La Bonomo trascorse un’infanzia molto edificante, poco interessata alle belle vesti o ad altre vanità. Ogni mattina si recava in parrocchia ad ascoltare la Messa. Ogni giorno recitava l’Ufficio della B. Vergine. Dio le aveva concesso di comprendere la lingua latina e di parlarla come se l’avesse studiata. Le aveva pure dato una grande intelligenza dei divini misteri motivo per cui era in grado di spiegarli ai bambini del vicinato o ai poveri che soccorreva nelle loro necessità.
Questa grande mistica benedettina nacque il 15-8-1606 ad
Asiago (Vicenza) da Giovanni, ricco mercante, e Virginia dei Ceschi di Santa
Croce. Fu battezzata mentre si trovava ancora nel seno materno perché la
nascita si preannunciava molto difficile. Nella supposizione che fosse una
femmina, ricorrendo la festa della Madonna, le fu imposto il nome di Maria. Il
babbo fece voto di pellegrinare alla santa Casa di Loreto se fosse nata viva.
Della figlia ebbe cura soprattutto la madre poiché il padre era sovente fuori
di casa per la mercatura. Le storie ci dicono che era di temperamento iracondo.
Nel 1610 egli giunse a colpire con un pugnale per gelosia il suo presunto
rivale. Non sappiamo quanto tempo rimase in carcere. Un giorno la moglie sentì
dirsi dalla figlioletta alla quale aveva insegnato molto presto a pregare.
“Cara madre, rasserenati, il babbo tornerà presto”. La mamma pensò
che la figlia le parlasse di un bel sogno fatto, ma ella ribattè: “Ho
veduto che è stato liberato e presto sarà qui con noi.” Non era ancora
spuntato il giorno che il babbo già bussava alla porta di casa. Da chi la
piccola Maria lo aveva appreso? Giovanni e Virginia ebbero ancora 3 figli, ma
non vissero a lungo. Maria dirà della madre: “Pareva più religiosa che
secolare. Vestita di nero, divideva il suo tempo tra le faccende e gli esercizi
di pietà”. Morirà di febbri maligne dopo aver raccomandato al marito di
dare alla figlia “ogni comodo di consacrarsi a Dio”. Dalla casa di
campagna dove era stata mandata la Beata vedrà la mamma salire al cielo
benedicente, avvolta da una splendida nuvola.
La Bonomo trascorse un’infanzia molto edificante, poco
interessata alle belle vesti o ad altre vanità. Ogni mattina si recava in
parrocchia ad ascoltare la Messa. Ogni giorno recitava l’Ufficio della B.
Vergine. Dio le aveva concesso di comprendere la lingua latina e di
parlarla come se l’avesse studiata. Le aveva pure dato una grande intelligenza
dei divini misteri motivo per cui era in grado di spiegarli ai bambini del
vicinato o ai poveri che soccorreva nelle loro necessità.
Il padre, non essendo in grado di
educare la figlia, nel mese di marzo 1615 la mise in collegio a Trento nel
monastero di Santa Chiara. Con le figlie di San Francesco la Beata imparò
subito la maniera di comportarsi in chiesa, nel laboratorio e in refettorio,
oltre che a cantare, a suonare “la. violetta” e a ricamare. Non aveva
ancora fatto la prima comunione, eppure di notte fu vista alzarsi e andare a
inginocchiarsi davanti al cancello che dava sul coro, insensibile al sonno e al
freddo. Scopri presto in sé l’aspirazione alla vita contemplativa e penitente.
Al confessore chiese perciò il permesso di essere ammessa alla mensa
eucaristica senza aspettare l’età canonica. Il giorno in cui fu accontentata le
parve di essere in paradiso, e si sentì ispirata dalla Madonna a fare il voto di
verginità.
