Don Giacomo moltiplicò gli sforzi per invogliare i frequentatori della sua chiesa a nutrirsi, anche tutti i giorni, di quello che amava chiamare “boccone eucaristico”, capace di placare la fame di tutti gli uomini. Personalmente egli attingeva ogni giorno alla Messa la forza di donarsi continuamente e senza riserve ai bisognosi. La celebrava con grande esattezza e attenzione tenendo la testa leggermente inclinata da una parte e senza mai omettere la preparazione e il ringraziamento. Quando la celebrava da solo vi impiegava anche un’ora. Al momento della consacrazione, facilmente prorompeva in infuocati sospiri e in un pianto dirotto. Diverse volte fu visto sollevato da terra.
Genio della carità e vero padre dei poveri, questo Beato
nacque a Palermo il 15-3-1834, quarto dei 5 figli che Giacomo Cusmano, ingegnere
agronomo e proprietario di una vasta tenuta a San Giuseppe Jato, ebbe da
Maddalena Patti, figlia di un ingegnere demaniale di ponti e strade. Al fonte
battesimale gli fu imposto il nome del padre, sotto la guida del quale imparò
molto presto ad amare e a soccorrere i poveri. A 3 anni, durante una epidemia
di colera, rimase orfano di madre. Vincenzina, la sorella maggiore, dodicenne,
si prese cura di lui e gli instillò nel cuore una precoce attrattiva per la
pietà.
Dagli 8 ai 18 anni Giacomo frequentò a Palermo il rinomato
collegio Massimo, diretto dai Padri Gesuiti. In quel tempo fece parte della
Congregazione di S. Luigi Gonzaga, composta dal fìor fiore della gioventù, che
coltivava una speciale devozione all’Eucarestia e alla Immacolata. Al Massimo,
leggendo le periodiche relazioni che i Gesuiti, impegnati nella conversione
degli indiani, mandavano dalle Montagne Rocciose degli Stati Uniti ai loro
confratelli, concepì il desiderio di farsi missionario, ma i familiari non ne
vollero sapere perché vedevano in lui, alla morte del padre, un assennato capo
di famiglia.
Terminati brillantemente gli studi ginnasiali e liceali,
nel 1851 il Cusmano si iscrisse alla facoltà di Medicina di Palermo. In quell’ambiente saturo di miscredenza e di materialismo, egli continuò a
frequentare i sacramenti, nonostante le derisioni di alcuni suoi condiscepoli.
Grazie alle sue belle doti umane e alle sue virtù cristiane, in breve divenne
una potente calamità di tutta la scolaresca. I meno intelligenti si rivolgevano
a lui per essere aiutati nelle materie più difficili; i migliori si radunavano
nella sua casa per approfondire gli studi di anatomia; i dubbiosi ricorrevano
al suo consiglio perché sapevano quanto fosse istruito nei misteri della fede e
morigerato di costumi.
Dopo aver conseguito a soli 20 anni la laurea in medicina e
chirurgia, con il massimo dei voti e la lode ( 11-6-1855), il Beato cominciò a
esercitare con impegno e ardore la sua professione a Palermo e soprattutto nel
comune di San Giuseppe Jato, dove sovente era obbligato a dimorare. La tenuta
ereditata dal padre nel 1853 esigeva grande senso pratico e molta tempestività
nella direzione dei lavori. Suoi prediletti furono i malati poveri. Da essi non
accettava compensi, anzi provvedeva loro le medicine di cui avevano bisogno o
dava aiuti in denaro. A contatto dei poveri, dei malati e dei tribolati, a poco
a poco, imparò anche a dominare il suo bollente temperamento fino a trovarsi a
suo agio con tutte le categorie sociali. Rimase tuttavia un uomo volitivo,
imperioso, che non si spaventava delle difficoltà, non indietreggiava dinanzi
agli ostacoli. Si riconosceva in tutto dipendente da Dio, ma amava essere
devoto senza bigotteria e morigerato senza fanatismo.
