del Card. VINCENZO FAGIOLO
Se l’abito non fa il monaco, però lo dimostra, si diceva già nel Medioevo, quando gli ordini religiosi per lo più monastici e poi anche «mendicanti», di vita cioè apostolica, erano molti e si distinguevano appunto dall’abito. Il problema è stato sollevato da alcuni quotidiani, in concomitanza con l’assemblea nazionale dell’USMI (Unione Superiore maggiori d’Italia), cui hanno partecipato circa 800 rappresentanti delle oltre 120.000 suore italiane. Il tema del convegno non era precisamente l’abito, ma il futuro e la qualità della vita religiosa. Da qualche frase sfuggita occasionalmente all’inizio del convegno sull’abito alcuni cronisti hanno quasi fatto intendere all’opinione pubblica che alle suore fosse più a cuore l’esteriorità del loro stato anziché l’essenzialità della loro missione.
Ma una prestigiosa firma – nota ai lettori di Famiglia cristiana – su un diffuso quotidiano ha ricondotto l’attenzione sull’identità della vita religiosa, come viverla da parte delle suore in maniera più autentica per renderla più in sintonia con il nostro tempo e i bisogni dell’odierna società. E per rendere il problema più concreto ed esplicito è stata sollevata anche la preoccupazione di come liberare le energie spirituali ed umane da impacci derivanti da «opere» non più sostenibili o non più «profetiche» perché mortificate da regole e usanze che renderebbero meno efficace il lavoro e meno attraente la vocazione dellesuore. A tal fine non è certamente l’abito lo scoglio principale. Né oggi possiamo non riconoscere che le religiose sono cresciute e maturate culturalmente e responsabilmente sotto il profilo apostolico e di inserimento nella vita e missione della Chiesa. Concordiamo perciò nell’ammettere che non hanno più bisogno d’essere «imboccate» su come devono muoversi, vestirsi o… votare. Il problema però lo avvertiamo quando tout court si tira in ballo la gerarchia, alla quale si chiede «una svolta decisa nei comportamenti, perché venga riconosciuto il loro insostituibile ruolo e la tutela della loro autonomia, meglio di quanto non avviene oggi». Questa richiesta appare ancor più singolare e sorprendente nel leggere la giustificazione con la quale viene avanzata, cioè «perché la loro (delle suore) agibilità in seno alla Chiesa non sia ostacolata da un pregiudizio antifemminile duro a morire e di cui le suore soffrono quanto e forse più delle donne cristiane nel mondo». Si resta sorpresi nel leggere queste ultime osservazioni, perché si ha l’impressione che il Concilio Ecumenico Vaticano II sia stato celebrato invano e che lo specifico Magistero di Giovanni Paolo II sulle donne nella società e più particolarmente delle religiose nella Chiesa sia completamente ignorato. Non vogliamo ora qui fare l’elenco dei documenti conciliari e pontifici a dimostrazione dell’attenzione della Chiesa alla figura della donna e del suo ruolo. Il Magistero sia conciliare sia pontificio è stato così perspicace ed influente che è riuscito anzitutto a svelare e a far comprendere gli aspetti negativi e deleteri di quel «femminismo» che per decenni è stato sbandierato come l’essenza e la parte più rilevante del ruolo della donna, quando invece altro non era che mortificazione dello stesso autentico ruolo. Aspetto questo che ancora non è del tutto debellato nonostante le molteplici prese di posizione della Chiesa che non di rado è stata lasciata sola nell’andare contro corrente e sotto non marginali aspetti è risultata soccombente, come è avvenuto con la triste piaga del divorzio e di quella, ancor più triste, dell’aborto. E se vogliamo riferirci alle religiose ed al loro ruolo specifico nella Chiesa, per il bene anche dell’intera comunità umana, dobbiamo riconoscere che il rilievo negativo non va fatto alla Chiesa, se per Chiesa intendiamo la gerarchia, semmai a chi nella Chiesa non ha prestato la dovuta attenzione o – fatto ancor più rilevante – la dovuta obbedienza alle decisioni del Concilio, dei Pontefici e della Santa Sede. La gerarchia va aiutata e confortata con una accoglienza sincera e totale dei suoi documenti. Di recente alcuni ambienti hanno mostrato fastidio e persino chiara opposizione all’istruzione sulla vita contemplativa