Il babbo nel frattempo si era risposato (1617) ed aveva
avuto una figlia di nome Margherita, Maria sognò allora di starsene sempre in
monastero, ma quando, dodicenne, chiese il permesso di prendere il velo di
Santa Chiara il babbo andò a riprenderla col pretesto di farle conoscere prima
un po’ il mondo. Le propose persino un buon partito, ma ella lo rifiutò perché,
per la quiete del suo spirito, non voleva avere altro sposo che Cristo Gesù. A
Bassano del Grappa (Vicenza), nel monastero benedettino di San Girolamo, i
Bonomo avevano due o tre parenti. Il padre, memore della raccomandazione della
moglie, affidò la figlia alle loro cure. Nell’attesa di essere ammessa, a
quindici anni, al noviziato, Maria, prevenuta dalla grazia, intensificò le sue
preghiere, prese a digiunare, a flagellarsi con la disciplina della corda a
nodi e a stare lunghe ore in silenzio.
Nell’osservanza monastica la Beata si sentiva trascinata
con tanta gioia da un atto all’altro che bisognava moderarla. Grandissima
dolcezza provava prima in bocca e poi nel cuore quando faceva la comunione. Un
giorno, racconta nelle sue memorie, mentre si preparava ad accostarsi alla
mensa eucaristica, vide Gesù comparirle luminoso innanzi, mettersi in ginocchio
e dirle: “Cara mia sposa, ti prego di amarmi”. Anche in coro una
volta le era venuto vicino, le aveva insegnato a fare l’orazione mentale e le
aveva posto nella mano destra tre chicchi d’oro che si erano fusi subito in un
solo anello, sigillo della Santissima Trinità. Un’altra volta fu portata in
Paradiso, davanti al trono di Dio, attorno al quale si aggiravano in forma di
vaghissime corone tutti i nove cori degli angeli. Da ciascun coro un angelo
volò a lei, e così quei nove spiriti la presentarono e la offersero a Dio in
nome di tutti i cori. Il Signore gradì quel gesto. Ordinò infatti agli angeli
che le comunicassero le loro virtù.
L’8-9-1621 all’inizio dell’anno di noviziato, Maria
indossò l’abito nero della penitenza. Volle chiamarsi Suor Giovanna Maria. Mirabili
furono i progressi che fece nella virtù. Dio si compiacque di lei. Mentre nel
giorno della sua professione leggeva la carta da mettersi poi sull’altare, egli
le apparve in compagnia della Madonna, di S. Benedetto, di vari santi e angeli
nell’atto di metterle al collo tre bellissime catene che lei avrebbe adornato
di pietre preziose, perle e smalti con l’esercizio dei tre voti.
Mentre lo straordinario l’avvolgeva, la B. Giovanna sentiva
ridestarsi nell’anima “con grandi eccessi di amore, desideri grandissimi
di patire”. Una mattina, dopo la comunione (1622), “si vide condotta
ai piedi di Cristo” perché ne contemplasse le sofferenze e comprendesse
l’abisso del proprio nulla, capace di tanti peccati senza la divina grazia.
Nella quaresima del 1623, dopo la comunione, le apparve il suo Diletto con uno
stendardo in mano. Facendole un segno in fronte le disse: “Vittoria!
Vittoria! Già sei mia, ne permetterò che altri vi abbia parte”.
Il padre, timoroso della povertà e della solitudine della
figlia, ogni tanto l’andava a trovare e le portava i prodotti delle sue terre.
La figlia gli dimostrava la sua riconoscenza scrivendogli lettere piene di
affetto e soprattutto di santi consigli. Ogni tanto gli raccomandava per amore
di Dio “a voler attendere all’anima… e a lasciare andare ogni altra cura
e travaglio di roba e ogni al tra cosa di questo misero mondo”. Le
raccomandazioni della figlia furono bene accolte dal padre. Difatti, nella
peste che desolò Asiago nel 1632, Giovanni fu infermiere volontario e
soccorritore dei poveri con le sue sostanze, prima di trasferirsi a Vicenza con
la figlia Margherita, andata sposa al conte Pagello.
