B. BERNARDO DA CORLEONE (1605-1667)

 Un giorno del 1629 Filippo sfidò a singolar tenzone un certo Vito Canino, invidioso della sua bravura, e lo ferì così gravemente a un braccio da renderlo inabile al lavoro per sempre. Alla vista del sangue del rivale il Beato pensò subito con sgomento alle possibili rappresaglie dei parenti e alla vendetta della giustizia. Decise perciò di rifugiarsi nel convento dei Cappuccini per riparare il male fatto con la penitenza. Colui che era considerato “la prima spada di Sicilia” non fu accettato. Soltanto dopo due anni di prova potè vestire il rozzo saio dei cappuccini nel convento di Caltanissetta (13-12-1631) con il nome di Fra Bernardo.

12 gennaio
Questo Santo, fratello laico cappuccino, nacque il 16-2-1605 a Corleone (Palermo), antico feudo dei normanni, da Leonardo e Francesca Latini, poveri, ma onesti conciatori di pelli. Al fonte battesimale gli fu imposto il nome di Filippo. In quel tempo la Sicilia era sotto il dominio della corona spagnuola la quale ne aveva affidato il governo a un viceré, affiancato da un parlamento composto da tre classi di persone: i nobili, gli ecclesiastici e i popolani.
Alla scuola dei genitori il Beato crebbe pio, riservato e caritatevole verso i bisognosi benché per vivere fosse costretto a fare il ciabattino. Dopo la morte del padre, però, Filippo preferì darsi all’esercizio delle armi in cui era diventato bravissimo, e a vivere secondo i propri capricci. Essendo dotato di temperamento irruente e di una muscolatura erculea, gli piaceva menare le mani non solo in difesa propria, ma anche dei deboli. Benché conducesse una vita dissipata, visitava sovente il crocifisso che era esposto alla venerazione dei fedeli nella chiesa di S. Andrea, e venerava il cordone di S. Francesco che aveva avuto in dono da un cappuccino.
Un giorno del 1629 Filippo sfidò a singolar tenzone un certo Vito Canino, invidioso della sua bravura, e lo ferì così gravemente a un braccio da renderlo inabile al lavoro per sempre. Alla vista del sangue del rivale il Beato pensò subito con sgomento alle possibili rappresaglie dei parenti e alla vendetta della giustizia. Decise perciò di rifugiarsi nel convento dei Cappuccini per riparare il male fatto con la penitenza. Colui che era considerato “la prima spada di Sicilia” non fu accettato. Soltanto dopo due anni di prova potè vestire il rozzo saio dei cappuccini nel convento di Caltanissetta (13-12-1631) con il nome di Fra Bernardo.
Durante il noviziato che ivi fece sotto la guida di P. Luca da Palermo, il Beato si esercitò soprattutto nella preghiera, nella mortificazione e nell’umiltà. L’anno successivo a ventisette anni, si legò definitivamente a Dio e all’Ordine con la solenne professione della regola francescana.
Da religioso il B. Bernardo fu di esempio a tutti i confratelli, giovani e vecchi, nell’osservanza dei voti e della vita comune. Per vent’anni fece il cuoco prima nel convento di Castronuovo (Palermo) e poi di Binova (Agrigento). Gli ultimi quindici anni di vita li trascorse a Palermo come compagno del fratello cercatore, infermiere e portinaio del convento a seconda delle necessità.
Nella volontà dei superiori Fra Bernardo vedeva espressa la volontà di Dio. Quando gli indicavano quello che doveva fare si metteva tosto in ginocchio dinanzi a loro, e quando lo riprendevano di qualche mancanza se ne stava umile e silenzioso. Se gli uscivano di bocca frasi a propria discolpa, ne faceva subito la penitenza percuotendosi talora le labbra fino al sangue o abbruciandole con un tizzone ardente.
Nei confratelli vedeva altrettanti figli di Dio anche quando dai poco osservanti o dagli scorbutici veniva considerato un ipocrita, un ingannatore, un superbo. Ne soffriva in silenzio pensando alla passione di Gesù. A chi un giorno gli suggerì di fare ricorso al P . Provinciale, rispose con serenità: “A me non dispiacciono le mortificazioni o le penitenze che mi vengono inflitte in quel modo, perché esse mi aiutano assai a domare la bestia del mio corpo”.
A tutti i confratelli il Beato prestava i suoi servizi con sollecitudine, specialmente se erano anziani o infermi. Nel 1636 nel convento di Bivona un’epidemia costrinse a letto tutti i religiosi, tranne Fra Bernardo addetto alla cucina. Dopo alcuni giorni, però, anche lui fu colpito dal morbo con tale violenza che il medico disperò di salvarlo. Benché in preda alla febbre il Beato si trascinò all’altare del SS. Sacramento, prese una statuetta di S. Francesco che lo adornava, se la ficcò in una manica e con grande fede esclamò: “Padre S. Francesco, non uscirete di qui se non mi fate star bene in modo da prestare aiuto domani ai confratelli malati”. La mattina dopo il medico credeva di trovare il fraticello già morto, invece costatò che era guarito.
