Al P. Daniele non mancarono critiche e contrarietà per l’audacia dei suoi progetti, ma egli diceva: “Non bisogna dubitare della Provvidenza, ma pregare e agire. Con questi due mezzi si abbassano le montagne”. Quando giungeva la sera, era raro che non fosse stanco morto. Si udiva allora sovente mormorare: “Ho fatto tutto quello che ho potuto, Dio deve fare il resto”. Un giorno confidò al P. Pichon: “Si è detto che io sono fortunato! È vero, ho avuto della fortuna, Dio mi ha benedetto. Egli mi ha concesso di condurre a termine grandi opere… Posso però anche aggiungere… che la mia fortuna è stata di levarmi alle cinque del mattino e di andare a dormire alle undici di sera, se non a mezzanotte. La mia fortuna è stata di lavorare quanto ho potuto, di scrivere migliaia di lettere, di tentare incessantemente nuove iniziative, di essere ogni giorno sulla breccia, a tempo pieno, quasi a spianare ogni occasione”.
Colui che l’accademico di Francia, Enrico Bordeaux (+1963), chiamò “il nostro Don Bosco”, è nato il 7-9-1876 a La Ferté Saint-Cyr, nella diocesi di Blois (Loir-et-Cher), secondogenito di Giovambattista, cocchiere del marchese di Durfort, e di Erminia Boutet. Nel battesimo gli furono dati i nomi di Daniele, Giulio e Alessio. Fu educato nel timor di Dio dai genitori, ma in modo speciale dal curato, l’abate Quentin, che a undici anni lo ammise alla prima comunione, lo abituò da buon chierichetto a confessarsi sovente, e gli insegnò persino un po’ di latino. Un giorno gli chiese che cosa avrebbe voluto fare da grande ed egli gli rispose: “Voglio essere papa”. Perché prima diventasse prete, nel 1887 lo mandò nel seminario minore di Blois dove a tredici anni fu cresimato.
Proprio da quel tempo il beato ebbe modo di esercitare la virtù della fortezza perché cominciò ad andare soggetto a forti emicranie che lo costrinsero a interrompere sovente gli studi. Ciò nonostante, se i genitori glielo avessero permesso, si sarebbe fatto volentieri missionario. Don Achille Leclerc, parroco, che fu suo assistente nel seminario, attestò di lui nel processo: “La sua pietà era molto semplice, molto sentita e sincera”. Essendo di temperamento collerico trovò molta difficoltà a dominarsi. Anche nel seminario maggiore Daniele fu di esempio e di stimolo ai suoi condiscepoli in tutte le virtù. Benché nutrisse una viva propensione per la musica non le dedicò molto tempo per non venire meno all’impegno della preghiera e dello studio.
Il beato fu ordinato sacerdote il 22-10-1899 da Mons. Laborde, vescovo di Blois, e destinato all’insegnamento nel collegio libero di Pontlevoy, ma il campo di apostolato gli sembrò troppo ristretto e limitato. Dopo tre anni il vescovo gli offrì la cura di una piccola parrocchia di campagna, ma la proposta non gli piacque. Temendo di perdervi l’anima, il 24-9-1902 decise di entrare a Orly (Parigi) nel noviziato della Congregazione dello Spirito Santo, anche se i genitori non se ne mostrarono entusiasti. Non gli mancarono crisi di tristezza e di scoraggiamento, ma le superò.
