In quattro anni, sotto la sapiente guida spirituale di Don Augusto Crestanello, confessore nell’attiguo Collegio dei salesiani, Laura si sarebbe santificata e avrebbe consumato il suo olocausto per la conversione della mamma. Appena la Beata, a contatto delle suore, comincio a conoscere meglio la verità della fede e le preghiere, propose di “essere sempre buona”. Per non venire meno al suo proposito, con umiltà e semplicità era solita chiedere loro spiegazioni circa la maniera di praticare questa o quella virtù, dando così a vedere di possedere, secondo la direttrice, “un criterio superiore alla sua età e una vera inclinazione alla pietà”.
È chiamata “il giglio delle Ande Patagoniche” perché si santificò in quelle terre alla. scuola delle Figlie di Maria Ausiliatrice, prime missionarie nell’America del Sud, eredi dello spirito di S. Maria Domenica Mazzarello (+1881), come vi si era santificato il Ven. Zefirino Namuncurà (+1905), figlio del “re della Pampas”, alla scuola degli eredi dello spirito di S. Giovanni Bosco (+1888). La Beata nacque a Santiago del Cile il 5-4-1891 da Giuseppe Domenico, di professione militare, e da Mercedes Pino, figlia di modesti agricoltori, sarta di professione. Al fonte battesimale della parrocchia di Sant’Anna le fu imposto il nome di Laura del Carmine. Nella capitale infuriava in quel tempo la guerra civile tra i sostenitori del presidente assolutista Giuseppe E. Balmaceda ( +1891), e i democratici capeggiati da Giorgio Montt (+1922).
Il crollo del vecchio regime costrinse i suoi sostenitori a cercare la salvezza nell’esilio. Il padre di Laura si rifugiò con la famiglia a Temuco, capoluogo della provincia meridionale di Cautin, dove cercò di rifarsi una vita. La sua casa, dopo una grave malattia di Laura, fu allietata dalla nascita di una seconda figlia, Giulia Amanda, ma dopo pochi mesi, colpito da improvviso male, lasciò i suoi cari nel più desolante abbandono. Mercedes riprese con lena il suo mestiere e, per meglio provvedere alle necessità delle figlie, acquistò anche un negozietto di mercerie, e lo gestì per circa sei anni. Dopo che rimase vittima di un furto decise di lasciare il triste luogo di esilio e di emigrare, senza una meta prestabilita, oltre la Cordigliera, nel territorio del Neuquén, dal 1883 parte integrante della Repubblica Argentina dove, lungo i fiumi e sugli immensi altipiani, si andavano costituendo le prime fattorie (estancias) dedite soprattutto all’allevamento del bestiame. Mons. Giovanni Cagliero (+1926), più tardi cardinale, in qualità di vicario Apostolico della Patagonia settentrionale e centrale, con sede a Chos-Malàl, nel 1884 ebbe l’arduo compito di provvedere all’evangelizzazione della sconfinata regione, popolata oltre che da araucani e emigrati, anche da evasi, fuorusciti e avventurieri di ogni risma, avidi soltanto di lauti guadagni. Tra di loro mancava il senso cristiano della famiglia, ma più per la scarsa sensibilità religiosa e l’isolamento in cui erano costretti a vivere, che per malvagità.
Mercedes, ancora giovane e bella, in Argentina non trovò che solitudine e miseria, prima a Norquin, paesello di frontiera, e poi a Las Lajas, piccolo centro agricolo senza chiesa nella vallata del fiume Agrio. Non disponendo di risorse sufficienti per provvedere all’educazione delle sue figlie, provò l’ansia di un appoggio umano. Lo trovò in un creolo, della provincia di Buenos Aires, Manuél Mora, poco più che trentenne, il quale, a circa 20 chilometri da Junm de Los Andes, aveva ottenuto dal governo argentino lo sfruttamento di una vasta zona agricola sul fiume Quilquihué. Era quindi molto ricco, ma anche “poco istruito e senza religione”. Ignoriamo come abbia fatto la signora Pino a cadere nelle mani di un individuo definito da chi lo conobbe “perverso, prepotente e grossolano”, abituato a maltrattare le donne che accettavano di vivere con lui. Verso la fine del 1899 il Mora, tornando dal carcere di Chos-Malàl, dove era stato rinchiuso, passò da Las Lajas, conobbe Mercedes Pino, se ne invaghì e la portò a lavorare nella sua azienda promettendole aiuto e protezione. La cosa non destò meraviglia perché nel paese il 65% della popolazione allora viveva senza darsi pensiero di legittimare la propria unione davanti alla Chiesa e allo Stato.
