In Spagna, alla morte del re Ferdinando VII (+1833), era scoppiata una guerra civile tra sua figlia Isabella II (+1904), sostenuta dai liberali e lo zio Don Carlos, pretendente al trono in forza della legge salica, sostenuto dai conservatori e dal clero. Sedici anni più tardi il beato confesserà nel suo libro La Vita Solitaria: “Quando feci la mia professione religiosa la rivoluzione teneva già nella sua mano la torcia incendiaria per bruciare tutte le case religiose e il temibile pugnale per assassinare gli individui che si erano rifugiati in esse. Non ignoravo il pericolo opprimente al quale mi esponevo… ciò nonostante mi impegnai con voti solenni in uno stato, le cui regole credevo di poter praticare fino alla morte, indipendentemente da qualsiasi umano avvenimento”.
Prima di andare a morire in croce Gesù predisse agli
Apostoli che nel mondo avrebbero avuto tribolazioni e persecuzioni a causa del
suo nome (Gv 15,20). Questa profezia si verificò alla lettera nella vita e
nell’opera di questo Beato spagnuolo, che visse in un secolo ricco di eminenti
personalità sacerdotali e religiose, catalane come lui: S. Antonio Claret y
Calarà (11870), fondatore dei Missionari Figli del Cuore Immacolato di Maria;
B. Francesco Coll OP. (+1875), fondatore delle Suore Domenicane
dell’Annunziata; S. Maria Rosa Molas y Vallvé (+1876), fondatrice delle Suore
di Nostra Signora della Consolazione; B. Enrico de Osso y Cervello (+1896),
fondatore della Compagnia di S. Teresa di Gesù; S. Teresa Jornet Ibars (+1897),
fondatrice delle Piccole Suore degli Anziani abbandonati e pronipote carnale
del B. Francesco di Gesù, Maria e Giuseppe; B. Giuseppe Mananet y Vives
(+1901), fondatore dei Figli della S. Famiglia e delle Missionarie Figlie della
S. Famiglia di Nazareth; B. Emmanuele Domingo y Sol (+1903), fondatore
dell’Istituto Secolare dei Sacerdoti Operai Diocesani del S. Cuore.
Il nostro Beato nacque il 29-12-1811 ad Aytona, nella
diocesi di Lèrida (Catalogna), settimo dei 9 figli che Giuseppe Palau, modesto
contadino ebbe da Antonia Quer, entrambi molto fedeli alla religione e alla
monarchia. Al fonte battesimale gli fu imposto il nome di Francesco. Sotto la
guida dei genitori egli crebbe pio, amante dello studio e dei poveri. Fu il
maestro delle scuole elementari che suggerì loro di fare continuare gli studi
al figlio per le spiccate doti intellettuali che in lui aveva scorto. Tuttavia
fu la sorella Rosa che lo mise in condizione di frequentare come esterno, a 14
anni, il seminario, dandogli ospitalità a Lérida nella casa di campagna in cui
si era stabilita dopo le nozze con il marito. In seguito, non volendo sfruttare
la generosità della sorella e desiderando vivere nel seminario come interno per
attendere meglio alla propria formazione, il Beato moltiplicò gli sforzi nello
studio in modo da essere in grado di concorrere per una borsa di studio e
vincerla.
In seminario Francesco rimase soltanto 4 anni, durante i
quali si distinse per il profitto, l’obbedienza e lo spirito di penitenza. A 21
anni, al termine del primo anno di teologia, rinunciò alla borsa di studio e si
fece carmelitano nonostante l’opposizione dei genitori e dei superiori del
seminario, che vedevano in lui un soggetto di grande utilità per la diocesi.