e la clausura delle monache (la Verbi sponsa, 13 maggio 1999) pubblicata con l’approvazione del Santo Padre, in data 1° maggio 1999, dalla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica. Il Card. Joseph Ratzinger ha giustamente osservato che le istituzioni vivono se sostenute da convinzioni comuni, che, se vengono meno, allora le decisioni del Magistero sono percepite come repressive e restano in ultima istanza inefficaci (cfr. 30 Giorni, 2000, n. 2, p. 4). Dovrebbe essere naturale a chiunque nella Chiesa, ma soprattutto a coloro che in essa più ne rappresentano la missione, avere profonde convinzioni del suo essere, del suo mandato e per quanto concerne la sua componente gerarchica rispettarne sempre fedelmente il suo specifico ruolo, spettando ad essa l’ultimo e definitivo giudizio sulla genuinità e ordinato uso di ogni carisma e di ogni ministero ecclesiale (Lumen gentium, n. 12). E non dimentichiamo che la vita consacrata negli ultimi decenni è stata non solo illuminata da un ricco patrimonio di dottrina del Magistero della Chiesa, espressa in documenti di Pontefici, di Conferenze episcopali, di singoli Vescovi ma anche da eroiche testimonianze di beati e beate, di santi e sante; e che, specialmente la Costituzione Lumen gentium e il decreto Perfectae caritatis del Vaticano II sono state di grande aiuto al rinnovamento teologico e pastorale della vita consacrata. Ed in questo impegno le religiose sono state confortate da numerosi interventi dei Sommi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II. E la Sede Apostolica, mediante i dicasteri competenti, ha seguito e guidato il cammino della vita consacrata con appositi documenti di grande valore dottrinale e normativo. È noto, inoltre, quanto attentamente la vita e la missione della vita consacrata nella Chiesa e nel mondo siano trattate dal Santo Padre Giovanni Paolo II nei suoi viaggi apostolici e nei diversi incontri con singole famiglie religiose o in circostanze speciali (cfr. Lineamenta del Sinodo dei Vescovi in Ass. Gen. Ord. Sulla vita consacrata e la sua missione nella Chiesa e nel mondo, LEV 1992, pp. 8- 9). Dopo tutto ciò, come si può invocare «una svolta decisa nei componenti da parte della gerarchia, poiché venga riconosciuto l’insostituibile ruolo e la tutela dell’autonomia delle religiose, meglio di quanto non avviene oggi»?! Certamente c’è – e ci sarà sempre – l’esigenza di intuiti profetici e di individuare i segni dei tempi per dare al carisma della vita consacrata perennità apostolica con fruttuosità d’amore agli uomini di ogni epoca. Ma ciò esige, oltre all’assistenza e al conforto della gerarchia, la continua vigilanza e l’impegno generoso dei singoli Istituti religiosi, che, attraverso una solida e permanente formazione dei loro membri, sappiano far emergere le forze migliori e valorizzare efficacemente la professione dei consigli evangelici vissuti ed esercitati con i tre voti che non sono fine a se stessi, ma tendono a quella carità che mentre conduce il religioso/a ad amare Dio, sommo bene, con nuovo e specifico titolo, conferisce la forza di contribuire all’edificazione della Chiesa, al bene integrale della persona umana (cfr cann. 573 § 1; 607 § 1), senza correre il rischio di incertezze e insoddisfazioni che altro non sono che «latitanza di fini». Si avrà anche quella «creatività» che aiuta a rendere profetica e operosa, esperienza di contemplazione e prossima ai poveri e agli ultimi della società, la vita consacrata. Certamente le religiose hanno «bellezza» e «grandezza» da dare alla società come è stato detto autoritativamente durante l’Assemblea. Le religiose, in virtù della loro vocazione, del carisma che vivono e per i consigli evangelici che professano acquistano quell’intima bellezza del cuore e quella grandezza, che proviene dalla grazia che lo Spirito infonde in loro, e le rendono autentiche donne che partecipano a quella bellezza e grandezza di Maria la quale nella profonda umiltà della sua persona seppe lodare e ringraziare il Signore per le meraviglie operate in Lei. Anche per questo la Beata Vergine Maria è «modello e patrona di ogni vita consacrata» (can. 663 § 4).
© L’OSSERVATORE ROMANO Giovedì 25 Maggio 2000