In quel tempo alcune Figlie di Maria Ausiliatrice, provenienti da Santiago del Cile, erano riuscite ad aprire le scuole elementari nel povero collegetto di Junìn de Los Andes che il missionario, apostolo degli araucani, Don Milanesio, per volontà di Mons. Cagliero, era riuscito a costruire accanto al collegio dei salesiani. Mercedes, che ormai non difettava di denaro, affidò alla direttrice dell’Istituto, Suor Angela Piai, italiana, coadiuvata da Suor Azócar, cilena, l’educazione (delle sue due figlie). L’azienda di Quilquihué non poteva evidentemente essere la loro casa. Nel presentare loro Laura, piuttosto esile di corpo, di faccia piccola e rotondetta, quasi ignara di preghiere, dichiarò: “La mia cara figlia non mi ha dato mai un dispiacere. Fin dai suoi primi anni fu sempre ubbidiente e tranquilla”. In quattro anni, sotto la sapiente guida spirituale di Don Augusto Crestanello, confessore nell’attiguo Collegio dei salesiani, Laura si sarebbe santificata e avrebbe consumato il suo olocausto per la conversione della mamma.
Appena la Beata, a contatto delle suore, comincio a conoscere meglio la verità della fede e le preghiere, propose di “essere sempre buona”. Per non venire meno al suo proposito, con umiltà e semplicità era solita chiedere loro spiegazioni circa la maniera di praticare questa o quella virtù, dando così a vedere di possedere, secondo la direttrice, “un criterio superiore alla sua età e una vera inclinazione alla pietà”. Secondo Don Crestanello divenne a poco a poco “una delle alunne più provette” nello studio e nel lavoro, e “in religione e in condotta tanto diligente da riportare sempre la classifica di ottima”. Suor Rosa, sua maestra, depose nei processi: “Non c’era pericolo che lasciasse cadere a terra una sola parola delle nostre istruzioni o raccomandazioni, specialmente se religiose”, Non stupisce quindi che abbia incominciato presto a esercitare un benefico influsso sulle sue compagne, in genere molto rozze, più pronte a montare su focosi puledri che a impugnare penna e ago. Tra tutte, la Beata predilesse le sorelle Maria e Mercedes Vera, figlie dei principali benefattori del collegio, le quali si sentirono invogliate a imitarne tutte le virtù.
La prima volta che Laura, durante la scuola di catechismo, udì la spiegazione del sacramento del matrimonio svenne. Evidentemente aveva capito che sua madre, non essendo legittima sposa di Manuél Mora, viveva abitualmente in disgrazia di Dio. Da quel giorno un mortale patire non darà più tregua al suo spirito. La signora Mercedes ogni tanto comparirà in collegio per rivedere le figlie, rifornirle di ogni ben di Dio che una volta all’anno andava a comperare a Temuco, pagare per entrambe trenta pesetas di pensione, ma non le passerà neppure per la testa l’idea di regolarizzare il proprio matrimonio, benché Laura si industriasse di condurla nella cappella per una breve visita a Gesù Sacramentato ogni volta che giungeva a Junin in occasione di accademie, di premiazioni e delle grandi solennità.
Giulia, la prediletta della madre, era il rovescio di Laura, tanto per la sua naturale vivacità, quanto per il colore scuro della pelle. Quando non si comportava bene, faceva capricci o si abbigliava con eccessiva ricercatezza, la Beata si inquietava un po’, ma poi la riprendeva “con modi e con attenzioni che sembravano più di una madre che di una sorella”. Al termine di ogni anno scolastico esse erano costrette a trascorrere le vacanze estive nell’azienda agricola di Quilquihué. Laura ne avrebbe fatto volentieri a meno. Vi si recava per l’amore riverenziale che la legava alla madre con il fermo proposito, però, di essere fedele alle sue pratiche di pietà benché nella località non esistessero chiese.