Pare che, al termine di una novena fatta in onore di S. Elia, Francesco abbia
visto il profeta nel gesto di ricoprirlo con il mantello dei Carmelitani, come
segno della volontà di Dio nei suoi riguardi. Quando entrò nel noviziato dell’Ordine
a Barcellona con il nome di Fra Francesco di Gesù, Maria e Giuseppe, e vi fece
la solenne professione (15-11-1833), era già fermamente deciso a osservarne gli
obblighi benché i tempi che correvano fossero molto tristi. In Spagna, difatti,
alla morte del re Ferdinando VII (+1833), era scoppiata una guerra civile tra
sua figlia Isabella II (+1904), sostenuta dai liberali e lo zio Don Carlos,
pretendente al trono in forza della legge salica, sostenuto dai conservatori e
dal clero. Sedici anni più tardi confesserà nel suo libro La Vita Solitaria:
“Quando feci la mia professione religiosa la rivoluzione teneva già nella
sua mano la torcia incendiaria per bruciare tutte le case religiose e il
temibile pugnale per assassinare gli individui che si erano rifugiati in esse.
Non ignoravo il pericolo opprimente al quale mi esponevo… ciò nonostante mi
impegnai con voti solenni in uno stato, le cui regole credevo di poter
praticare fino alla morte, indipendentemente da qualsiasi umano
avvenimento”.
A Barcellona il Beato continuò a studiare teologia benché
non sentisse attrattiva per il sacerdozio. Pur di vivere la vita carmelitana
sarebbe rimasto volentieri nell’Ordine anche come semplice fratello laico. Il
25-7-1835 il suo convento fu assalito e incendiato dai rivoluzionari liberali.
Trovò rifugio con altri confratelli in una casa vicina, ma dopo alcuni giorni
fu condotto nella cittadella, spogliato dell’abito religioso e mandato a Lérida
munito di un passaporto. L’esclaustrato, che amava di più la vita solitaria che
quella attiva, stabilì la sua residenza tra i monti di Vich. Soltanto dopo
diversi mesi si ricongiunse ad Aytona con i suoi familiari, dove, più per
obbedienza al suo Patrovinale che per intima aspirazione, si preparò al
sacerdozio, che ricevette il 2-4-1836 dal vescovo di Barbastro.
Nel paese nativo P. Francesco rimase due anni vivendo in
una grotta distante due chilometri dal paese, svolgendo sporadicamente le veci
del parroco e rifiutando qualsiasi offerta da parte dei fedeli per le sue
prestazioni. In seguito, in considerazione delle necessità delle diocesi della
Catalogna, rimaste quasi tutte senza pastori, decise di uscire dal suo
isolamento per darsi con ardore alla predicazione, vestito da carmelitano, un
po’ ovunque, anche nelle caserme dei soldati in armi, tra i quali diffuse
l’abitino del Carmine e combattè la bestemmia. Quando però Berga, quartiere
generale delle truppe di Don Carlos, cadde nelle mani dei sostenitori di
Isabella II, il Beato cercò rifugio a Perpignan (Francia) con suo fratello
Giovanni e i resti dell’esercito sconfitto.
Durante il suo esilio P. Francesco occupò il tempo nello
scrivere la sua prima opera intitolata La lotta dell’anima con Dio
standosene solo in una grotta dei dintorni, accanto a quella del fratello,
immerso nella meditazione, nella preghiera e nei digiuni continuati. Verso la
fine del 1842 il Beato si trasferì nel comune di Caylus, appartenente alla
diocesi di Montauban, ospite del visconte del castello di Mondésir, facente
parte della parrocchia di St. -Pierre Livron. Non è improbabile che abbia
conosciuto il suo benefattore in Spagna in qualche campo di carlisti.
Nell’interno del bosco che attorniava il castello, il Beato visse da eremita
per cinque anni in una grotta trasformata in cappella nella quale, con il
permesso della curia di Montauban, celebrava la Messa e confessava coloro che
accorrevano a lui attratti dalla fama della sua vita penitente. A Mondésir egli
divenne l’”oracolo” del paese. Ogni tanto lo percorreva tenendo in
mano una croce e predicando a tutti con grande vigore le verità eterne. Dalla
sua grotta, però, non sarebbe uscito mai, tanto amava stare solo con Dio.
Soleva dire che gli era stata lasciata in eredità dal profeta Elia. L’ordinario
del luogo, Mons. Giovanni Doney, il 24-9-1844 gli volle fare visita per dargli
a intendere quanto lo stimasse.
