Quando vestì l’abito religioso, stando in orazione, disse al Signore che era disposta a patire per amor suo tutti i dolori che le avrebbe mandato. Dopo una grave malattia la Beata udì una voce interna che la esortava a scegliere se restare tre anni paralitica o muta. Per non essere di peso alla comunità scelse di restare muta. “L’infermità l’aiutò a restare più unita a Dio. Anche quando lavorava non interrompeva la sua orazione mentale. Quando guarì prese a osservare il silenzio non solo nelle ore stabilite, ma anche nei momenti di distensione. A chi gliene muoveva rimprovero rispondeva: “È bene tacere e restare in casa”, cioè conservare un abituale raccoglimento.
21 gennaio
È una gloria del convento dell’Immacolata Concezione della B. Vergine Maria dell’Ordine di S. Agostino di Benigànim, nell’archidiocesi di Valenza (Spagna), paese in cui nacque il 9-2-1625 da poveri genitori: Luigi Albinàna e Vincenza Gomar. Rimasta orfana di padre ancora in tenera età, Giuseppa fu accolta in casa dello zio Bartolomeo Tudela, dove crebbe ignara della malizia del mondo e molto devota della Madonna in onore della quale imparò presto a dire il rosario. Rimasta orfana anche di madre, a diciott’anni chiese di essere ammessa nel monastero delle agostiniane. Lo zio più volte aveva cercato di darle marito, ma ella si era sempre opposta dicendo: “Non sia mai che io debba innamorarmi di qualche uomo. Io tengo un ottimo sposo in Gesù il quale è la mia gioia”. Un giorno, essendo salita nel granaio per riempire un sacco di grano, un servo cercò di abbracciarla e baciarla, ma ella, prima di fuggire attraverso una finestra, gli mollò un ceffone dicendogli: “Io sono vergine”.
Giuseppa fu accolta tra le agostiniane del suo paese nel 1643 e dopo otto mesi di prova ricevette il velo di conversa. La maestra di noviziato per assicurarsi della vocazione di lei, un giorno le disse per celia che era decisa a rimandarla nel mondo. La Beata, che preferiva lo stato claustrale a qualsiasi conforto della terra, le rispose: “Sono disposta piuttosto a morire che abbandonare la casa di Dio”. Fu ammessa alla professione religiosa con il nome di Suor Maria Giuseppa di S. Agnese e le fu affidato il compito di dispensiera. Poiché detestava l’ozio, nel momenti liberi fabbricava corone del rosario o aiutava le consorelle. Confidò ad un suo confessore, Don Giacomo Albert: “Stimo molto di più il pulire, lo scopare, il raccogliere le immondezze nella casa di Dio che essere regina di Spagna”. Finché visse si riservò il compito di vestire e seppellire le consorelle defunte. Non voleva essere privata di “quella consolazione” asserendo che le monache erano deboli, mentre lei era robusta, poco impressionabile e incapace di fare lavori più utili al monastero.