Alla considerazione della Passione del Signore la Bonomo,
non contenta di osservare alla perfezione la regola di S. Benedetto, si era
data a prolungate preghiere in coro, a digiuni estenuanti e a flagellazioni
sanguinose. Dio la ricompensò con la transverberazione del cuore e il bacio
d’amore, e un crescente contatto con il soprannaturale mediante una sbalorditiva
varietà di forme.
Un giorno il Signore le mostrò il proprio cuore con una
croce intagliata nel mezzo, e la invitò a passare per altre pene perché
meritasse lei pure lo stesso dono. Dal 1631 ella cominciò a rivivere in estasi
tutte le fasi della passione del Signore dalla sera del giovedì, alla sera del
venerdì o del sabato. Il monastero era messo a soqquadro da tali fenomeni che
la sorprendevano magari durante un atto comune. In quei giorni, pur standosene
immobile, conosceva quello che avveniva altrove. In cella recitava a voce alta
l’Ufficio Divino come se si trovasse in coro. Con chi alternava i versetti?
Alcune consorelle dicevano che era folle, la beata invece si considerava un
“mostro”, colma di miserie e di imperfezioni senza numero. Scrivendo
al padre gli raccomandava di continuo di pregare per lei. La sera di un venerdì
del 1632, mentre meditava la Passione del Signore fu investita da un sovrumano
crescendo di dolore. Sollevata in aria, con le braccia aperte e i piedi
incrociati, si sentì ferire da cinque raggi che uscivano dalle cinque piaghe di
Gesù crocifisso. Trasformata in una vera copia dell’uomo dei dolori fu visitata
da un corteo nuziale composto dalla Madonna, dodici profeti, dodici apostoli,
dodici fondatori di ordini, dodici angeli. Il Cristo la fece sua sposa
mettendole nel dito un anello d’oro.
Nel monastero di San Girolamo continuavano a correre
strane voci sul conto di Suor Giovanna Maria. Suo padre, che a Vicenza si era
iscritto all’Oratorio”, una specie di associazione segreta per la visita
ai malati e il soccorso ai poveri, ed era divenuto la persona di fiducia delle
monache, ne fu avvertito dalla badessa, donna Gabriella Malipiero, nel mese di
febbraio 1635. Poiché ogni tanto la beata veniva sorpresa in estasi temeva che
fosse data in mano all’Inquisizione e che il vescovo di Vicenza, Mons. Luca
Stella, ordinasse un’inchiesta d’ufficio. Ella non dubitava della virtù della
suddita, la quale, del resto, temeva di passare per santa e pregava giorno e
notte per ottenere che le sue mani guarissero per poter lavorare come prima in
cucina, nell’infermeria, nel ricamo, nella pittura, nell’assistenza alle
educande. Tanto la badessa che il confessore del monastero decisero per il
momento di non dare importanza né alle estasi, né alle critiche degli scettici.
Fuori del monastero però si venne presto a conoscenza
delle estasi alle quali Suor Giovanna Maria andava soggetta e delle stigmate da
cui era stata segnata. Fu quindi un accorrere a San Girolamo di curiosi desiderosi
di saperne di più e di vedere “la santa” . La visita vescovile che ne
seguì causò soltanto, nel 1638, la sostituzione del confessore. Don Alvise
Salvoni, più colto e più esigente del predecessore prese a studiare
attentamente il caso senza precipitazione.
Dopo due anni di ininterrotte suppliche, alla beata fu
possibile vivere le giornate come le altre monache nell’osservanza comune. Le
stimmate le si erano fatte scure, opache e secche. Di notte però continuava a
rivedere le varie scene della Passione. E allora ecco il confessore confermarla
nella cattiva opinione che lei aveva di se stessa, ordinarle di andare di cella
in cella, con una corda al collo, senza dire nulla; di inginocchiarsi alla
porta del refettorio di chiedere a tutte le consorelle una preghiera; di andare
per il monastero con una vecchia cesta in capo saltando e dicendo: “Ecco
la matta”. La beata ubbidì. Quel gesto le attirò le ire del demonio che
prese a perseguitarla ovunque si trovasse con battiture, urti misteriosi,
brutti gesti, cattivi odori e con apparizioni sotto forma di animali schifosi o
feroci. Da quegli assalti maligni fu liberata per intercessione di S. Gaetano
da Thiene tra il 1639 e il 1640. Dopo che l’angelo custode per tre mesi le si
era fatto vedere giorno e notte, la Madonna le era apparsa e l’aveva rivestita
di una lunga veste battesimale a difesa della sua virginità.