A partire dal mese di aprile 1846 il P. Francesco stabilì
la sua dimora in un terreno che comperò vicino al santuario di Notre-Dame di
Livron, che sorgeva presso la chiesa parrocchiale, con l’evidente intento di
fondare un’istituzione stabile di indole eremitico-ascetica con l’aiuto di
Teresa Christià, ex-clarissa di Perpignan, che aveva abbandonato il monastero
per motivi di salute e che, in seguito ai suggerimenti del P. Palau, aveva
deciso di vivere dedita al servizio del Santuario in compagnia di due
signorine. Maria Bois e Giovanna Gracias.
Dopo l’acquisto del terreno il Beato volle fare un viaggio
in Spagna con l’intento di riunirsi alla sua famiglia. Portò con sé l’ultima
sua opera intitolata Quidditas Ecclesiae, in quattro libri, che non riuscì a
fare stampare e che in seguito andò perduta. In Francia tornò in compagnia del
padre, del cognato e di un nipote, ma il vescovo di Montauban non gli fu più
favorevole come prima perché le sue discepole, con il loro genere di vita,
suscitarono riserve e critiche da parte tanto delle autorità civili quanto di
quelle ecclesiastiche. Il Beato, dal comune di Claylus si trasferì allora in
quello di Loze con il fratello Giovanni e si stabilì sopra un terreno vasto e
selvaggio che aveva comprato a Cantayrac, evidentemente per conservare la
propria libertà d’azione. Mons. Doney, però, continuò ad essergli ostile per
l’austerità di vita che conduceva nelle grotte umide e buie, l’abito
carmelitano che continuava a portare e, soprattutto, per le numerose persone
che accorrevano a prendere parte alle sue Messe con discapito di quelle
parrocchiali. Nella regione tutti sapevano che dormiva sulla paglia, che
pregava e meditava buona parte della notti inginocchiato per terra, che si
nutriva quasi esclusivamente di pane acqua, erbe, patate lesse e qualche frutto
della regione e che, all’opposizione del vescovo rispondeva soltanto con la
“pazienza e la preghiera”. Di tutti era quindi considerato un eremita
“straordinario”,
P. Francesco un bel giorno decise di trasferirsi a
St.-Paul-de-Fenouillet, nella diocesi di Perpignan, dove comperò un campo
alberato nell’intento di consolidare il suo piano di vita solitaria per sé e
per i gruppi maschili e femminili che si andavano costituendo. Frattanto,
poiché Mons. Doney persisteva a negargli la facoltà di celebrare la Messa nella
diocesi e la situazione politico-religiosa in Spagna era migliorata, in seguito
al concordato stipulato il 16-3-1851 tra il governo e la Santa Sede, il Beato
prese la decisione di abbandonare per sempre la Francia. Avrebbe voluto
stabilirsi nella sua diocesi di origine, Lérida, ma il vescovo Mons. Cirillo
Uriz y Labayru, il quale personalmente era contrario ai “beateri” e
ai fratelli esclaustrati, gli fece sapere che la sua presenza in diocesi non
era gradita a causa dei vari gruppi di discepole che vi contava e che egli
aveva già dissolti il 2-4-1852. Il suo successore, Mons. Mariano Puiglatt, non
si dimostrò più tenero nei riguardi del Beato. Difatti, nel 1863 gli proibì di
predicare in una chiesa della sua diocesi, il mese di Maggio. Invece di
protestare, il perfetto carmelitano gli rispose: “Essendo V. Ecc. mio
prelato… può con autorità, libertà e senza raggiri, avvisare, correggere,
castigare, tagliare e bruciare, certo che i suoi avvisi, correzioni e castighi
saranno ricevuti sempre come pegno del suo amore e della sua sollecitudine
pastorale verso questo suo suddito sacerdote”.
