Nacque nel 1304 da una ricca famiglia di Siena, e divenne ben presto agiato mercante di lana, tessendo un’ampia rete di rapporti commerciali che lo portarono ad entrare nel governo della città. Seguì un felice matrimonio, allietato da due figli. Ma una occasionale lettura della vita di una S. Maria eremita in Egitto gli procurò una profonda crisi spirituale, una svolta di vita decisiva. Il governo di Siena decise di allontanarlo come pericoloso, ma lui si trasformò “bandito dagli uomini in banditore di Dio” utilizzando l’esilio per diffondere il suo richiamo al radicalismo evangelico. Morì in pace con la Chiesa dopo esserne stato fieramente perseguitato.
È una gloria di Siena con il B. Bernardo de' Tolomei (+1348), fondatore della Congregazione di Monte Oliveto Maggiore dell'Ordine Benedettino, e con S. Caterina, Terziaria Domenicana (+1380). Il Colombini vi nacque verso il 1304 da una di quelle nobili famiglie che, escluse dal governo nel 1270, si erano date al commercio dei tessuti di lana. Suo padre, Pietro, aveva fondato un ospedale e più volte aveva preso parte al governo municipale. In gioventù poco studiò. In una lettera si qualificò "idiota", cioè, ignorante. Nel 1343 sposò Biagia, della nobile famiglia dei Cerretani, dalla quale ebbe due figli.
Non pare che Giovanni abbia preso parte al governo della città. Con due soci, egli era alla testa di un grande magazzino di stoffe con succursale a Perugia. Attaccato ai soldi, era circospetto nei suoi affari e duro con i poveri. Un giorno del 1353 egli andò a casa per mangiare alla svelta un boccone e ritornare al negozio. Non avendo trovato la tavola apparecchiata, cominciò a inveire contro la moglie e la persona di servizio, perché lo costringevano a perdere un tempo prezioso. La moglie gli disse con dolcezza: "Tu hai troppa roba e poca spesa: perché ti affanni tanto?
Mentre io preparo le vivande, prendi questo libro e leggi un poco". Era una raccolta di Vite di Santi. Giovanni avrebbe voluto gridare: "Al diavolo queste leggende!" ed invece i suoi occhi caddero sopra la meravigliosa storia di S. Maria Egiziaca, la cortigiana divenuta amante della croce e penitente, e ne rimase così conquiso che non assaggiò cibo fino a che non ne ebbe terminata la lettura. Da quel giorno egli, già predisposto al pentimento dei suoi peccati dalla terribile peste nera che nel 1348 aveva spopolato l'Europa, prese a frequentare le chiese, a darsi all'orazione e a largheggiare nelle elemosine.
Per tenere in servitù il corpo, con il permesso della consorte, fece il voto perpetuo di castità e cominciò a trascorrere buona parte della notte in orazione e a dormire su panche e su casse anziché nel proprio letto. Per mortificarsi di più concepì pure il desiderio di essere del tutto povero e di andare a mendicare il pane per amore di Gesù Cristo. Con la sua vita penitente il Colombini esercitò un grande influsso sopra Francesco di Mino de' Vincenti, mercante pure lui. Con meraviglia di tutti anche egli prese a condurre una vita povera, a distribuire le proprie ricchezze ai bisognosi e a visitare frequentemente le chiese.
Il Colombini, dopo la morte del figlio dodicenne, fece della propria casa il rifugio dei malati. Ad essi lavava i piedi, dava da mangiare e procurava l'occorrente per vestirsi. La moglie, rimasta spiritualmente una mediocre, ogni tanto borbottava per tante opere di misericordia del marito, ma questi non esitava a dirle: "Tu pregavi Iddio perché diventassi caritatevole e virtuoso e ora ti dispiace se riparo la mia avarizia e gli altri miei peccati?". La moglie, mortificata, si limitava allora a sospirare: " Io pregavo che piovesse, non che venisse il diluvio!".
Per meglio conoscere la volontà di Dio, un giorno il Colombini andò a consultare un santo certosino, Pietro de' Petroni, il quale lo confermò nella predilezione per la povertà. Essendo a lui rimasta una figlia di tredici anni e a Francesco una di cinque, essi deliberarono di collocarle presso le monache di Santa Bonda (1363) in Siena, per essere in grado di condurre vita comune. Il Colombini dei suoi 10.000 fiorini ne lasciò una parte all'ospedale cittadino di Santa Maria della Scala, una parte al rettore della Compagnia della Vergine Maria a condizione che provvedesse del necessario Biagia per tutta la sua vita, e un'altra parte al monastero di Santa Bonda, a condizione che la badessa, Paola Foresi (+1390), vi mantenesse sei povere fanciulle e le ammettesse alla vita monastica senza dote.