Alla porta del monastero ricominciò il via vai dei curiosi
e dei bisognosi che chiedevano quasi con arroganza di vedere la
“santa”, la monaca dei miracoli. In un primo tempo Suor Giovanna si
prestò volentieri a scendere in parlatorio tutte le volte che la badessa ve la
mandava, e a scrivere lettere a chi si raccomandava alle sue preghiere o era in
grado di aiutare i poveri. In seguito cominciò prima delle altre a sentire il
disagio di quella situazione strana, poco conforme alle regole della clausura.
Le sue relazioni con gli uomini, che pure la turbavano, divennero prodigiose.
Tante volte si bilocò in paesi lontani, tra gente sconosciuta, accanto ai
malati, ai pericolanti, ai bisognosi. Per questo era sulla bocca di tutti. Lei
però ne provava grandissima confusione.
A San Girolamo, per fare cessare il gran disordine che ne
era sorto, si pensò di trasferire la beata in un altro monastero, magari tra le
cappuccine. Quattro monache, invece, molto sbrigative, preferirono denunciarla
alla curia già al corrente di tutto. Il vescovo, Mons. Marcantonio Bragadin,
più tardi cardinale, ordinò al suo Vicario di fare la visita canonica al monastero
il 21-9-1643, di proibire alla beata di scrivere lettere e di andare alla porta
per parlare con i visitatori. Con i parenti più stretti soltanto avrebbe potuto
parlare, ma alla grata. Confessore della comunità fu nominato Don Domenico da
Veggia di Bassano, ignaro di teologia e di psicologia, eppure fornito di ampie
facoltà correzionali di cui abuserà, allontanando troppo frequentemente la
beata non solo dal confessionale, ma anche dalla mensa eucaristica.
Per tenere nell’umiltà la visionaria, l’imprudente
confessore ordinò alle monache di recarsi in processione al loro camposanto e,
fatto cerchio attorno alla Bonomo distesa per terra a lato di una fossa, di
recitare per intero l’Ufficio dei Morti. Venuto a conoscenza di simili affronti
il padre avrebbe voluto andare a protestare presso il vescovo, ma la figlia gli
scrisse: “Quando le viene alcun pensiero e pena per causa mia, pensi che
io bramo di patire, e che nessuna di queste cose mi mortifica, anzi le ritengo
una grazia… Mi creda, di certo, che non mi dorrei di cosa alcuna, se non di
morire senza patire”. Quando sentiva critiche nei suoi riguardi immaginava
di udire la più soave delle musiche. Quando le consorelle si dimostravano
gelose della predilezione da lei mostrata per le quattro sue persecutrici,
diceva: “Sorelle care, insegnatemi a fare orazione anziché a
vendicarmi”.
Benché il vescovo non tenesse in considerazione le sue
visioni, la beata continuò ad essere favorita da Dio di estasi e bilocazioni.
Il confessore se ne infuriò fino al punto di proibirle di pregare per
specifiche intenzioni. Fu obbedito, ma non riuscì a farla finita con le
apparizioni a distanza e le altre supposte stregonerie. In parlatorio non si
faceva che chiedere di lei perché correva voce che fosse apparsa persino in
casa di secolari. Per tutta risposta alla Bonomo fu proibito nel 1645 di
scrivere perfino al padre e di comparire, cascasse il mondo, alle grate.
Nell’angolo buio in cui fu gettata, la Bonomo resterà sette anni in lieta
sottomissione alla volontà di Dio senza più il timore di morire senza patire.
Dopo la nuova punizione la perseguitata fu assalita da febbri violente,
idropisia, flusso di sangue e una specie di lebbra, ma una notte le apparve il
Signore, la risanò e l’affidò alle cure di un serafino che, di quando in
quando, le appariva e con un dardo d’oro la feriva al cuore procurandole dolori
e gaudi inesprimibili.