Secondo Vincenzina, nonostante la grande soddisfazione che
provava nell’esercizio della professione medica, egli sperimentava pure il
desiderio di “una vita migliore”. Come l’avrebbe realizzata?
Solamente nel sentirsi povero tra i poveri, nel condividere l’umiliante dipendenza
dei bisognosi dai ricchi e nel mettersi a loro completa disposizione. A 25
anni, dovendo prendere una decisione per il futuro, chiese al suo migliore
amico, il Dott. Michele De Franchis, che gli indicasse una persona capace di
guidarlo per la via giusta. Costui non fece altro che condurlo dal proprio
direttore spirituale, Don Domenico Turasse, canonico della cattedra di Palermo
e professore di ebraico presso l’Università.
L’esperto maestro di spirito, più tardi vescovo di
Agrigento, esortò il nuovo discepolo a fare ogni giorno la comunione, a
meditare la S. Scrittura, ad aiutare il parroco di San Giuseppe Jato
nell’insegnamento del catechismo ai fanciulli e agli adulti. Il Beato gli
scriverà riconoscente il 10-9-1873: “Per mezzo suo, balenò agli occhi miei
una nuova luce. Io intesi in me il vigore di una vita nuova e come uomo nuovo
gustai dolcezza, che non gustata non s’intende mai”. Prese la decisione di
non pensare più al matrimonio e, per soccorrere i poveri con la questua,
propose di farsi frate cappuccino. Il canonico invece, lo consigliò di
prepararsi al sacerdozio nonostante lo “spavento” che provava
pensando a quella troppo sublime dignità e il timore che nutriva di non
potersi, da sacerdote, dedicare ai poveri come nella vita religiosa. Il direttore
sciolse le sue ansietà scrivendogli: “Iddio ti chiama per mezzo mio: guai
a te se non rispondi all’appello di Dio…”. L’8-12-1859 indossò l’abito
clericale nella chiesa parrocchiale di San Giacomo la Marina e il 22-12-1860,
dopo un corso accelerato di studi teologici, fu ordinato sacerdote. Quel giorno
sentì più forte nell’anima il desiderio di consacrarsi ai bisognosi facendo sue
le loro miserie materiali e morali. Il Dott. Enrico Albanese, suo amico e
rinomato chirurgo anticlericale, esclamò: “Peccato! Giacomo, se non si
fosse fatto prete, sarebbe asceso sulla prima cattedra della scienza, o sarebbe
diventato un grande genio della rivoluzione italiana”.
Nominato dall’arcivescovo di Palermo rettore della chiesa
dei SS. Quaranta Martiri al Casalotto, il Beato vi si stabilì con la sorella
Vincenzina e la zia Caterina. Avrebbe voluto darsi subito al soccorso dei
poveri, ma il canonico Turano per sette anni gli impose di attendere al
perfezionamento degli studi, frequentando i corsi regolari del seminario,
studiando sotto la sua guida la Bibbia, leggendo le opere dei grandi mistici e
le vite dei santi che si distinsero nell’esercizio delle opere di misericordia.
Cercò di seguirne subito le orme aprendo a San Giuseppe Jato un asilo per le
orfanelle e affidandole alle cure delle Figlie della Carità di San Vincenzo de’
Paoli. Per cinque anni aveva sperato che i benestanti del paese lo avrebbero
aiutato nell’impresa impegnandosi a versare un soldo al mese, invece ne era
rimasto amaramente deluso. Il comune dovette accollarsene la spesa.
Mentre attendeva l’ora di diventare “medico dei
corpi”, Don Giacomo si fece “medico delle anime”. Laici di ogni
condizione sociale ricorrevano a lui per la confessione e la direzione del loro
spirito. Dopo che si iscrisse alla Congregazione dei Padri Ricordanti per
l’assistenza agli infermi e ai moribondi, sovente fu visto riposare di notte
vestito per essere subito pronto ad ogni chiamata. Per aiutare almeno
spiritualmente i poveri, fondò, nella chiesa di cui era rettore una
associazione religiosa avente lo scopo di radunarli, catechizzarli e prepararli
ai sacramenti.