Quando vestì l’abito religioso, stando in orazione, disse al Signore che era disposta a patire per amor suo tutti i dolori che le avrebbe mandato. Dopo una grave malattia la Beata udì una voce interna che la esortava a scegliere se restare tre anni paralitica o muta. Per non essere di peso alla comunità scelse di restare muta. “L’infermità l’aiutò a restare più unita a Dio. Anche quando lavorava non interrompeva la sua orazione mentale. Quando guarì prese a osservare il silenzio non solo nelle ore stabilite, ma anche nei momenti di distensione. A chi gliene muoveva rimprovero rispondeva: “È bene tacere e restare in casa”, cioè conservare un abituale raccoglimento. Nessuna consorella notò mai nella Beata la minima trasgressione alle regole. I confessori sovente non trovavano in lei materia sufficiente di assoluzione. Tre volte al giorno ella faceva l’esame di coscienza. Al mattino prima di uscire di cella si segnava e pregava il Signore perché non la lasciasse cadere in colpe volontarie. Se veniva ripresa di qualche difetto si umiliava dicendo: “Siano rese grazie a Dio che le consorelle conoscono quello che sono”. Diceva alle consorelle: “Quando vi sgridano non scusatevi mai. Soffrite tutto per amore di Dio”. Quando le udiva mormorare le esortava a parlare d’altro pensando a quello che avrebbero voluto aver fatto in punto di morte. Per la vita santa che conduceva, l’arcivescovo di Valenza Mons. Martino Lopez Antiveros, durante una sua visita al monastero volle che Giuseppa fosse ammessa tra le coriste (1663). Alle consorelle manifestava la gioia che provava di essere religiosa dicendo di quando in quando: “Siano rese grazie a Dio che stiamo nella sua casa. Non lo meritiamo”. Fu sempre puntuale al coro. Benché fosse balbuziente, tenendo dinanzi allo sguardo una devota immagine dell’Ecce homo recitava speditamente il divino ufficio. La Beata si alzava alle tre del mattino, andava in coro e vi restava fino alle undici. Pregava per il papa e per tutte le necessità della Chiesa, ma in modo speciale per le anime del Purgatorio che chiamava “le sue figlioline”. Molte di esse le apparivano per chiederle suffragi ed ella moltiplicava allora gli esercizi della Via Crucis, supplicava di pregare per loro quanti avvicinava alla grata, raccoglieva elemosine per la celebrazione di Messe, portava cilici, si flagellava a sangue, non mangiava mai carne, in avvento e quaresima si nutriva di pane ed acqua, non beveva vino né cioccolata neppure per le infermità. Al confessore chiese il permesso di fare più rigide penitenze, ma egli non gliele consenti perché riteneva che non fosse possibile compiere quelle che già faceva senza uno speciale aiuto di Dio.
A tante sofferenze Giuseppa si sentiva spinta dalla continua considerazione della Passione di Gesù. La sua comunità aveva l’abitudine di fare tre processioni di penitenza all’anno, dal coro all’orto, in sconto dei peccati del mondo: il mercoledì santo, il 2 novembre e durante il carnevale. La Beata era felice di potere incedere per ultima a piedi scalzi, portando sulle spalle una croce, sul capo una corona di spine e una corda al collo. Durante la refezione sovente rimaneva assorta e con il volto infiammato. Interrogata perché non mangiasse, rispondeva: “Come posso io mangiare se tutto il cibo mi si converte in chiodi, battiture e corone di spine del mio sposo?”” Esortava le consorelle a figurarsi quando bevevano, di porre le loro labbra nelle piaghe sanguinanti del Signore e di sentire l’amarezza del fiele e l’asprezza dell’aceto.
I frutti spirituali che la Beata otteneva con le preghiere e le penitenze eccitavano l’ira delle potenze infernali. Il demonio più volte la molestò, le diede i titoli più volgari, la tentò visibilmente ad azioni disoneste, ma ella se ne liberò sempre facendo il segno della croce e dicendo: “Gesù, figlio di David, abbi pietà di me”. Pieno di furore il demonio tornava subito all’attacco, ma vedendosi scornato la minacciava dicendo “Sta’ quieta, meritrice, bugiarda ed ingannatrice perché me l’avrai a pagare”.
Un giorno mentre stava facendo il bucato nell’orto, l’afferrò e la buttò nella fontana per affogarla. Giuseppa invocò prontamente il nome del Signore e l’angelo suo custode la trasse fuori di pericolo. A quanti erano tentati raccomandava la recita di tre Ave Maria in onore dell’Immacolata. Non andò soggetta a tentazioni d’impurità. I suoi confessori deposero nei processi canonici che “ignorava del tutto qualsiasi cosa che potesse ledere la verginità”.