Suor Giovanna Maria superò la prova così bene che, nel
1652, dopo essere stata maestra delle novizie e delle educande, la curia di
Vicenza permise fosse eletta badessa del monastero, e riprendesse la
corrispondenza con il padre. L’eletta si sentì incapace al compito, ma lo
accettò per l’amore che portava alle consorelle di cui conosceva persino l’ora
della morte. E con la Regola di S. Benedetto in mano, si sforzò di fare tra
loro le veci di Cristo. Girò in tutte le celle chiedendo che le si desse il
superfluo da distribuire ai poveri, bandì dal refettorio le suonate di violino
e fu severa per il silenzio. Lei poi giungeva per prima a tutti i doveri e
dappertutto si trovava a dare una mano: in cucina, nella lavanderia,
nell’infermeria, nell’orto, ai telai delle ricamatrici e soprattutto in
parlatorio dove avevano ripreso ad accorrere giusti e peccatori, sani e malati,
nobili e plebei, prelati e militari. Benché il monastero fosse gravato da
debiti e avesse bisogno di restauri, con la nuova badessa ebbe subito molto da
fare per i bisognosi: cuocere il pane, distribuire il grano, confezionare
abiti. E il monastero da quando cominciò a sfamare un bel po’ di gente non
mancò più di nulla.
Ogni mattina la intraprendente badessa recitava con le
consorelle cinque Pater Noster per la perseveranza dei giusti, la
conversione dei peccatori, la buona morte degli agonizzanti, il sollievo degli
afflitti e delle anime del Purgatorio, e ogni giorno le preparava al Mattutino
della notte seguente spiegando loro il significato dei Salmi e parlando sovente
della Passione del Signore. Sotto la sua guida le cose andarono “con gusto
e pace di tutte”, il monastero pagò i debiti e si ingrandì anche con gli
aiuti ricevuti dal padre, morto piamente il 16-1-1653 nella villa che possedeva
nei pressi di Monte Berico.
I lavori di ampliamento del monastero accesero ancora una
volta la fantasia delle solite quattro monache irrequiete. Esse accusarono la
badessa presso la curia di sperpero di denaro. Fu fatta un’altra inchiesta, ma
si trovò che l’amministrazione non poteva essere più perfetta. La beata in
seguito fu eletta ancora una volta badessa nel 1664, poi non ebbe più alcuna
carica. Ne approfittò per stendere di nuovo, per ordine del confessore, le sue
memorie che per due volte aveva dato alle fiamme, per confezionare i suoi
“fioretti” da vendere, rose e garofani di pezza tinta, e ricevere
alla grata coloro che vi giungevano da tutte le parti per sottoporle i loro
dubbi e le loro necessità materiali e spirituali. Non per nulla i contemporanei
la chiamavano “la monaca dei buoni consigli”.
Col passare degli anni la Bonomo ebbe bisogno di una
gruccia per camminare. Facilmente perdeva la memoria. Un mese prima della morte
fu assalita da “crudelissima febbre con doglie e affanno”. Costretta
a rimanere a letto, si preparò alla morte prevista pregando, pensando alla
Passione del Signore e baciando le piaghe del crocifisso. Morì serena, dopo
avere ricevuto tutti i sacramenti, il 1 marzo 1670. Una folla enorme accorse a
venerarla nel coro del monastero. Tutti volevano una sua reliquia perché
esclamavano: “E una santa! E una santa!”.
Le ossa della defunta, collocate in un’urna, sono venerate
dal 29-6-1736 nella chiesa di San Girolamo, oggi non più popolata da
benedettine. Suor Giovanna Maria Bonomo fu beatificata da Pio VI il 2-6-1783.
___________________
Sac. Guido Pettinati
SSP,
I Santi canonizzati del
giorno, vol. 3, Udine: ed. Segno,
1991, pp. 12-19.
http://www.edizionisegno.it/