Il 2-12-1860 la Sicilia fu sottratta da Giuseppe
Garibaldi al dominio del re di Napoli, Francesco II di Borbone (11894) e
annessa all’Italia dal re Vittorio Emanuele II (+1878), ma per molto tempo non
conobbe miglioramenti. Don Giacomo vede con pena i poveri che “mancano di
pane e di abiti, di letto e di tetto” e la classe dei ricchi “che fa
poca o nessuna attenzione al dovere di amare… il prossimo”. La miseria
morale non era inferiore a quella materiale e veniva di continuo favorita dalla
stampa pornografica, dalla massoneria, dalla prostituzione, dalla irreligione,
nonché dal cattivo esempio dato da sacerdoti e religiosi che abbandonavano
parrocchie e conventi per farsi garibaldini. Nel cuore dei concittadini il
Cusmano riscontrò un pauroso “vuoto” di carità, vale a dire la più
grande indifferenza per le necessità dei nulla tenenti. Non si stancava di
ripetere: “Dobbiamo custodire la fede per mezzo della carità”. Ma
come esercitarla? Assistendo i poveri con i servizi più umili.
Nell’autunno del 1864, mentre il Cusmano sedeva a mensa
del Dott. De Franchis, constatò che, ad ogni portata, ciascuno dei membri della
famiglia toglieva dal proprio piatto “un boccone” e lo metteva in una
scodella al centro della tavola. Era detto “boccone del povero”
perché, alla fine del pranzo, veniva somministrato a un bisognoso. Il dottore
gli spiegò che quel gesto veniva praticato da loro tutti i giorni per educare i
figli all’esercizio della carità. Folgorato dalla grazia, il Beato credette di
avere finalmente trovato il mezzo per invogliare tutti al soccorso dei miseri
anche senza versamento di denaro. Ne parlò con il suo direttore, ma costui non
lo approvò. Preferiva che continuasse ad attendere al perfezionamento dei suoi
studi.
Nell’attesa di potere provvedere organicamente quel
“boccone” materiale all’affamato, Don Giacomo moltiplicò gli sforzi
per invogliare i frequentatori della sua chiesa a nutrirsi, anche tutti i
giorni, di quello che amava chiamare “boccone eucaristico”, capace di
placare la fame di tutti gli uomini. Personalmente egli attingeva ogni giorno
alla Messa la forza di donarsi continuamente e senza riserve ai bisognosi. La celebrava
con grande esattezza e attenzione tenendo la testa leggermente inclinata da una
parte e senza mai omettere la preparazione e il ringraziamento. Quando la
celebrava da solo vi impiegava anche un’ora. Al momento della consacrazione,
facilmente prorompeva in infuocati sospiri e in un pianto dirotto. Diverse
volte fu visto sollevato da terra. Di mano in mano che cresceva nell’amore di
Dio, il Beato si radicava sempre più nella convinzione di aver ricevuto da Dio
il compito di dedicarsi ai poveri. Un giorno affermerà: “Ero contraddetto
dal mio Direttore… ma quel desiderio era tanto prepotente nel mio cuore…
che mi era impossibile vincermi ed applicare ad altro le forze della mia
anima”.