All’inizio di ogni anno scolastico Laura era molto felice di ritornare “al suo paradiso” – così chiamava il collegio – e di riprendere gli studi dopo una buona confessione. Nel corso del 1901, quando la superiora la esortò a prepararsi alla prima comunione con un maggior impegno nello studio del catechismo e nell’esercizio delle virtù, due grosse lacrime di gioia le imperlarono il viso. La Beata andò incontro al suo Dio il 2 giugno dopo aver chiesto perdono alla madre, alle suore e ad alcune compagne dei dispiaceri che aveva loro dato. In quell’occasione, sull’esempio di S. Domenico Savio (+1857) propose; “1° – Mio Dio, voglio amarti e servirti per tutta la vita; perciò ti dono la mia vita, il mio cuore, tutto il mio essere. 2° – Voglio morire piuttosto di offenderti con il peccato; perciò intendo mortificarmi in tutto ciò che mi allontanerebbe da te. 3° – Propongo di fare quanto so e posso perché tu sia conosciuto e amato, e di riparare le offese che ricevi ogni giorno dagli uomini, specialmente dalle persone della mia famiglia. Mio Dio, dammi una vita di amore, di mortificazione di sacrificio “. La preghiera della Beata fu esaudita. Quel giorno, già amareggiato dall’assenza della mamma alla sacra mensa, Gesù le fece dono non di una, ma di molteplici croci che portò senza un lamento fino al supremo olocausto. Pur essendo di costituzione sana. nella fanciullezza e nella adolescenza andò soggetta per un anno e mezzo a enuresi notturna tanto per debolezza organica guanto per il freddo intenso delle Ande che nei mesi invernali scendeva fino a 12° sotto zero. Di questo inconveniente sofferse assai sia perché era diventata oggetto di burle da parte delle compagne, sia perché veniva immeritatamente castigata essendo ritenuta “abulica e pigra”. Don Crestanello presunse, con scarsa conoscenza scientifica, di curarla con bagni freddi di immersione. Laura, asserì la sua superiora, “ubbidì come un agnello e sebbene al momento di immergerla nell’acqua battesse i denti e tutto il suo corpicino tremasse tanto da strappare a me le lacrime, essa non proferiva una parola di lamento, ma si conservava serena e fiduciosa”.
Nell’educare le alunne, le Figlio di Maria Ausiliatrice insistevano molto sulla necessità della virtù dell’obbedienza perché in famiglia erano cresciute a briglie sciolte. Laura, sia al direttore sia alle maestre, prestò sempre una obbedienza pronta e allegra perché era convinta che soltanto così avrebbe compiuto la volontà di Dio. Tanto in classe, perciò, quanto nel laboratorio osservava il silenzio prescritto dal regolamento anche in mancanza dell’assistente, e al tocco della campana lasciava sovente incompleta una parola o un punto di cucito.
La Beata trovò la forza di portare le croci che diventavano ogni giorno più pesanti nel confessarsi frequentemente, nonostante la derisione della sorella, nell’accostarsi ogni giorno al banchetto eucaristico durante la Messa che veniva celebrata nella vicina cappella dei salesiani per entrambi i collegi, e nel moltiplicare nei momenti liberi, le visite al SS. Sacramento, che le Suore conservavano in una stanzetta del loro Istituto. L’Eucarestia costituiva per lei il centro di tutte le sue aspirazioni. Chi le visse accanto affermò che alla presenza di Gesù sacramentato più che una creatura pareva un angelo. Davanti al tabernacolo, che adornava con i fiori colti nel giardinetto affidato alle sue cure, ogni tanto veniva sorpresa a versare lacrime di tenerezza, o a strascinarsi ginocchioni per terra e tracciare, con la lingua, segni di croce sul pavimento. Avevano quindi ragione alcune sue compagne di chiamarla “la schiava di Gesù”. All’uscire dalla cappella se passava accanto a una coetanea le diceva: “Perché non vai a tenere compagnia a Gesù in modo che egli non sia così soletto?”.
