Questo umile fratello laico francescano, famoso per 1e sue straordinarie penitenze e i doni mistici di cui fu favorito da Dio, nacque nel 1550 (o 1553) a Medinaceli (Vecchia Castiglia), primogenito di un conciatore di pelli, Andrea Martinet, francese, fuggito da Toulouse (o dal Béarn) a causa delle lotte religiose scatenate tra il popolo dall’eresia di Giovanni Calvino (+1564), e di Caterina Gutierrez.
Sotto la guida dei pii genitori il beato crebbe modesto, riservato e ubbidiente. Invece di prendere parte ai giuochi dei coetanei trovava la sua delizia nel fare da chierichetto in parrocchia. Anche quando fu posto al servizio di un sarto perché ne apprendesse il mestiere, approfittava dei momenti liberi che aveva per prendere parte alla Messa e fare la comunione, noncurante dei sarcasmi dei compagni di lavoro.
Sentendo crescere in sé ogni giorno di più l’attrattiva per la vita religiosa, il figlio di Martinet, in seguito al consiglio del suo confessore, decise di farsi francescano scalzo, pur essendo ancora molto giovane, in un convento-ritiro di Nostra Signora di Salceda, della provincia di San Giuseppe, fondata da S. Pietro d’Alcantara (+1562) secondo le regole dell’antica osservanza. Sentendosi animato da uno straordinario fervore, egli si diede subito a così spaventose penitenze che i superiori le ritennero frutto non di una solida virtù, ma di una mente esaltata. Quando gli dissero che avrebbe fatto bene a ritornare nel mondo, ne rimase desolato. Conformandosi, però, alla volontà di Dio si ritirò a Santorcaz, presso Toledo, dove si mise a fare il sarto senza abbandonare i suoi abituali esercizi di pietà.
Poco tempo dopo giunse a Santorcaz il P. Francesco de Torres, celebre predicatore, per tenervi le missioni. Fin dal primo giorno notò subito la presenza del beato, per l’attenzione che prestava ai suoi sermoni, la devozione con cui serviva la Messa e il fervore con cui faceva la comunione. Gli propose, perciò, di prenderlo con sé come compagno delle sue peregrinazioni apostoliche. Il giovanotto, che non attendeva altro, indossò un povero abito da pellegrino e si mise in cammino con lui per le strade della Spagna. Nelle città in cui giungeva, sua prima preoccupazione era quella di aggirarsi tra le vie e per le piazze, con un campanello in mano per chiamare i fedeli alla predica del missionario. Un giorno gli capitò di passare pure per le vie di Medinaceli. I compaesani, al vederlo così male in arnese, gli diedero del pazzo, ma egli con un modesto sorriso disse loro: “Voi dite il vero. Io sono propriamente pazzo, ma per amore di Dio”.
Il P. Francesco de Torres, a contatto continuo del suo aiutante, ebbe modo di conoscerne la pietà e il candore, ma anche il desiderio che aveva di servire Dio nel ritiro e nella penitenza. Ritenne, quindi, opportuno farlo ammettere al noviziato del convento di Nostra Signora di Salceda, fondato dal P. Pietro da Villacreces, con il consenso di S. Pietro Regalado (+1456), favorevole all’introduzione della stretta osservanza nella Spagna. Dio, però, permise ancora una volta che i francescani lo ritenessero un esaltato perché, con rinnovato ardore, aveva ripreso a digiunare e a praticare penitenze fuori dell’ordinario.
Il beato sopportò la nuova prova con rinnovato coraggio. Senza lamentarsi, si limitò a dire: “Ritengo che la mia vocazione sia quella di essere religioso, con o senza l’abito”. Sentendosi mosso da Dio a non interrompere le preghiere e le penitenze, si ritirò sopra un monte dei dintorni, da cui discendeva per catechizzare i poveri e ricevere con loro pane e minestra alla porta del convento. Un giorno, per rivestire un ignudo, si spogliò del proprio abito. I francescani gliene regalarono allora uno simile a quello che indossavano i fratelli oblati. Il beato li ricompensò di tante generosità andando per le campagne a fare la questua per loro. I figli del poverello d’Assisi non tardarono a vedere in lui l’uomo che viveva secondo lo spirito di Dio. Decisero, quindi, di riaprirgli le porte del noviziato e, dopo l’anno di prova, ammetterlo alla solenne professione dei voti con il nome di Fra Giuliano di S. Agostino, in qualità di fratello laico. Il beato, riconoscente a Dio della grazia ricevuta, lavorò con più ardore alla propria santificazione proponendo di ubbidire sempre a tutti, inventando nuove mortificazioni e dandosi alla preghiera il più frequentemente possibile.
Poco tempo dopo la professione religiosa, i superiori assegnarono Fra Giuliano come compagno di missioni al P. Francesco de Torres, il quale dimorava nel convento di Alcalà de Henares (Madrid), già santificato dalla presenza di S. Diego (+1463). La vita esemplare, penitente e pia dell’umile fraticello fu sovente più eloquente ed efficace delle prediche del missionario itinerante. In seguito, per un po’ di tempo, Fra Giuliano fu mandato a fare la questua nel convento di Nostra Signora della Speranza di Ocana, ma non tardò a fare ritorno nel convento di Alcalà, dove trascorse il restante della vita, interessandosi delle necessità dei malati e dei poveri, parlando loro non solo della felicità del Paradiso, ma esortando nello stesso tempo i ricchi a soccorrerli con abbondanti elemosine.