Per spingerlo all’azione, Dio si servì della tristezza
dei tempi. Dopo la soppressione degli Ordini, delle Congregazioni religiose e
l’incameramento dei loro beni da parte del governo italiano (7-7-1866), i
poveri, rimasti completamente senza assistenza, si diedero all’accattonaggio. A
causa della grande miseria, a Palermo scoppiò prima una sommossa popolare, poi
il colera e quindi la fame. Il Cusmano si trasformò allora, con una abnegazione
eroica, in medico delle anime e dei corpi. Per inedia diverse persone morirono
ed altre furono sorprese a divorare carne cruda di cane. Sconvolto da quelle
notizie, il beato corse, per l’ennesima volta, a supplicare il canonico Turano
di concedergli il permesso di mettere in opera “il boccone del
povero”. Il direttore spirituale glielo aveva fino allora negato perché
segretamente temeva che, senza volerlo, il suo diretto scivolasse nel
radicalismo del clero garibaldino.
Nelle visite che l’amante dei poveri cominciò a fare in
stamberghe e soffitte, trovò tante bocche da sfamare. Il 21-2-1867 con la
licenza dell’arcivescovo, Giovanni Battista Naselli, fondò nella sua chiesa
l’Associazione del Boccone del Povero. Da quel giorno fu visto uscire la
mattina con la bisaccia al collo o con un carrettino a mano, per andare a
raccogliere le derrate alimentari crude che le buone famiglie avevano messo in
serbo per i poveri. Nel pomeriggio con l’aiuto della sorella, della zia e di
altre quattro donne puliva, ripartiva e portava ai bisognosi i viveri racchiusi
in sacchetti puliti. A sera sovente tornava a casa con le gambe e i piedi
gonfi. Sappiamo che soffrì di varici e che, per vent’anni, fu afflitto da una
grossa fistola da cui guarì, dopo due operazioni, che subì senza anestesia con
stupore dei chirurghi. La questua nei primi tempi fu così abbondante, che
l’Opera del Boccone del Povero fu in grado di aiutare gli orfani di vari ospizi
e di preparare ogni sera anche la minestra per oltre 200 poveri.
All’opera sociale del Cusmano si unirono presto più di
venti sacerdoti e altre distinte persone viventi in famiglia, tra cui figuravano
medici e farmacisti disposti a una gratuita assistenza sanitaria. Lo stesso
canonico Turano ne divenne il più zelante sostenitore e propagatore. Convinse
Vincenzina, bramosa di vita contemplativa, a rimanere accanto al fratello per
il servizio dei poveri e tenne conferenze ai primi compagni del Cusmano, che
con lui formarono più tardi una nuova famiglia religiosa.
Convinto che la prima carità è quella di insegnare a
lavorare, per avviare i bisognosi all’autosufficienza, il beato fece sorgere
nell’atrio della sua chiesa una sartoria e una calzoleria con un negozio di
rivendita di calzature a buon mercato; stabilì una colonia agricola nella
tenuta di San Giuseppe Jato per gli orfani dei contadini; comperò le macchine
tipografiche necessario per la stampa di un proprio Bollettino. Dopo circa
quattro anni di intensa attività, l’Opera del Boccone del Povero decadde.
L’ideatore era rimasto quasi solo a sostenere il peso. Vedendosi deriso e
trattato come un maniaco fu torturato dal dubbio che l’amore che provava per i
poveri non venisse da Dio. Perciò gli rivolse questa preghiera: “Se vostre
non sono le mie idee, cancellatele; se vostro non è lo slancio del mio cuore,
estinguetelo… ma chi poteva a tanta impresa ispirarmi se non Voi? Chi sente
tanta pietà per tutte le miserie del mondo se non Voi? Dunque se io mi inganno,
mi avete Voi ingannato”.