Benché fosse ancora bambina, la Beata dava a vedere di possedere una devozione niente affatto esagerata o affettata. Pregava e chiedeva preghiere a tutti soprattutto per la conversione della mamma e dei peccatori, ma non dimenticava le necessità della Chiesa, della patria, della famiglia salesiana e delle anime del purgatorio specialmente dopo che il suo confessore le aveva permesso di fare l’atto eroico di carità. Il 1-11-1901 Laura ebbe la consolazione di ricevere l’abitino del Carmine, e 1’8 dicembre successivo di ricevere anche il nastro delle Figlie di Maria. Secondo la sorella Giulia, fu quello uno dei più felici giorni della sua vita perché amava teneramente la Madonna, la onorava con la recita del rosario e di speciali preghiere e innumerevoli piccole rinunce. Le stava a cuore soprattutto di ravvivarne la devozione nelle compagne, specialmente in quelle più dissipate. Era edificante udirla esclamare sovente: “Vergine del Carmelo, portami in cielo!”. Oppure: “Cara Madre, Vergine Maria, fa che io salvi l’anima mia!”. Anche a lei capitava di andare di quando in quando soggetta ad aridità di spirito. Si limitava allora a sospirare: “Ah Gesù! questa settimana mi hai lasciata sola!”.
Alla chiusura dell’anno scolastico Laura fu spiacente di dovere andare ancora a trascorrere le vacanze a Quilquihué perché il Mora le incuteva spavento. Sapeva che trattava sua madre come una schiava dopo i sogni accarezzati al primo incontro e anche, forse, che il perverso padrone intendeva mantenere agli studi lei per sposarla al posto della madre alla quale non diede figli. Dalle attenzioni che le usava, dai convenevoli che le faceva, la Beata ebbe la sensazione di trovarsi in pericolo. Cosciente di possedere un corpo piuttosto sviluppato in proporzione all’età, si preparò alla inevitabile lotta moltiplicando le preghiere, che faceva di nascosto dal libidinoso terriero. La signora Mercedes confidò un giorno ad una amica, con le lacrime agli occhi, che il Mora, in una determinata circostanza, cacciò lei di casa allo scopo di restare solo con sua figlia per abusarne. Laura, che era decisa piuttosto di lasciarsi uccidere che macchiarsi di peccato, non solo gli resistette, ma riuscì persino a liberarsi dagli artigli di lui.
Un altro cozzo tra il vizio e la virtù si verificò in occasione della marcatura degli animali, nati nell’anno e della tosatura delle pecore. Al termine delle faticose giornate, il Mora preparò per coloro che lo avevano aiutato carni cotte allo spiedo, bevande alcooliche e pasticcini casarecci in grande quantità. Poiché la baldoria notturna doveva terminare con un ballo, il padrone volle prendersi la rivincita dello scorno subito da parte di Laura obbligandola a danzare con lui. L’intrepida Figlia di Maria prima timidamente si schernì, poi energicamente si rifiutò. L’avvinazzato padrone montò su tutte le furie, ricoprì la fanciulla di volgarissimi insulti, l’afferrò brutalmente per un braccio e la cacciò fuori di casa, nelle tenebre. Accorse accanto a lei la madre, la quale la scongiurò di compiacere il suo benefattore in ciò che non era peccato, ma Laura fu irremovibile. Mora sfogò allora tutto il suo livore sulla compagna della sua vita. La legò al palo al quale era solito annodare le briglie del suo cavallo, la insulto, la frustò e la minacciò perfino di segnarla con il marchio degli animali. Laura, a tutela della sua verginità, preferì trascorrere quella notte al chiarore delle stelle.