Al Beato oltre che incomprensioni da parte dei superiori e umiliazioni da parte dei confratelli non mancarono neppure violenti assalti da parte dei demoni. Più volte essi cercarono di terrorizzarlo o apparendogli sotto forme di animale o bastonandolo con tanto strepito da impaurire coloro che si trovavano nel convento, ma egli soleva ripetere imperturbabile: “L’orazione è il flagello del demonio. Egli teme più l’orazione che i flagelli e i digiuni”. È anche per questo che alla preghiera dedicava tutto il tempo che le occupazioni gli lasciavano libero e buona parte della notte. La faceva per tutte le necessità della Chiesa, per i peccatori e le anime purganti di cui gli era dato vedere le pene, ora in ginocchio, ora in piedi, ora con le braccia distese a forma di croce. In un angolo della cucina aveva eretto un altarino e vi aveva posto sopra un’immagine di Gesù appassionato per rivolgerle di quando in quando lo sguardo e gli affetti del cuore.
Il mistero eucaristico costituiva il più frequente argomento delle sue meditazioni. Ogni giorno non poteva fare a meno della comunione. La riceveva con tale trasporto da uscire talora in alte grida e gesti insoliti. A Castronuovo un anno, dopo la processione del Corpus Domini, mentre dal coro della chiesa maggiore contemplava il SS. Sacramento solennemente esposto, fu visto dai fedeli rimanere sospeso per aria. Anche nel convento di Palermo più volte fu visto rapito per aria all’altare del SS. Sacramento o nella cappella detta del Crocifisso. Essendo analfabeta qualche confratello lo esortò a imparare a leggere e a scrivere. Prima di prendere una decisione, Fra Bernardo andò a consultare il crocifisso che ancora si venera. Mentre pregava udì una voce che gli disse: “Bernardo, non cercare altro libro. Ti basti quello delle mie piaghe. Da esso, più che da qualsiasi altro libro, apprenderai una dottrina veramente profittevole”.
Nella meditazione della passione del Signore Fra Bernardo acquistò tanta sapienza da diventare sicura guida non soltanto dei semplici fedeli, ma anche dei più provetti maestri di teologia e di mistica, Vescovi, viceré, giudici della Regia Monarchia, nobili e plebei andavano a chiedergli consiglio e a raccomandarsi alle sue preghiere. Benché preferisse vivere appartato e in rigoroso silenzio, benché non amasse le visite degli ammiratori perché sempre pronti a baciargli le mani o la tonaca, quando la volontà dei superiori e il bene spirituale del prossimo lo esigeva, sapeva vincere la propria naturale ritrosia e mostrarsi affabile con tutti, tranne che con le donne. A nessuno parlava dei doni soprannaturali ricevuti da Dio. Si riteneva anzi la creatura più abietta, meritevole di ogni possibile vilipendio. Quando qualche persona si raccomandava alle sue preghiere ne diventava rosso per la vergogna. A una signora sconsolata che, in chiesa, lo scongiurava di pregare per lei disse piangendo e coprendosi la faccia con le mani: “Non sapete che sono un ribaldo, degno di mille inferni, accolto per divina misericordia in seno a questa santa religione per non morire impiccato come avrebbero meritato i tanti misfatti da me commessi?”. Trovandosi un giorno a Corleone, i compaesani gli si strinsero attorno per baciargli riverenti le mani e il cordone di S. Francesco, ma egli distolse da sé i loro sguardi cavandosi da una manica l’immagine della Madonna e dandogliela da venerare.
Per riparare i peccati commessi nel mondo e giungere al completo dominio di sé, Fra Bernardo si diede presto a penitenze che hanno dell’incredibile. Sette volte al giorno sì flagellava con catene di ferro o con una grossa palla di cera tutta intrisa di taglienti pozzetti di vetro. Per fare ristagnare il sangue che sgorgava dalle ferite vi applicava del sego misto a sale. Più volte alla settimana portava un cilicio a forma di tonaca che gli giungeva fino alle gambe, tutto intrecciato nella parte interna da punte di acciaio. Dormiva tre ore d’inverno e due d’estate sopra una tavola non più larga di mezzo metro con la testa appoggiata a un ruvido legno. A chi gli suggeriva di allargarla rispondeva: “Non occorre avere un letto più largo perché stretta è ancora la strada del paradiso”.
Anche nel vestire il nostro Beato era molto mortificato. Andava infatti alla ricerca degli indumenti più logori e delle tonache più rappezzate. D’inverno non fece mai uso di tonaca doppia e non fu mai visto accostarsi al fuoco per riscaldare le membra intirizzite dal freddo. Per vincere il proprio focoso temperamento e crescere ogni giorno nella virtù Fra Bernardo riservò alla propria gola un trattamento molto duro. Non mangiava carne. Aveva diviso l’anno in sette quaresime durante le quali digiunava a pane e acqua. Nonostante il formidabile appetito che sentiva essendo di vigorosa costituzione, non toccava cibo nelle vigilie della Madonna, di S. Michele, di S. Francesco d’Assisi, di S. Giuseppe, dei santi suoi avvocati, tutti i venerdì di quaresima e dal giovedì santo fino alla Pasqua.
