Gian Pietro nacque nel 1832 a Sainte-Catherine-sur-Riviere, nella diocesi di Lione. Dopo la prima comunione manifestò ai genitori il desiderio di farsi sacerdote. Felice di questa sua risoluzione la mamma gli fece apprendere le prime nozioni di latino presso il vicario d’Aubepin, e poi lo mandò nel seminario di Montbrison donde passò, per lo studio della filosofia, in quello d’Argentière. Mentre si preparava al sacerdozio il beato ebbe dal cielo l’ispirazione di farsi missionario. Durante le vacanze del 1855 fece domanda di essere ammesso nel seminario delle Missioni Estere di Parigi. Appena la sua richiesta fu accolta, nel mese di ottobre dello stesso anno partì per la capitale francese benedicendo Dio in cuor suo di poter attuare il Suo disegno.
Questo apostolo della Cina fa parte della gloriosa schiera dei beati martiri che le Missioni Estere di Parigi hanno donato alla Chiesa nell’opera di evangelizzazione dei popoli asiatici non ancora credenti.
Gian Pietro nacque nel 1832 a Sainte-Catherine-sur-Riviere, nella diocesi di Lione. Dopo la prima comunione manifestò ai genitori il desiderio di farsi sacerdote. Felice di questa sua risoluzione la mamma gli fece apprendere le prime nozioni di latino presso il vicario d’Aubepin, e poi lo mandò nel seminario di Montbrison donde passò, per lo studio della filosofia, in quello d’Argentière. In entrambi i luoghi Gian Pietro si rivelò, a unanime confessione dei superiori e dei compagni, uno studente calmo e mite, alieno da qualsiasi rumore tanto che faceva appena avvertire la sua presenza nella comunità.
Mentre si preparava al sacerdozio il beato ebbe dal cielo l’ispirazione di farsi missionario. Durante le vacanze del 1855 fece domanda di essere ammesso nel seminario delle Missioni Estere di Parigi. Appena la sua richiesta fu accolta, nel mese di ottobre dello stesso anno partì per la capitale francese benedicendo Dio in cuor suo di poter attuare il suo disegno. La madre, invece, ne provò tanta pena che cadde gravemente malata. Non le dispiaceva di donare suo figlio al Signore, ma avrebbe preferito averlo vicino a sé nel presbiterio di una parrocchia. Il figlio le scrisse in modo molto risoluto: “Mi ha fatto male il sapere che sei tuttora inconsolabile per la mia assenza… Povera madre! Quale follia ti ha dato alla testa? Tu, dunque, hai una troppo grande abbondanza, una troppo grande propensione di amore da non poterlo contenere: ma hai pure numerosi figli sui quali poterlo effondere. Possibile che sia tanto penosa la separazione momentanea da un figlio che il Signore t’ha richiesto per sé? Non torna questo utile a Lui come a tè’? E non ti accorgi che, cedendogli il figlio, tu fai un atto di carità? Se questo Dio, pieno di bontà, promette una ricompensa a chi saprà dare per amore suo un bicchiere d’acqua, quale ricompensa non devi riprometterti se saprai conformarti alla sua volontà? “.
In un’altra lettera il beato spiegò alla madre il motivo che lo spingeva a recarsi tra i popoli non ancora credenti: “Una sola di queste anime è più preziosa, è infinitamente più grande di tutto l’oro e di tutte le ricchezze della terra, perché tutte queste cose non sono costate a Dio che una parola, mentre quell’anima è costata le sofferenze e le ignominie della passione del suo diletto Figlio fino all’effusione di tutto il sangue”.
Quando, nell’aprile del 1858, Gian Pietro fu ordinato sacerdote scrisse a sua madre: “Prega perché Iddio mi conceda di ben comprendere e perfettamente adempiere i numerosi e gravi doveri inerenti a questo santo e augusto ministero, almeno quanto è possibile alla fragilità umana. Prega perché mi riempia con abbondanza di virtù apostoliche; perché possa ottenere quello zelo che trasporta, quella carità che consuma e infiamma il cuore dell’apostolo per la salvezza delle anime e la gloria del nome di Gesù. Pregalo, infine, perché benedica questo tuo figlio adesso e durante tutta la laboriosa esistenza che si apre davanti a lui”.
Il 29 agosto dello stesso anno il novello missionario s’imbarcò a Bordeaux per Canton dove giunse dopo sette mesi di navigazione. Con altri giovani sacerdoti e il P. Perny, superiore della missione, raggiunse la regione del Kouy-tcheou dopo molte soste e attraverso mille difficoltà derivanti dall’anarchia che regnava in Cina a causa della guerra scoppiata tra Francia e Cina. A Kouy-yang, capitale della provincia, studiò la lingua e gli usi cinesi con tale applicazione da ottenere, primo tra quattro, un distretto da evangelizzare. Con la sua dolcezza non tardò a cattivarsi l’animo dei credenti e dei non credenti.
Nel dicembre del 1861, Mons. Faurie, Vicario apostolico della regione, inviò Gian Pietro a visitare una famiglia di Kia-cha-long che era stata preparata al battesimo dai catechisti. Giunto al luogo designato, il missionario trovò nuove famiglie pronte a convertirsi e un certo numero di donne che desideravano conoscere la religione cattolica. I neofiti salirono ben presto a una cinquantina. Le autorità locali, allarmate, minacciarono di farle arrestare. Del resto, attestò Mons. Faurie: “Il generale Tien-Ta-jen, aveva inviato una lettera segreta a tutti i mandarini della provincia, eccitandoli a massacrarci ovunque ci trovassero, considerandoci come dei capi di ribelli e non come europei: solo a questo patto essi si sarebbero fatti un merito dinanzi a lui e avrebbero ottenuto una promozione”. Verso la metà del febbraio 1862, alcune spie o satelliti delle autorità civili, si videro aggirarsi per le vie di Kia-cha-long e nello stesso tempo il capo della guardia nazionale fece prendere e battere un neofita. Erano le prime avvisaglie di una imminente persecuzione. La domenica 16 febbraio il beato scrisse al proprio vescovo: “Dovevo mettermi in cammino domani per la capitale, ma ecco che il demonio viene a turbare la mia piccola stazione; io resto sul posto per sostenere i miei neofiti, il più anziano dei quali, Giovanni Tchang, mio ospite, è stato battezzato questa mattina”.