Il comune di Palermo gli offerse una parrocchia,
l’arcivescovo un canonicato, ma egli volle rimanere libero per dedicarsi ai
suoi poveri. Per mantenere in piedi una parte delle sue opere di beneficenza fu
costretto ad assumere persone a pagamento e a chiedere elemosine anche in
denaro. Il 26-4-1874 con le orfanelle che aveva raccolto dalla strada si
trasferì nell’ex-conventino francescano di San Marco al Capo, che aveva preso
in affitto. Per dieci anni, dal 1870 al 1881, vivrà inferiormente un vero
martirio, come risulta dalle sue lettere. Il 21-4-1874, per esempio, scrisse a
Mons. Turano ad Agrigento: “Tutto, tutto mi spinge a cercare la solitudine,
a credere che non è il Signore che mi vuole qui, pure non ho l’animo di vedere
perire per colpa mia una delle cose affidatemi, senza sentirmi in un inferno
peggiore di quello ove sono”. Il direttore lo rincuorò e il 22-1-1876 gli
scrisse perentoriamente: “Dio vuole che tu prosegua, senza
scoraggiamenti… Egli ti cambierà in quel che ti vuole”. Altrettanto
perentoriamente gli aveva già scritto l’11-9-1874: “In quanto poi ad
abbandonare a P. Nunzio Russo, il Boccone del Povero, è uno sproposito
massiccio… Tu sai che Iddio ha destinato Te a quest’opera”.
Parve al Beato che anche la Madonna, da lui veduta in sogno
con il Bambino Gesù in braccio, nell’agosto del 1878, lo rassicurasse che egli
tutto doveva a suo Figlio. Che la sua opera fosse anche da lei protetta lo
dedusse dalla benedizione che ella pronunciò sul pane destinato alle orfanelle
e su due pentole di ferro che, poste sul fuoco, bollivano ripiene di pasta.
Nell’aprile del 1880 il Cusmano ebbe modo di incontrare e parlare a
Castellamare di Stabia con Melania Calvat, la veggente di La Salette. Anche lei
lo esortò a non abbandonare l’opera intrapresa, servendosi degli elementi di
cui disponeva senza cercare l’aiuto di altre famiglie religiose. Il 23 maggio
dello stesso anno egli diede l’abito religioso alle prime sei Suore Serve dei
Poveri nella chiesa di San Marco, di cui nominò superiora la sorella
Vincenzina. Per tutta la città di Palermo corse la voce: “La Carità a San
Marco!”. Il Boccone del Povero conobbe di nuovo la primavera. Il 4-10-1884
il fondatore diede pure l’abito religioso ai primi 10 Frati Servi dei Poveri
che gli si erano uniti spontaneamente per i lavori più pesanti e il 21-11-1887
costituì la tanto sospirata comunità dei Missionari Servi dei Poveri ai quali
il Card. Michelangelo Celesta O.S.B. (11904) diede il crocifisso, quale segno
di aggregazione. Raggiungeva così, dopo 37 anni, l’ultima componente della
“vita migliore” tanto desiderata.
Era volontà di Dio, però, che di tanto bene il P. Cusmano
godesse per poco tempo. Ebbe tuttavia l’opportunità di estendere la sua opera a
beneficio degli orfani e dei vecchi in altri 8 centri della Sicilia pur tra
mille difficoltà. Li dirigeva scrivendo di notte tante lettere da essere
costretto a sospendere la fatica per il tremore che lo assaliva alle mani.
Unica sua preoccupazione fu sempre quella di convincere i membri delle due
famiglie religiose da lui istituite a condividere senza limiti la sorte dei più
poveri a imitazione di Gesù Cristo, che passò su questa terra facendo del bene
a tutti. I bisogni di centinaia e centinaia di poveri e la formazione dei suoi
seguaci, pesavano oltre misura sulle spalle del Beato. Il 26-4-1887 scriverà:
“Continui affari… non mi lasciano un minuto di libertà e la stessa notte
non più di 4 o 5 ore posso avere per il riposo”. Il 17-2-1888 fu assalito
da febbre. Il medico gli riscontrò una pleurite con complicazioni cardiache di
cui morì il 14 marzo dello stesso anno senza fare in tempo a scrivere il
desiderato Viatico. Giovanni Paolo II ne riconobbe l’eroicità delle virtù il
2-4-1982 e lo beatificò il 30-10-1983.
___________________
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del
giorno, vol. 3, Udine: ed. Segno,
1991, pp. 165-171.
http://www.edizionisegno.it/