Quando fu ammesso alla professione il P. Brottier avrebbe voluto essere mandato a evangelizzare gli indigeni nelle terre più lontane e incolte, invece, per far piacere ai genitori, il superiore generale Mons. Le Roy nel 1903 lo nominò vicario della parrocchia di St-Louis nel Senegal con il compito di occuparsi dei mulatti e della gioventù. Nemico dell’ozio egli dedicò le sue energie non solamente a predicare e a confessare, ma a erigere un patronato, un circolo cattolico, una corale e persino una banda nonostante le contrarietà di confratelli indolenti e gelosi e i continui mal di testa. La sua scarsa salute lo costrinse ad abbandonare il campo di lavoro una prima volta nel 1906 per sottoporsi a una operazione chirurgica in Svizzera, e definitivamente nel 1911 per una specie di congestione cerebrale. Mons. Jalabert, Vicario Apostolico del Senegal, nel consigliarne a Mons. Le Roy il ritiro in Francia, lo descrisse come “un eccellente missionario, di una dedizione superiore ad ogni elogio, distinto oratore, assai istruito, di un grande tatto e di una consumata prudenza e di un aiuto molto prezioso”. Di quell’insuccesso soffrì a tal punto che più volte si chiese se non era volontà di Dio che si facesse trappista.
Il P. Brottier non ruppe i legami che lo univano alla missione del Senegal. Difatti, stabilitesi a Parigi, d’accordo con Mons. Jalabert, con la stampa e altri mezzi di propaganda, esortò i francesi a inviare offerte perché a Dakar, fondata dai missionari dello Spirito Santo, fosse eretta una cattedrale che sarebbe stata chiamata “Ricordo Africano” in memoria di tutti i francesi che in quelle regioni avevano portato con la civiltà anche la fede cattolica. Nominato Vicario Generale di quella città in Francia, egli si dedicò senza riserve a quest’opera dal 1911 al 1914 e, dopo la guerra mondiale, dal 1919 al 1923. Non gli sarà consentito di essere presente alla consacrazione del sontuoso monumento compiuta il 2-2-1936 dal Card. Giovanni Verdier (+1940), arcivescovo di Parigi e Legato Pontificio, se non con un commosso messaggio a ventisei giorni dalla sua morte.
Allo scoppio della prima guerra mondiale il P. Brottier, pur essendo stato riformato, chiese di arruolarsi in un corpo di cappellani volontari. Nei settori in cui operò, specialmente a Verdun e nella battaglia di St-Quentin, si guadagnò sei citazioni al merito che gli valsero altrettante onorificenze, la più importante delle quali fu il “cavalierato” della Legione d’Onore. Quella che gli fu consegnata il 12-6-1918 recitava: “Animo magnifico in cui si fondono armoniosamente l’ardore del soldato e la pietà del sacerdote. Durante gli attacchi del 1 e 2 giugno 1918 a Troesne, attraversando le linee per raccogliere, medicare, soccorrere i feriti, cercandoli davanti alle nostre postazioni sotto il fuoco intenso delle mitraglie e incoraggiando i combattenti… esercita su di loro con il suo sostegno morale nelle ore più difficili, soprattutto con il suo esempio, il più felice influsso”. Persino dei soldati gli dicevano: “Signor cappellano, vicino a voi è come stare sotto un’ala protettrice. Voi passate attraverso le pallottole”.
Al momento della smobilitazione il generale Carlo Mangin (+1925) chiese al P. Daniele di restare nell’armata del Reno fino alla metà del 1919 perché fungesse da legame tra i combattenti congedati e le nuove reclute. Per impedire che i comunisti approfittassero della confusione generale del momento per suscitare disordini, egli istituì l’Unione Nazionale dei Combattenti alla quale diedero il nome oltre due milioni di reduci. Il capo del governo francese, Giorgio Clemenceau (+1929), ne comprese l’importanza e per primo fece dono all’Associazione di 100.000 franchi.
Gli anni della guerra non affievolirono nel beato lo spirito religioso. Infatti accettò il 30-5-1919 di fare la professione dei voti perpetui benché il pensiero di un definitivo impegno avesse sempre suscitato in lui una misteriosa apprensione.
Verso la fine del 1923 Mons. Le Roy incaricò il P. Brottier della direzione dell’orfanotrofio, fondato dall’abate Roussel, chiamato comunemente “Opera degli Orfani-Apprendisti di Auteuil”, che stava molto a cuore all’arcivescovo di Parigi, il Card. Luigi Dubois (+1929). Accettò quel compito senza entusiasmo. Avrebbe preferito fare ritorno nel Senegal. Quando arrivò ad Auteuil l’Opera non contava che 185 orfani e qualche laboratorio, quando morirà gli orfani saranno 1400 e in Bretagna, in seguito al suo consiglio, sarà costruita un’altra opera similare chiamata “Orfanotrofio S. Michele”.