Martedì 18 febbraio, verso le ore sedici, un centinaio di guardie nazionali agli ordini dei mandarini a cavallo e in palanchino, entrarono nel villaggio e circondarono improvvisamente la casa di Giovanni Tchang, presso il quale alloggiavano oltre il missionario, i catechisti Martino Ou e Giovanni Tchen. Furono arrestati e ammanettati tutti e quattro. La figlia di Giovanni, donna energica, non ancora battezzata, cercò di opporsi lanciando riprensioni e menando le mani, ma il beato la rabbonì dicendole semplicemente: “Figlia, tacete: ciò non vi riguarda”. La casa ospitale fu allora abbandonata al saccheggio e il missionario, con i capelli legati alla coda di un cavallo, fu trascinato con gli altri tre prigionieri fino alla vicina città di Kay-tcheou.
Il B. Martino Ou era nato da genitori cristiani nel 1815. A vent’anni si era sposato, ma la moglie lo aveva abbandonato per vivere nel vizio a Kouy-yang. Il beato era ricorso a tutti i mezzi per ricondurla sulla retta via. Non essendoci riuscito, d’intesa con i missionari, si era separato definitivamente da lei per dedicarsi alla catechizzazione dei neofiti e dei pagani, alla diffusione di libri religiosi e alla ricerca dei bambini morenti per somministrare loro il battesimo.
Il B. Giovanni Tchang era nato nel 1805 a Kia-cha-long e aveva esercitato per tutta la vita il piccolo commercio. Si era ammogliato due volte e aveva avuto una quindicina di figli, morti quasi tutti in tenera età. Colpito negli affetti più cari, aveva scelto lo stato dei bonzi e in seguito aveva aderito alla setta dei digiunatori. Un cristiano lo aveva istruito nelle verità della fede, ed egli, divenuto catecumeno, si era adoperato con molto zelo per farle conoscere ai familiari e agli amici.
Il B. Giovanni Tchen, nato da genitori pagani a Tchen-tou, a trent’anni per affari di famiglia si era recato a Kouy-yang e in seguito ad alcune conversazioni avute con i cristiani, si era convcrtito alla fede. In principio aveva servito i missionari di Gan-chouen in qualità di farmacista e di battezzatore, in seguito era stato inviato a Kia-cha-long in aiuto al P. Néel.
I quattro campioni della fede a Kay-tcheou furono subito sottoposti a interrogatorio. Tra il mandarino e il missionario si svolse questo serrato dialogo: “Come ti chiami?” – “Qui mi chiamano Ouen: in francese il mio cognome è Néel”. – “Mettiti in ginocchio come gli altri” – “Non sono un cinese, sono venuto dalla Francia a predicare la religione, all’ombra del trattato concluso tra i nostri due imperi. Non m’inginocchierò perché sono un ospite e non un reo”. Un soldato lo colpì allora violentemente alle spalle con una sedia. Il martire cadde a terra, ma si sollevò subito sulle ginocchia per presentare il passaporto di cui era regolarmente munito. “Lo conosco, lo conosco – disse il mandarino. – Questo passaporto ti è stato rilasciato dal tuo governo e non dal nostro. Del resto, quello che importa è che rinunzi a questa religione sotto pena di morte”. -“Non ne parliamo neppure. Uccidetemi se vi piace”. – “Tra poco sarai esaudito. E voialtri, imbecilli, rinunziate alla vostra religione?” – “Mai, mai” risposero in coro gli altri tre prigionieri.
Il mandarino stese allora questa laconica sentenza: “Ho scoperto una cospirazione prima che scoppiasse e ne ho punito di morte gli autori”. Mentre i condannati stavano con le mani legate dietro il dorso, per avviarsi al luogo dell’esecuzione pregando, aggiunse: “Spogliateli, non sono degni delle loro vesti”. I parenti di Giovanni Tchang gli si strinsero attorno e lo scongiurarono ad apostare per avere salva la vita, ma egli rispose loro: “II mio padre spirituale non teme la morte: io morrò con lui”. Il carnefice, dopo che alla luce delle torce di bambù aveva decapitato il missionario e i due catechisti, risparmiò Giovanni Tchang nella speranza che le promesse di beni terreni fattegli dagli amici riuscissero a strappargli una ritrattazione, invece, egli rispose: “Io non desidero altro all’infuori dell’eredità eterna del cielo”. E subì anche lui la sorte dei compagni. Le loro teste furono sospese in alto sui bastioni della città e i loro corpi lasciati in pasto alle bestie feroci.
Gian Pietro Néel fu beatificato da S. Pio X l’11-4-1909 con altri 32 martiri della Cocincina, del Tonchino e della Cina. I martiri cinesi appartenevano tutti al Vicariato Apostolico del Kouy-tcheou. Erano tredici e furono o strangolati o decapitati tra il 1815 e il 1862 durante le persecuzioni che travagliarono le cristianità cinesi. Solamente il Néel, sacerdote, era europeo, tutti gli altri indigeni, di cui due seminaristi, cinque catechisti e cinque semplici fedeli.
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 2, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 213-216.
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