Il ricco e prepotente terriero sapeva che la signora Pino l’aveva seguito a Quilquihué perché le aveva promesso di pagare al collegio la pensione per l’educazione delle sue figlie; rifiutandola per ripicca si illudeva di avere partita vinta. Laura, invece supplicò la madre che le permettesse di tornare al collegio come alunna gratuita almeno per lo spazio di cinque anni, il tempo necessario per giungere alla soglie del noviziato delle Figlie di Maria Ausiliatrice. La superiora Suor Piai l’accolse con materna comprensione, e la incaricò di dedicare alle faccende domestiche con le artigiane il tempo che le sarebbe rimasto libero dallo studio. La Beata, felice di restare nella casa del Signore, le dimostrò tutta la sua riconoscenza diventando “la servetta” e delle suore e delle collegiali. Tra esse predilesse le bambine più povere, le malate e le più piccine, alle quali prestava cure materne in ricreazione, nella sala di lavoro e nel dormitorio, e donava generosamente quanto riceveva in abbondanza dalla madre; vestitini, bambole, saponi profumati, dolci, tutte cose che personalmente considerava soltanto come “rampini del diavolo”,
All’inizio di quell’anno scolastico (1902) la famiglia salesiana di Junin era in attesa della prima visita apostolica di Mons. Cagliero, e dell’inizio della missione popolare in preparazione alla Pasqua. La signora Pino, smagrita e triste, vi prese parte perché le sue due figlie il 29 marzo avrebbero dovuto essere cresimate. Anche in quella occasione, però, la mamma di Laura non si accostò ai sacramenti. Mons. Cagliero benedisse l’abito religioso a Maria Vera che aveva deciso di farsi salesiana, impose alla sorella di lei la mantellina delle postulanti, ma la rifiutò a Laura, benché la desiderasse ardentemente, con il pretesto che non aveva tutti i documenti richiesti, in realtà perché sua madre viveva in concubinato. Invece di perdersi d’animo, pregò: “O Gesù, poiché non posso venire accolta tra le anime che si consacrano a te nell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, mi offro interamente al tuo amore. Voglio essere tutta tua, anche se dovrò restare nel mondo”.
La Beata cercò comunque di farsi istruire dal suo direttore spirituale circa i voti religiosi perché, dal momento che non poteva farsi religiosa, voleva per lo meno osservarli in privato nel migliore dei modi. I doni dello Spirito Santo che aveva ricevuto in abbondanza con la comunione e la cresima la disponevano alle grandi offerte che avrebbero sublimato la sua giovane esistenza. Difatti, circa due anni prima della morte, ottenne dal confessore il permesso di consacrarsi a Dio con i voti privati, e poi di offrirsi vittima al S. Cuore di Gesù per la conversione della mamma. Da principio Don Crestanello aveva esitato a dargliene la licenza, in seguito vi aveva acconsentito perché vedeva latenti in quegli atti eroici di carità l’azione della grazia.
Dopo d’allora la Beata cominciò a fare più rapidi progressi nella virtù, nella preghiera e specialmente nell’approfondimento della parola di Dio. Nella stagione estiva, per vincere il sonno che l’assaliva durante le prediche fatte da Don Crestanello o la lettura del librettino intitolato “Pagliette d’Oro”, fatta dalla superiora al termine della Messa, non temeva di tormentare le sue braccia con punture di spillo. Se durante la giornata veniva improvvisamente interrogata su quanto aveva udito la mattina, non c’era pericolo che rimanesse impappinata. Diventò in tale maniera abilissima nel cogliere tutte le occasioni per dare buoni consigli alle compagne, fare correzioni, comporre divergenze, esortare tutte “a vivere solo per Gesù”.
Le suore dicevano soddisfatte: “Dove c’è Laura non accadono disordini”. Era difatti rispettata e amata da quasi tutte le collegiali, perché paziente e talmente servizievole da riservare a sé i lavori meno piacevoli. Non mancavano le dispettose che disfacevano i lavori da lei fatti, le permalose che cambiavano posto alla legna da lei ammassata per il riscaldamento, le bugiarde che la accusavano di azioni che non aveva commesso. Invece di mettersi a contestare e a litigare, la Beata, a costo di farsi considerare una “apatica”, tanto in classe quanto in cortile si metteva subito in ginocchio davanti alla direttrice e, con umiltà, chiedeva perdono alla presenta delle compagne.
Fedele alla sua missione di vittima, Laura, di sua iniziativa, cominciò pure a praticare aspre penitenze e con tanto ardore che il confessore fu costretto a moderarglielo. La sua amica Mercedes Vera attestò: “Molte volte la sorpresi che si metteva pietruzze nelle scarpe, assicelle nel letto, cenere nella minestra… La vidi passare lungo tempo in preghiera di notte, ai piedi del letto; baciare la terra, fare orazione con le braccia in croce o le mani sotto le ginocchia”. Con il permesso del confessore portò pure il cilicio in riparazione di certi “balli” che si davano a Quilquihué. Se lo era intrecciato con funicelle annodate quindici volte, a ricordo dei misteri del rosario, e provviste di punte moleste.