Afferma Don Albert che per fare andare in estasi la Beata era sufficiente parlarle del mistero della SS. Trinità. Un anno ne ebbe la visione. Quando stava per compiere qualche azione importante o esercitarsi in qualche virtù, soleva esclamare: “La SS. Trinità ci assista”. Amava pure teneramente Nostro Signore, tanto che s’infiammava alla considerazione di quello che Egli ha fatto per noi. Temeva di essere sprofondata nell’inferno a causa delle sue ingratitudini, motivo per cui sovente si batteva il petto sospirando: “Signore, che sarà di me? Perdonami perché io sono una grande peccatrice. Temo di morire come una bestia, senza confessione”. Tutti i giorni faceva la comunione con la licenza del confessore. Il tempo libero di cui disponeva lo passava in adorazione davanti al tabernacolo. Quando le occupazioni non le permettevano di assistere a tutte le Messe che si celebravano nella cappella del monastero, vi prendeva parte con la mente. Al suono del campanello, che indicava il momento dell’elevazione s’inginocchiava per terra ovunque si trovasse. Quando si recava alla grata, il saluto che in principio e alla fine del colloquio rivolgeva ai visitatori era sempre: “Sia lodato il SS. Sacramento”. Esortava tutti a comunicarsi frequentemente e a meditare tutti i giorni per un quarto d’ora la Passione del Signore.
L’amor di Dio la spingeva ad amare svisceratamente il prossimo. Quando fra le consorelle sorgeva qualche discordia, con un tatto tutto speciale sapeva indurle alla riconciliazione. Quando alcune di loro cadevano malate, Giuseppa le assisteva con un’amorevolezza più che materna esortandole a conformarsi nel patire alla volontà del Signore. Non dimostrò preferenze per nessuna consorella, neppure per Madre Francesca di S. Anna che per trent’anni dormì in cella con lei per assisterla quand’era assalita da crisi epilettiche. Quando alcune di esse andavano a confidarle le proprie afflizioni esclamava: “A me sì, a te no!” Voleva dire che era disposta a soffrire per le altre, tutte le pene che il Signore le avrebbe mandato.
Madre Giuseppa accorreva con prontezza e ilarità alla grata quando sapeva di esservi ricercata dai poveri. Ad essi donava gli abiti e i veli smessi dalle religiose e da lei rammendati durante la notte. Ella stessa preferiva le vesti rappezzate alle nuove. Sovente le consorelle gliene muovevano rimprovero, ma ella rispondeva senza scomporsi : “Madri, non badate a questo; sono bazzecole”. Oppure: “Madri, dobbiamo avere più cura dell’anima perché dura in eterno, che del corpo perché è destinato a marcire nel sepolcro”. Quando la guardarobiera trovava qualche capo di biancheria inutile diceva: “Questo è per Madre Giuseppa”. A chi diceva alla Beata: “Ma non si vergogna di portare simili vesti?” lei rispondeva: “Non le merito neppure. A me sembrano merletti”.
La fama della sua santità si era propagata ovunque. Gli abitanti di Valenza quando si trovavano in pericolo, erano soliti esclamare: “Madre Agnese assistetemi”. Leggeva il futuro come in un libro, vedeva presenti cose assenti e penetrava noi segreti dei cuori. Per questo, molti vescovi, religiosi e persone importanti andavano a consultarla e a raccomandarsi alle sue preghiere. Sovente la faceva consultare don Giovanni d’Austria, figlio di Filippo IV. Maria Anna d’Austria, madre di Carlo II, re di Spagna, sottoponeva al giudizio di lei i maggiori affari della monarchia.