Respinto dalla sua diocesi, P. Francesco si trasferì a
Barcellona dove Mons. Domingo Costa y Borràs, che ben lo conosceva e
apprezzava, essendo stato vescovo di Lérida, lo chiamò a lavorare per la
ricristianizzazione della sua turbolenta diocesi. Le zone di periferia
rigurgitavano infatti, di operai provenienti da varie regioni della Spagna, ed
erano privi di una solida e continuata formazione catechetica. Il Beato, oltre
a dedicarsi alla predicazione e farsi animatore della costruzione di nuove
chiese, fondò una vera e propria scuola di catechismo per adulti con programma,
metodo d’insegnamento e statuto propri. La chiamò Scuola delle Virtù e fu
frequentata da oltre 2000 adulti. Dopo 3 anni, però, in concomitanza con gli
scioperi ad oltranza di molti operai, fu sciolta dalle autorità civili,
pressate dai nemici della Chiesa. Il fondatore, nonostante le sue energiche
proteste orali e scritte, fu confinato nell’isola Ibiza, nelle Baleari, con il
falso pretesto che fomentava idee sovversive.
P. Francesco non si perse d’animo, anzi, continuò a
dirigere le sue figlie spirituali residenti a Lérida, Aytona e Balaguer, le
quali, nonostante l’ordine di chiusura delle loro case, avevano trovato la
maniera di continuare di fatto il loro genere di vita. Dall’esilio coatto l’8-5-1854
scrisse ad alcuni suoi amici: “Non vedrò per tutta la vita se non
persecuzioni, giacché il mio spirito disprezza il mondo e per conservare il mio
benessere non devierò mai dal mio cammino… Io non sogno altro che sofferenze,
contraddizioni e lotte, ne desidero per questo altra via che quella della
croce”. Con la loro collaborazione si preoccupò di mettere in salvo quello
che apparteneva alla soppressa Scuola delle Virtù e riuscì a farsi mandare
nell’isola l’immagine della SS. Vergine in essa venerata, in onore della quale
fece costruire una cappella tuttora meta di pellegrinaggi.
Per due anni P. Francesco visse in una grotta di Es Cubells
nella parrocchia di S. Giuseppe, che un signore gli aveva messo a disposizione
con un pezzo di terra da cui trarre gli alimenti necessari. In seguito, avendo
scoperto nell’isolotto chiamato Vedrà, una grotta ancora più solitaria e
inaccessibile, vi si trasferì perché la solitudine costituiva “il suo
cielo”. Per potersi dedicare a pieno titolo all’attività pastorale in
tutte le isole Baleari, egli sollecitò e ottenne, dalla S. Congregazione di
Propaganda Fide, il titolo e la facoltà di missionario apostolico benché fosse
ritenuto inabile a disimpegnare incarichi stabili di ministero perché, a furia
di vivere in grotte buie e umide, era diventato sordo e aveva contratto una
malattia cronica. Ciò nonostante, quando lasciava la solitudine per predicare
nei paesi di Ibiza, Maiorca e Minorca, le chiese erano insufficienti a
contenere la gente che accorreva a udirlo o a prendere parte alle Messe, che
celebrava con straordinaria devozione. Con la sua voce possente, la sua statura
bassa e tarchiata, agli occhi dei fedeli assumeva l’aspetto di un profeta.
Infatti di solito non riusciva a terminare le sue prediche senza che la sua
voce non fosse affogata dal loro pianto.
Dopo tre anni di confino il Beato inviò successivamente
due suppliche alla regina Isabella II per ottenere che fosse revocata
l’ingiusta sentenza di cui era stato vittima. Ottenne fortunatamente la libertà
soltanto quando, il 1-5-1860, essa fu concessa ai confinati politici. Nel
frattempo a Madrid era stata trattata giudizialmente la sua vicenda ed era
stata trovata immune da qualsiasi colpevolezza. A chiarire la sua posizione
aveva giovato anche la pubblicazione nella capitale del suo scritto intitolato
La
Scuola della Virtù Vendicata (1859).