I primi contatti del P. Daniele con i suoi orfani non furono facili perché tra loro non regnava uno spirito buono. Fin dal primo giorno una decina dei più anziani di loro andarono, di sera, nel suo ufficio, per lagnarsi che erano mal nutriti, che non potevano uscire e che venivano rapati come le reclute. Nei giorni seguenti si udirono schiamazzi nel cortile. Il direttore invece di perdere la calma eliminò i più discoli e, a poco a poco, con la bontà e l’energia, riuscì a controllare la situazione e a disciplinare il comportamento degli operai, dei sorveglianti e specialmente degli orfani.
Egli non si lasciò spaventare neppure dalla disastrosa situazione finanziaria. Quando un amministratore gli fece sapere che l’Istituto era gravato da un deficit di 300.000 franchi, egli dispose che gli orfani fossero subito meglio nutriti e vestiti, gli impiegati meglio retribuiti e propose la costruzione di una nuova cappella in onore di Sr. Teresa di Gesù Bambino, allora soltanto beata, in sostituzione di quella vecchia piccola e indecorosa. Al termine di una novena fatta con gli orfani, il P. Brottier si recò dal Card. Dubois per chiedergli il permesso di iniziarne i lavori. L’arcivescovo gli suggerì di dedicare la cappella a un santo giovane, essendo la casa popolata da ragazzi, ma egli umilmente insistette: “Poiché si tratta di orfani, la B. Teresa di Gesù Bambino farà loro da mamma”.
L’Opera pubblicava un settimanale intitolato “La Francia Illustrata”. Il P. Daniele se ne servì per aprirvi una sottoscrizione e farvi una intelligente pubblicità. Da tutte le parti non tardarono a giungergli gli aiuti di cui aveva bisogno per pagare i debiti, moltiplicare le abitazioni e i laboratori a favore degli orfani. Pensando a Teresa di Lisieux poteva quindi scrivere: “Voi siete stata la più grande grazia della mia vita dopo il mio sacerdozio…”. Sovente gli capitò di non potere accogliere tutti gli orfani che gli venivano presentati per mancanza di locali. Allora, con l’aiuto dei vescovi francesi, ai quali si raccomandò con lettere, escogitò il sistema di affidare diverse centinaia di ragazzi abbandonati a famiglie esemplari di contadini perché li avviassero alla pratica dei lavori agricoli. Sorse così l’opera detta del “Focolare di Campagna” per la sistemazione di coloro che non avevano propensione per i mestieri insegnati nei laboratori di Auteuil. Per ottenere che più facilmente si aprissero le porte alle quali andava a bussare in cerca di aiuti per i suoi orfani, non esitava a mettere in mostra le sei decorazioni ricevute per meriti di guerra.
Al P. Daniele non mancarono critiche e contrarietà per l’audacia dei suoi progetti, ma egli diceva: “Non bisogna dubitare della Provvidenza, ma pregare e agire. Con questi due mezzi si abbassano le montagne”. Quando giungeva la sera, era raro che non fosse stanco morto. Si udiva allora sovente mormorare: “Ho fatto tutto quello che ho potuto, Dio deve fare il resto”. Un giorno confidò al P. Pichon: “Si è detto che io sono fortunato! È vero, ho avuto della fortuna, Dio mi ha benedetto. Egli mi ha concesso di condurre a termine grandi opere… Posso però anche aggiungere… che la mia fortuna è stata di levarmi alle cinque del mattino e di andare a dormire alle undici di sera, se non a mezzanotte. La mia fortuna è stata di lavorare quanto ho potuto, di scrivere migliaia di lettere, di tentare incessantemente nuove iniziative, di essere ogni giorno sulla breccia, a tempo pieno, quasi a spianare ogni occasione”. E questo nonostante i terribili mal di testa che cercava di attenuare con numerose pasticche di aspirina. Aveva un alto senso del dovere. Scrisse infatti: “Servire significa non appartenersi più…; non avere quasi più dei diritti; non avere che dei doveri; non conoscere più il proprio interesse o comunque sacrificarlo sempre all’interesse generale. Servire significa pensare, volere, agire in funzione degli altri; significa vivere, e talora morire, per il benessere di tutti, nell’amore di Dio”.