Se un confratello lo esortava a bere un goccio di vino a rimedio del languore di stomaco che lo assaliva, esclamava: “O Gesù, che mi consigliate mai? Preferirei inghiottire un carbone ardente anziché una sola goccia di vino”. Il Signore ricompensava tante penitenze con doni soprannaturali quali quello della profezia, dei miracoli e della penetrazione dei cuori. È naturale quindi che quanti si trovavano in particolari necessità facessero ricorso al Beato.
A un chierico cappuccino ottenne l’istantanea guarigione da una persistente raucedine. A un domestico di un benefattore del convento restituì pieno di vino un bottiglione che gli era caduto di mano e si era spezzato. A una benefattrice restituì viva una gallina che aveva sventrata e pulita perché in convento se ne facesse del buon brodo per il P. Guardiano malato.
Avendola costui rifiutata, Fra Bernardo la riportò per ubbidienza alla proprietaria. Nel consegnargliela, la gallina spiccò un volo e corse a rifugiarsi nel pollaio. Ad un certo Antonio Florio, giardiniere, nel mese di gennaio diede da mangiare alcuni fichi staccati dalla pianta alla sua presenza. Col prodigio lo ritrasse dalla vita disordinata che conduceva.
Perché Fra Bernardo non si rovinasse la salute con le astinenze e i digiuni, i superiori ogni tanto lo obbligavano a mangiare minestra e altre pietanze. Tuttavia anche allora egli trovava il modo di mortificarsi aggiungendo alle sostanze acqua, cenere o assenzio. Un giorno prese parte al pranzo della comunità dei Cappuccini di Palermo anche Mons. de la Plata, Inquisitore Generale e Giudice della Monarchia Apostolica in Sicilia, Ad un tratto costui vide il nostro Beato, che abitualmente mangiava inginocchiato per terra accanto alla porta del refettorio, restare immobile nella persona e raggiante in viso. Gli si avvicinò meravigliato e gliene chiese il motivo. L’umile fraticello con tutta sincerità gli confessò che in quel momento gli era apparso il Signore il quale gli aveva dato un pezzetto di pane intinto nel sangue del suo costato, e lo aveva esortato a perseverare fino alla morte nelle penitenze praticate fin dal primo giorno del suo ingresso nell’Ordine.
Nel corso della sua vita Fra Bernardo fu favorito dal cielo di frequenti visioni. Nel giorno dell’Immacolata Concezione di Maria vide la gloria di colei che aveva schiacciato la testa del serpente infernale, e fu tanta la gioia che ne provò da invitare i suoi aiutanti nella cucina a ballare. Nel convento di Agrigento vide lo Spirito Santo discendere come una colomba di fuoco sulla testa di Frate Innocenzo da Caltagirone, generale dell’Ordine. Nel convento di Palermo, mentre il P. Guardiano esortava la comunità all’osservanza della regola, il Beato vide la gloria di S. Francesco d’Assisi. Alzandosi in piedi esclamò con giubilo: “Padri miei, Padri miei, oh se vedeste quanto è bello il volto del nostro Santo Padre!”. Detto ciò, rimase per quattro ore immobile, privo di sensi. L’8-9-1666 gli apparve nella cella la Vergine SS. e gli confidò che era vicino il giorno della sua morte. Fu allora veduto entrare in cucina saltellando e sospirando: “Paradiso! Paradiso!”.
Ai primi di novembre dello stesso anno mentre Fra Bernardo pregava davanti all’altare del SS. Sacramento durante un’inondazione di Palermo, gli apparve il Signore tutto adirato e pronto a scagliare fulmini e saette contro la città. Per diverse notti il Beato lo scongiurò ad avere pietà del suo popolo e di riversare piuttosto su di lui tutti i castighi meritati dai suoi concittadini. Se la città non subì più gravi danni lo dovette alle ardenti preghiere dell’umile cappuccino.
Il B. Bernardo si ammalò gravemente il giorno dell’Epifania del 1667 tant’era consunto dalle penitenze e dalle fatiche. Morì serenamente nell’infermeria del convento il 12 gennaio dopo avere ricevuto con grande devozione tutti i sacramenti. I suoi funerali furono un trionfo. I fedeli accorsi, bramosi di avere una sua reliquia, per ben nove volte ne fecero a pezzi la tonaca. Quindici giorni dopo la morte apparve al suo confidente, Antonio da Portanna, per rivelargli che godeva già della visione di Dio. E gli disse: “Addio, Frate Antonio! Paradiso, Paradiso, Paradiso! Benedette le discipline, le vigilie, le penitenze, le abnegazioni di volontà, i digiuni, e benedette tutte le perfezioni religiose!”.
Fra Bernardo da Corleone fu beatificato da Clemente XIII il 29-4-1768. Le sue reliquie sono venerate nella cappella del Crocifisso, testimone delle sue ferventi preghiere e delle sue estasi.

 Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 1, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 158-163.
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