Per vivere Francesco e Giovanni si misero a mendicare a piedi scalzi e a capo scoperto, a servire gli ammalati, a seppellire i morti, a prestare a tutti i servizi più pesanti e più umili. In punizione delle passate raffinatezze del vitto e nel vestito si cibavano di cibi grossolani e indossavano una stretta gonnella e un rozzo mantello corto. Avevano capito che per diventare saggi dovevano farsi stolti.
Per oltre due anni essi rimasero soli, in seguito, però, con la loro santa vita, s'imposero talmente all'ammirazione dei concittadini che diversi peccatori abbandonarono i loro vizi, e alcuni uomini si unirono ad essi per lodare pubblicamente il nome di Gesù. Perché sia il Colombini che i suoi compagni, quando predicavano la penitenza o pregavano, avevano continuamente in bocca l'adorabile nome del Salvatore, il popolo cominciò a chiamarli "Gesuati".
Quando Giovanni e Francesco ricevevano qualche novizio, lo conducevano sulla Piazza del Campo, davanti ad una Madonna, lo spogliavano dei suoi abiti, lo rivestivano di poveri panni e, tenendo in capo e nelle mani fronde di ulivo, cantavano delle laudi. Per fortificarlo nell'umiltà talora lo conducevano per la città, montato sopra un asino e volto all'indietro, e ogni tanto gridavano: "Viva Gesù!" oppure "Sia lodato Cristo!". Altre volte gli legavano le mani dietro la schiena, gli mettevano un capestro alla gola e lo conducevano per le vie della città dicendo: "Fate orazione per questo peccatore, pregate Iddio che lo renda forte".
Il Colombini era convinto che per trovare e seguire Cristo la via migliore e più sicura era quella dell'umiltà. Diceva infatti ai suoi discepoli: "Che il Cristo vi faccia diventare folli! Non c'è niente di meglio.
Più noi ci allontaniamo dall'onore, più ci avviciniamo a Cristo". Per questo, andando una volta a Montecchiello, quando furono vicini alle terre che aveva donato al monastero di Santa Bonda, per riparare gli scandali che aveva dato, volle che i suoi compagni gli mettessero una corda al collo e poi lo tirassero semivestito da un paese all'altro gridando: "Ecco colui che vi voleva affamare, che v'imprestava ogni anno il grano vecchio, roso dalle tignole, e poi rivoleva il nuovo, più buono del comune, e desiderava che valesse un fiorino lo staio".
Feo Belcari, che del Colombini scrisse una bella vita, gli attribuisce numerose conversioni sia con l'infuocata sua predicazione sia con i miracoli che sovente faceva nel nome di Gesù. Era tanto convinto dell'efficacia di questo nome che ai suoi discepoli diceva: "Oh, non dormiamo, gridiamo giorno e notte per le vie e per le piazze il nome di Cristo benedetto. Andiamo all'inferno, se occorre, per ricordarlo e onorarlo. Tutto il mondo ci va perché non lo ricorda. Andiamoci gridando e benedicendo il santissimo nome di Gesù. Non si stanchino le lingue, non si sazino i cuori di gridare Cristo crocifisso… A Gesù Cristo onore e gloria, a noi vergogna e vituperio".
I gesuati o Poveri di Cristo, tutti laici, per alcune originalità di vita furono sospettati di eresia e denunziati all'Inquisizione. Le autorità cittadine ne furono infastidite, perciò li esiliarono. Molte città dei dintorni, come Arezzo, Città di Castello, Lucca, Montalcino, Pisa, Firenze e Pistoia, poterono così conoscere e apprezzare la santità del Colombini e dei suoi discepoli. Alla loro predicazione centinaia di peccatori si convertirono e molte inimicizie furono composte. Erano tante le elemosine in denaro e vestiti che il popolo, riconoscente, faceva loro che furono costretti a rifiutarne buona parte.
La principale preoccupazione del Beato era di conservare quanti lo seguivano nell'umiltà. Diceva infatti ad essi: "Dio ha seminato in noi seme di buona operazione. Se questo seme nasce, cresce e si moltiplica, non ce ne dobbiamo gloriare, perché non è nostro. Per noi medesimi non possiamo fare alcun frutto, ma gloriamoci in Gesù Cristo…". Era suo costante desiderio che i suoi discepoli vivessero il più perfettamente possibile.