I vescovi che passavano da Parigi lo andavano a trovare per chiedergli consigli. Tra i tanti ci fu anche Mons. de Langavant, proveniente da Réunion, il quale in seguito dichiarò: “Ho avuto spesso occasione di avvicinare P. Brottier e di intrattenermi con lui. Conoscevo già la sua opera per tutto quello che se ne diceva. E mi aspettavo di trovare un uomo agitato, frettoloso, schiacciato dalle troppe occupazioni. Al contrario rimasi colpito dalla sua serenità, pazienza; bontà imperturbabile, che soltanto una vita inferiore intensa, una unione costante con Dio potevano rendere possibili”. Trovava difatti il suo riposo nella meditazione della Passione del Signore, nella devota celebrazione della Messa, nell’attenta recita della Liturgia delle Ore e del Rosario camminando su e giù per la cappella o per il cortile. Faceva così proprio l’insegnamento del Ven. Francesco Libermann (+1852), fondatore della Congregazione del Cuore Immacolato di Maria, che nel 1848 fuse con quella dello Spirito Santo, fondata a Parigi nel 1703 dal P. Claudio Francesco Poullart des Places (+1709): “Non complicate la vita spirituale… essa è una cosa semplice; è fatta di piccole cose: il nostro dovere è quello di piacere a Dio”.
Anche nella direzione spirituale dei suoi orfani e nella predicazione il beato insisteva con forza sulla necessità di praticare le tradizionali devozioni della Chiesa, nel rispetto della libertà individuale. Gli stava sommamente a cuore di fare dei suoi allievi dei cristiani convinti, dei patrioti onesti e dei capi di famiglia laboriosi. Diceva: “Io getto a destra e a sinistra ai miei piccoli uccelli il buon grano che Dio mette nella mia mano, e poi non me ne occupo più”. Era convinto di essere semplicemente uno strumento nelle mani del Signore.
A chi gli chiedeva un giorno come si sentisse rispose senza rammarico: “La caldaia è sempre in ebollizione”. A chi, ignaro delle sue emicranie, si complimentava con lui per la “bella cera” che aveva, rispondeva: “Non è alla cera che ho male, ma al porta-cera!” In seguito a tante fatiche e a tanti dolori era fatale che il suo corpo a un determinato momento crollasse. Nel 1934 fu colpito da una congestione cerebrale. Ricuperò la salute, ma non la primitiva forza operativa. Convinto di non essere altro che “una paglia portata via dal vento della volontà di Dio” si avviò consapevolmente al tramonto pregando, tacendo e soffrendo. Il 2-2-1936, mentre il Card. Verdier consacrava la bella cattedrale di Dakar, fu assalito da febbre tifica e ricoverato nell’ospedale S. Giuseppe, dove morì il 28 dello stesso mese in seguito a una infezione di grippe.
Davanti alla salma del beato, esposta per tre giorni nel coro della cappella, sfilarono non meno di 15.000 persone pregando. Dopo i funerali, presieduti dal Card. Verdier, fu inumata in una cappellina eretta appositamente ad Auteuil con l’autorizzazione del Ministro dell’Interno. L’arcivescovo di Parigi volle che fosse diffusa una preghiera per ottenere da Dio la glorificazione. Nel viaggio fatto nel Senegal era rimasto impressionato della venerazione che la gente nutriva ancora per il P. Brottier a distanza di venticinque anni. Giovanni Paolo II ne riconobbe l’eroicità delle virtù il 31-1-1983, e lo beatificò il 25-11-1984.
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 2, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 302-307.
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