la vita di Madre Enrichetta dicano pure che essa fu un angelo di candore. Affermo questo perché ho conosciuto ben da vicino la vostra Madre”.
Nel 1926 le ossa di Madre Maria Enrica dal cimitero di Torino furono traslate nella cappella di casa madre dell’Istituto. Paolo VI il 1-2-1975 ne riconobbe l’eroicità delle virtù e il 7-5-1978 la beatificò.
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 2, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 230-238.
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