Così infatti li ammoniva: "Dogliamoci, piangiamo e facciamo aspra vendetta di noi medesimi, perché se non avessimo altro peccato che quello dell'ingratitudine e dell'aver disprezzato e quasi rifiutato Iddio, dobbiamo cercare di morire per lui mille volte, se fosse possibile. Ognuno dovrebbe avere un cuore di Icone per sostenere ogni cosa per amore di Cristo crocifisso". Quanto egli amasse il Signore lo fece vedere il prodigio che si operò in lui la sera che andò ad alloggiare nell'ospedale di Arezzo. Mentre si sbottonava la veste per prendere un po' di riposo, gli si sprigionò dal petto una luce così viva che la sala dell'ospedale ne rimase illuminata.
Quando il Colombini fu richiamato in patria dai senesi, pentiti e sgomenti per la peste che li aveva colpiti, forse come castigo dell'ingiusto esilio a lui inferto, egli pensò alla fondazione di un monastero di Povere Gesuate della Visitazione della Madonna. Chiese in quest'opera l'aiuto di sua cugina, Caterina Colombini. Era tanto convinto che la povertà e il distacco dalla terra costituivano la via più sicura per giungere alla santità che diede loro un fine contemplativo. Frattanto continuò a interessarsi delle Benedettine di Santa Bonda che aveva ridotto alla vita comune. Quando andava a trovarle per rivolgere loro esortazioni all'amor di Dio e del prossimo, a stento riusciva a trattenere le lacrime tant'era la consolazione che ne provava. Con la sua predicazione e l'esempio di tutte le virtù ottenne che i Domenicani di Camporeggi si privassero del superfluo a beneficio dei bisognosi, e diversi di loro vestissero il cilicio in penitenza dei loro peccati.
Nel 1367 si sparse la voce che il papa, il B. Urbano V (+1370), da Avignone stava per giungere in Italia, che era allora preda delle ambizioni dei principi italiani, in seguito alle suppliche dei romani e agli appelli di Francesco Petrarca (+1374) e più ancora di S. Caterina da Siena.
Quando il papa sbarcò a Corneto, il Beato andò a ossequiarlo insieme con una settantina di discepoli. Egli sapeva che, per il concetto che aveva della povertà e per la maniera di comportarsi, certi prelati lo guardavano con sospetto. Per non correre il rischio di essere considerato un eretico o un "fraticello" qualunque, capiva che era indispensabile ottenere l'approvazione del papa. A Viterbo i Gesuati furono esaminati dal cardinale di Marsiglia, maestro di teologia, e trovati immuni da errori. Allora Urbano V concesse loro udienza e, dopo averli interrogati sul loro genere di vita, li liberò da ogni sospetto, li fece rivestire a proprie spese di talare bianca, cappuccio bianco quadrato, mantello grigio e dette loro come protettore il cardinale di Avignone, suo fratello. Per allora non furono costretti a seguire un determinato regolamento. Solo nel 1426 adottarono la regola di S. Agostino e osservarono le costituzioni compilate dal B. Giovanni di Tossignano, priore dei Gesuati di S. Girolamo di Ferrara. Il papa li esortò soltanto a vivere non tutti insieme, per evitare la confusione, ma sparsi in diversi luoghi con il beneplacito dei vescovi.
Il Colombini, già prostrato dai digiuni e dalle fatiche, riprese giulivo la via di Siena, ma a Bolsena fu sorpreso da una febbre che andò via via aggravandosi. I suoi discepoli avrebbero voluto trasportarlo vivo al monastero di Santa Bonda, ma quando giunsero all'abbazia del SS.mo Salvatore presso Acquapendente, fu loro impossibile proseguire il viaggio. Il fondatore ricevette gli ultimi sacramenti e poi, tra l'altro, disse a quanti gli stavano d'attorno: "Ogni vostro pensiero, ogni vostro discorso e ogni vostra azione sia sempre per onorare Gesù Cristo. Abbiate sempre il suo santo Nome nel cuore e sulla bocca, in tutto quello che voi fate".
Morì il 31-7-1367 e fu sepolto, secondo la sua volontà, nel monastero di Santa Bonda. Il Colombini non fu beatificato ufficialmente, ma Gregorio XIII volle che fosse iscritto nel Martirologio Romano, e Paolo V concesse la Messa e l'Ufficio alla diocesi di Siena e ai Gesuati, i quali, dopo una notevole fioritura in Italia e a Tolosa (Spagna), furono soppressi nel 1668 da Clemente IX perché, a causa delle ricchezze, erano decaduti dal primitivo fervore.
E' fama che il Beato abbia composto molte "laudi". Di lui ci sono rimaste 114 lettere, scritte specialmente per le monache di Santa Bonda. Esse sono ripiene di disprezzi per sé, di distacco dai beni della terra e di ardentissimi desideri di amore di Dio e del prossimo.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 7, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 330-335
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