Il P. Francesco invece di ritornare a vivere nelle grotte,
si sentì spinto a mettersi al completo servizio della Chiesa, che divenne da
quel momento la sua “amata”, mediante la predicazione per tutta la
Catalogna, gli esorcismi, gli scritti e la fondazione di Associazioni maschili
e femminili del Terz’Ordine Carmelitano. Per le sue opere impegnava gli aiuti
che riceveva dai benefattori nonché la piccola pensione che il governo
concedeva a tutti gli esclaustrati. Grande fu la ripugnanza che provò nel
seguire il nuovo genere di vita che Dio esigeva da lui. Lo confidò egli stesso
il 27-10-1860 a Giovanna Gracias, sua discepola, nella lettera che le scrisse
da Madrid dove stava predicando nella chiesa di S. Isidoro: “Riesce
orribile al mio spirito e al mio corpo viaggiare senza punto fisso, abbandonato
alle attenzioni degli amici… Tuttavia… quando Dio mi chiama, non c’è niente
di quello che mi si pone davanti che non assalti e calpesti per quanto
terribile e sgradevole esso sia”. Alla stessa persona scrisse nell’agosto
del 1861: “La mia unione, le mie nozze spirituali con la Chiesa
costituiscono l’oggetto unico e principale che occupa i miei esercizi. Di
questo ho piena la testa e il cuore e non so pensare altra cosa e assorbe
talmente le mie potenze e i miei sensi, che in cinque giorni sono riuscito a
stento a consumare un pane. Ciò nonostante sto bene e non sento il bisogno di
mangiare”.
E’ in questo contesto di profonda unione mistica con il
mistero della Chiesa che il Beato si sentì chiamato a lottare contro i demoni e
a fondare gruppi di Terziari e Terziarie Carmelitani, per l’insegnamento
religioso all’infanzia e la cura degli infermi a domicilio, viventi insieme di
propria volontà in forma privata, senza fisionomia giuridico-canonica e tanto
meno civile. Essi non potevano prefiggersi altri fini perché la Chiesa e lo
Stato il 25-8-1859 avevano convenuto che in Spagna gli istituti di stampo contemplativo
non avessero diritto di cittadinanza. Il P. Francesco l’8-l-1867 fu nominato
direttore dei Terziari e delle Terziarie Carmelitani, dal Procuratore Generale
e Commissario dei Carmelitani Scalzi, il P. Pasquale di Gesù e Maria. Tale
nomina lo mise in grado di conferire una strutturazione formale e giuridica a
tutte le comunità esistenti in Spagna. Le costituzioni che redasse per loro
furono stampate a Barcellona un mese prima della sua morte.
Dal 1860 al 1872 il Beato fondò 6 comunità di Fratelli, i
quali praticamente cessarono di esistere con la guerra civile del 1936, e 6
comunità di Sorelle le quali, dopo la sua morte, diedero origine a due
congregazioni riconosciute dalla S. Sede: le Carmelitane Missionarie Teresiane
di Tarragona e le Carmelitane Missionarie di Barcellona.
Verso la fine del 1864 fino alla morte, il P. Francesco si
convinse di essere chiamato da una forza interna irresistibile, sconvolgente, a
guarire gli ossessi. Per questa sua vera o presunta missione egli operò e
redasse il settimanale El Ermitano per ottenere che fosse rimesso in
auge nella Chiesa l’esorcistato, ma fu osteggiato, punito e perfino carcerato.
Teatro degli esorcismi da lui praticati, fu la casa di Santa Cruz di Vallcarca,
presso Barcellona e, più precisamente, la cappella che vi aveva fatto costruire
per la Messa festiva, appartenente alla comunità dei Fratelli, nota poi con il
nome di Els Penitens. Quando il Beato iniziò pubblicamente la sua
attività di esorcista, il centro di Vallcarca divenne inevitabilmente una
specie di ricovero privato per i numerosi malati che, di loro iniziativa,
accorrevano a lui per essere curati ed eventualmente anche esorcizzati. Il
13-4-1866 Mons. Pantaleone Montserrat, vescovo di Barcellona, gli proibì di
continuare gli esorcismi ed egli ubbidì. Da quel giorno si limitò soltanto a
pregare per coloro che continuavano ad accorrere a lui e a consolarli, ma,
nello stesso tempo, sentì più forte che mai, in sé, la spinta a fare
intervenire nella questione l’autorità suprema della Chiesa.