Le vacanze trascorse da Laura in collegio all’inizio del 1903 parvero rinvigorirle le forze, ma era stabilito nei disegni di Dio che il quarto anno scolastico sarebbe stato l’ultimo della sua vita. Del resto, fin dal giorno in cui si era offerta vittima, la Beata aveva avuto la chiara sensazione di essere stata esaudita. H 24 maggio di quell’anno nel collegio di Junin si svolse un’accademia per ricordare l’avvenuta incoronazione di Maria Ausiliatrice nel suo santuario di Torino alla presenza di Mons. Cagliero e del B. Michele Rua (+1910), primo successore di Don Bosco. Nel quadro allegorico, raffigurante la gloria della Madonna in cielo, Laura, vestita da angelo, fu posta in alto, vicino alla statua. Al termine della rappresentazione, alla direttrice, confidò: “Rinnovai l’offerta della mia vita guardando la mamma che era presente… Sì, sarò esaudita, me lo assicura il cuore”.
Dopo d’allora la salute della fanciulla cominciò rapidamente a peggiorare tanto che all’inizio di settembre non fu in grado di partecipare al solito corso di esercizi spirituali. Tra i suoi appunti lasciò scritto: “O avventurato paradiso, quando verrai?” Non potendo più prestare i suoi servizi alle collegiali, si limitava a pregare e a pensare a Dio contemplando le piante, i fiori e gli animali della campagna. Da tempo aveva confidato al suo direttore spirituale: “Mi sembra che Dio spesso mantenga in me il ricordo della sua presenza. Dovunque mi trovo, a scuola, in ricreazione, altrove, il pensiero di Dio mi accompagna, mi aiuta e mi consola”.
Per motivi di prudenza umana la signora Pino fece trasportare in calesse la figlia a Quilquihué. Laura non vi si oppose, benché le costasse assai lasciare il collegio. Disse soltanto nel ringraziare le suore che l’avevano assistita: “Se Gesù vuole anche questo da me, sia fatta la sua amabile volontà!”. Nell’azienda del Mora Laura peggiorò perché non disponeva di assistenza medica. La madre, dopo un mese e mezzo, decise di collocare Giulia di nuovo in collegio a Junìn, e di trasferirsi con la figlia malata in una catapecchia composta da due locali, costruiti “in paglia e fango” vicino alla cappella dei salesiani. Il farmacista giunto da poco tempo in quei paraggi le prestò alcune cure, ma la malata gli disse: “Invano lei adopera i suoi rimedi per farmi guarire. Mi pare che si tratti dell’ultima malattia. Non guarirò più”.
Finché le forze glielo permisero la Beata ne approfittò per accostarsi ai sacramenti e fare visita a Gesù sacramentato. Giulia Cifuentes, che andava a rilevarla, testimoniò di averla trovata talvolta inginocchiata su pietruzze e di aver costatato che faceva uso di pezzi di legno per cuscino. Se si permetteva di fargliene le meraviglie, Laura le diceva con molta convinzione: “Bisogna che offriamo sacrifici a Dio per la salvezza delle anime”. Per il ravvedimento della mamma mille volte al giorno gli rinnovava di cuore la sua offerta.
Allo spuntare del 1904 le forze della Beata parevano giunte ormai allo stremo. Verso la metà di gennaio, nel pomeriggio, giunse a Junìn il prepotente signore di Quilquihué con la pretesa di passare la notte nella casetta di fango. La signora Pino, costernata, cercò di opporsi, ne segui un violento alterco. Quando alla malata parve che il Mora stesse per avere la meglio scattò: “Se egli si ferma qui, io me ne vado in collegio, dalle suore”. E, senza aggiungere verbo, si alzò, usci in strada e si incamminò barcollando verso il collegio. Lo scellerato rincorse “la santarella”, l’agguantò e la percosse selvaggiamente. La liberò dai suoi artigli la signora Felicinda Lagos, sua madrina, sopraggiunta casualmente mentre la malmenava. Appena Don Crestanello (+1925) ne fu informato, esclamò con le lacrime agli occhi: “Non vi è dubbio che sia una piccola santa!”.