Più volte gli arcivescovi di Valenza fecero esaminare la Beata. Tutti gli inquisitori ne riconobbero la singolare virtù anche se da certe religiose era considerata e trattata come una “pazzerello”. Era realmente tanto semplice che certe consorelle riuscivano a farle credere le cose più impensabili. Ella riteneva tutti incapaci di dire bugie. Un esaminatore un giorno le chiese: “Madre Giuseppa, come stiamo a vanità?” La Beata, che non giunse mai a pensare che tante persone andavano al monastero proprio per vedere lei, gli rispose: “Padre, io non ho portato mai abiti di gala”. Il confessore le chiese, per le grandi grazie che il Signore le faceva, si sentisse spinta alla vana compiacenza. Gli rispose ingenuamente: “Padre, io non ho mai portato fiocchi”. Del vizio della vanità non aveva evidentemente la minima idea.
La Beata era semplice anche nell’ubbidire. Nel 1693 la Superiora, nel corso di una grave malattia, le disse: “Giuseppa, giacché siete figlia di ubbidienza, vi comando di pregare Dio affinchè si degni di conservarvi ancora in vita a servizio della comunità, e concedermi la grazia di non farvi morire durante il mio superiorato”. La Beata, rapita in estasi, così pregò: “Signore, la mia vita l’ho sacrificata a te; tuttavia, nel domandarti la guarigione, intendo solo di rendere omaggio all’ubbidienza”. Ritornata in sé, disse: ” Madre, Iddio l’ha esaudita per intercessione della Vergine SS.”. Per non venire meno all’ubbidienza restituì pure la vista ad una consorella cieca, moltiplicò l’olio e i grani insufficienti alla fabbricazione di un certo numero di corone.
La Beata eseguiva prontamente anche i comandi che riceveva mentalmente da parte di chiunque. Don Albert un giorno, mentre stava parlando alla grata con la Priora del monastero, chiamò con un atto della volontà la sua penitente. Ella apparve poco dopo dicendo come d’abitudine: Sia lodato il SS. Sacramento”. Facendo finta di nulla il confessore le chiese: “Perché siete venuta?” Gli rispose: “Perché ella mi ha chiamato”. ” “Chi vi ha detto che vi ho chiamata?” – “Padre, me l’ha detto l’angelo custode. Quando qualcuno mi chiama mentalmente, egli sempre mi avverte”. Una consorella aveva bisogno di qualche cosa che si trovava in custodia di Madre Agnese? Bastava che gliela chiedesse con il pensiero perché se la vedesse comparire davanti con l’occorrente.
Quando Madre Giuseppa fu avvisata in modo soprannaturale che sarebbe presto morta, fu tanto il giubilo che provò, che non seppe contenerlo. Negli ultimi mesi di vita ebbe da sopportare atroci spasimi a causa dell’epilessia, dell’asma e di un’ernia che contrasse in noviziato nell’attendere a lavori superiori alle sue forze. Interrogata dal le consorelle come faceva a tollerare tante sofferenze, rispose: “Che cosa dobbiamo fare se non patire per amore di Dio? Lo sposo lo vuole? Ringraziamolo che ci dà di patire”. Sollecitò ella stessa il Viatico dicendo: “Sorelle mie, portatemi subito il mio sposo perché parto”. Morì il 21-1-1696 dopo avere pronunciate ininterrottamente tante invocazioni a Gesù e a Maria da rendere superfluo l’intervento dei due confessori della comunità presenti al transito. Le consorelle nel comporre la salma della defunta le scoprirono una piaga sul petto. Nessuno l’aveva mai vista perché Madre Giuseppa, nel suo spiccato riserbo, se l’era medicata da sé.
Il corpo della Beata si conservò flessibile. Da esso si sprigionò pure una soave fragranza che riempì il monastero. La gente accorse in folla per venerarla e averne qualche reliquia. Per accontentare il maggior numero possibile di persone furono fatti a pezzi i suoi vestiti e persino gli assi del letto su cui morì. Leone XIII la beatificò il 21-2-1888. I suoi resti mortali, venerati nella cappella del monastero di Benigànim (Spagna), furono fatti sparire durante la guerra civile (1936-1939).
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 1, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 248-253.
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