In Spagna, nel settembre del 1868 si verificarono luttuosi
eventi che culminarono nella detronizzazione e nella cacciata della regina
Isabella II. In quella circostanza il P. Francesco si radicò ancora di più
nella persuasione che era necessario rimettere in auge il ministero permanente
dell’esorcismo, per contrastare l’azione del demonio nella società. Si servì
per diffondere la sua idea ancora di El Ermitano come pure per elevare,
a più riprese, la sua energica protesta contro la giunta provinciale di
Barcellona, perché aveva ordinato la chiusura della residenza di Santa Cruz di
Vallcarca. Nel frattempo raccolse in quaderni i casi di ossessi che riteneva di
avere liberati dal demonio e li fece pervenire a Pio IX. Nella segreteria papale
furono letti, ma si pensò che il P. Palau fosse “o un illuso o un
malizioso”. Nel 1870 si recò personalmente a Roma per presentare ai Padri
Conciliari di lingua spagnuola il suo proclama riguardo all’esorcistato, ma non
ebbe seguito. Lo stesso S. Antonio M. Claret riteneva che di ossessi nel mondo
ce ne fosse uno sparuto numero.
Appena il Beato ottenne dalle autorità la licenza di
riaprire il complesso di Santa Cruz di Vallcarca, escogitò il sistema di
adattare una parte dell’edificio, diretto da suo fratello Giovanni e dal suo
discepolo Gabriele Brunet, a ospedale, ma il 28-10-1870 l’autorità civile,
sostenuta dal vicario capitolare di Barcellona, fece arrestare il P. Francesco
che fungeva da cappellano e viveva in una grotta sotterranea, i dirigenti e 39
ricoverati. Lo stabilimento era di natura strettamente privata, non in
contravvenzione con le leggi dello stato. L’autorità ecclesiastica aveva
soltanto autorizzato la celebrazione della Messa nell’attigua cappella, e il P.
Francesco non faceva altro che pregare in essa per gli ospitalizzati che si
ritenevano posseduti dal demonio, leggere loro brani del Vangelo e aspergerli
con l’acqua benedetta. Dopo la liberazione dal carcere egli intentò causa
contro i suoi persecutori. Di fronte alle storture, il sangue gli saliva alla
testa. Il processo si concluse il 9-10-1871 con sentenza pienamente assolutoria
da parte del Tribunale di Prima Istanza, confermata in seguito anche dal
Tribunale di Appello quando l’interessato stava ormai per morire.
P. Francesco Palau
aveva sortito da natura un fisico molto robusto, ma le lunghe dimore nelle
grotte, i digiuni pressoché costanti, le prolungate vigilie, le continue
incomprensioni delle autorità civili e religiose glielo avevano a poco a poco
fiaccato. L’ultimo e più grave colpo alla sua salute egli lo ricevette nel
febbraio del 1872 quando, nell’ospedale di Calasanz, assistette con alcune sue
discepole gli appestati. Recatesi successivamente a visitare la casa delle
Sorelle di Tarragona contrasse la polmonite, che lo portò alla tomba il 20
marzo dello stesso anno. Fino all’ultimo respiro egli aveva dato segno di
grande pietà. Il direttore di El Ermitano scrisse di lui: “Con
l’ardire dell’apostolo, la chiaroveggenza del profeta e la fortezza del
martire, né il carcere, né l’esilio, né le privazioni… furono sufficienti ad
abbatterlo e a farlo retrocedere un solo istante dalla via che aveva imboccato
fino dal momento in cui si era consacrato al servizio di Dio”. Giovanni
Paolo II ne riconobbe l’eroicità delle virtù il 10-11-1986 e lo beatificò il
24-4-1988.
___________________
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del
giorno, vol. 3, Udine: ed. Segno,
1991, pp. 230-239.
http://www.edizionisegno.it/