Fra Giuliano, nel corso della sua vita religiosa, si distinse per la rigorosa osservanza della regola e la pratica di tutte le virtù, ma soprattutto per il suo spirito di orazione. Ovunque si trovava pregava. Si rivolgeva a Dio con tale ardore da essere costretto talvolta a spogliarsi dell’abito, in pieno inverno, per refrigerarsi il petto. I confratelli più volte lo videro in estasi e sollevato per aria. Sovente amava passare la notte in chiesa prostrato in adorazione e contemplazione di Gesù sacramentato. Quando si sentiva oppresso dal sonno, prendeva un po’ di riposo appoggiato o a un muro oppure a un confessionale. Pregava per le necessità della Chiesa e di tutta l’umanità, per gli eretici, i peccatori e i mori, in quel tempo molto numerosi specialmente nel meridione della Spagna. Nel corso delle sue questue con i suoi buoni esempi e le sue pie esortazioni, ne convertì diversi. Quando, a motivo della questua, era costretto a prendere alloggio in casa di benefattori, preferiva trascorrere la notte in preghiera in aperta campagna, nonostante le intemperie della stagione. Dio più volte lo preservò dalla pioggia o dalla neve che gli cadeva attorno. Non si comprende come abbia fatto Fra Giuliano a svolgere per tutta la vita il compito di fraticello e, nello stesso tempo, praticare tante dure penitenze. Sull’esempio di S. Francesco non si accontentava di osservare la più rigida povertà evangelica, ma praticava pure come lui, nel corso dell’anno, le sette quaresime. Sovente si flagellava con catenelle di ferro armate di punte aguzze. Con il permesso del confessore per 24 anni portò ai fianchi una catena di ferro del peso di diciotto libre. Se ne liberò una volta soltanto nel corso di una grave malattia. Era molto avveduto nel nascondere le proprie austerità per evitare la stima degli uomini.
Quando, perciò, durante la questua, qualche monello gli tirava sassi o gli dava la baia, interiormente egli ne era molto felice perché si considerava l’uomo più vile e miserabile della terra, degno di tutti i tormenti, anche dell’inferno. Il demonio cercò di distogliere Fra Giuliano da tante penitenze, che faceva per la conversione dei peccatori, apparendogli sotto orribili forme, facendogli piovere addosso una grandine di sassi, spaventandolo con strani rumori o spingendo il superiore a riprenderlo di colpe che non aveva commesse, ma egli fu tetragono a tutte le insidie del maligno.
Dio ricompensò il suo fedele servitore con diversi doni soprannaturali, tra cui quello della profezia e della scienza infusa. I dottori della famosa università di Alcalà ne erano al corrente. Più volte lo andarono, quindi, a consultare sulle più difficili questioni e sempre se ne tornarono meravigliati delle sue risposte. Persino la regina Margherita, consorte di Filippo II (fl624), re di Spagna, desiderò vederlo per parlargli e raccomandarsi alle sue preghiere, tanto grande era la fama dei miracoli che Dio operava per intercessione sua a beneficio dei malati e dei bisognosi. Egli, però, li attribuiva all’intercessione dei santi, oppure alla corona del rosario che aveva formato con i chiodi tolti da una cassa in cui era stata riposta la salma di S. Diego.
Dio concesse a Fra Giuliano potere anche sugli animali e sugli elementi di questo mondo. Un giorno, durante la questua, incontrò sulla via alcune coppie di giovani che si davano a pazzi balli. Il beato li invitò a seguirlo in una chiesa vicina perché intendeva spiegare loro la maniera di impiegare un po’ meglio il tempo, ma essi non gli diedero ascolto. Si rivolse allora agli uccelli. A un suo cenno gli fecero cerchio torno torno. In casa di un benefattore, a Torrejón, il beato ridiede la vita ad alcuni uccellini che erano stati uccisi e messi, contro la sua volontà, nello spiedo.
A Retortilla s’imbattè in un pastore che teneva tra le braccia un agnellino di due mesi. Glielo avevano ucciso con una sassata. Mosso a compassione gli si avvicinò e poi esclamò: “Agnellino, Dio venga in tuo aiuto!”. All’istante la bestiola ritornò in vita e corse in cerca della madre. Ad Argenda, mentre godeva dell’ospitalità di un benefattore, vide che la moglie di lui stava per infornare il pane. Gli venne allora in mente di darle la tonaca perché la mettesse nel forno prima del pane onde si pulisse delle macchie di cui era coperta. Sbalordita, la donna gli fece notare che la tonaca, a contatto del calore, in un attimo sarebbe stata ridotta in cenere, ma Fra Giuliano la tranquillizzò dicendole: “Non temete nulla; vedrete che essa si pulirà subito senza il minimo danno”. E così avvenne.
Il beato non poteva avere una vita lunga per le penitenze che faceva e le fatiche alle quali quotidianamente si sottoponeva. Durante la sua ultima questua fu assalito da una febbre molto violenta. I suoi amici avrebbero voluto trasportarlo al convento di San Diego, ma egli, per non venire meno alla consuetudine, volle farvi ritorno a piedi. Due giovani lo vollero accompagnare tenendo per le estremità un lungo bastone al quale il malato si appoggiò strada facendo.
Fra Giuliano morì 1’8-4-1606. Il suo corpo rimase esposto per diciotto giorni alla venerazione dei fedeli perché, invece di corrompersi, si conservò flessibile ed emanò un soave profumo. Fu seppellito in una cappella che fu chiamata subito di San Giuliano. Leone XII lo beatificò il 6-5-1825 per i grandi miracoli che operava. Dopo la soppressione degli Ordini religiosi in Spagna, nel 1835, le reliquie del beato furono traslate nella chiesa dei Padri Gesuiti, detta la magistrale di Alcalà.
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 4, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 124-128.
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