Laura, ridotta ormai a pelle e ossa, si rimise a letto per non più alzarsi. Da quel giorno la sua misera stanzetta vide un continuo succedersi di compagne, di amiche e conoscenti alle quali rivolgeva, serena in volto, brevi raccomandazioni mentre contemplava intrecciato a forma di M ai piedi del letto, il nastro celeste con la medaglia dell’Immacolata. Il confessore le portò la comunione prima che ai suoi dolori si aggiungessero sbocchi di sangue e vomiti. Durante il giorno univa le proprie sofferenze a quelle di Gesù, e recitava giaculatorie con tanta devozione da strappare ai presenti le lacrime. Anche la sua superiora, Suor Piai, e la sua maestra, Suor Azocar, l’andarono a confortare e a salutare perché erano in procinto di partire con Don Crestanello per Santiago del Cile. La morente sospirò; “Mio Dio, dovrò dunque morire senza che nessuno di quelli che mi possono aiutare si trovino accanto a me? Ah, Gesù mio, quanto è duro!…Ma si compia la tua volontà'”.
Di lei si prese paterna cura un altro missionario salesiano, Don Zaccaria Genghini, il quale, all’alba del 22 gennaio 1904, le portò la comunione in forma di viatico e, durante la mattinata, le amministrò la santa unzione. Nel pomeriggio andò a trovarla un chierico salesiano in vacanza nel collegio di Junìn. Gli sorrise, prese tra le mani la statuetta di Maria Ausiliatrice che in precedenza le aveva portato, e gli disse: “È Maria che mi da forza e gioia in questi momenti… Quello che più mi consola adesso è l’essere stata sempre devota di Maria. Oh, si Ella è mia madre! Nulla mi rende tanto felice quanto il pensare che sono Figlia di Maria!”.
Verso le ore diciassette, Laura, dopo aver fatto alcune brevi raccomandazioni alla sorella Vera, sentì che le forze stavano per venirle meno. Chiamò allora accanto a sé Don Genghini il quale, dalla stanza attigua, fece accorrere anche la madre. In preda all’agitazione costei gridò: “Figlia! Figlia mia! Mi lasci dunque sola così?”. Laura, con voce rotta dall’emozione, per la prima volta le confidò: “Sì, mamma, io muoio. Io stessa l’ho chiesto a Gesù… Sono quasi due anni che gli ho fatto l’offerta della mia vita per te, per ottenere la grazia del tuo ritorno! Ah mamma, prima di morire non avrò la gioia di vederti pentita?”. A quella rivelazione la signora Pino rimase come folgorata. Cadde in ginocchio accanto alla figlia morente e, tra un prefluvio di lacrime, gemette: “Io dunque sono stata la causa del tuo lungo patire, e ora della tua morte? Oh, me infelice! Figlia mia, ti giuro in questo momento che farò quanto mi chiedi. Sono pentita. Dio è testimone della mia promessa!”.
Soddisfatta della grazia ottenuta a prezzo della vita Laura baciò e ribaciò il crocifisso che stringeva tra le mani mentre Don Genghini le raccomandava l’anima. Morì quella sera stessa di tubercolosi, dopo aver esclamato: “Grazie, Gesù! Grazie, Maria! Ora muoio contenta!” Le mancavano due mesi e pochi giorni a compiere tredici anni. Attorno alla salma, con preghiere di suffragio, si udivano anche espressioni come queste: “Era una santa! Laura, vergine e martire prega per noi !”. La signora Pino confermava; “Sì, sì, vergine; e martire per me!”. Durante i funerali che si svolsero in parrocchia ella si confessò e, dopo tanti anni, si accostò al banchetto eucaristico. A Don Genghini aveva dato l’incarico di fare sapere al suo compagno di torbidi amori “che non pensasse più a lei perché aveva deciso di cambiare vita”.
Costui, invece, una decina di giorni dopo la morte di Laura, apparve nella casupola in cui era spirata per costringere la signora Pino a ritornare a convivere con lui. Ella lo mise in fuga proclamando ad alta voce: “Ancorché mi debba costare la vita, manterrò il giuramento fatto a mia figlia”. Affittò una casetta e riprese a fare la sarta, Quando Giulia raggiunse i dodici anni di età volle che si maritasse per sottrarla alle brame del prepotente signore di Quilquihué. In seguito ritornò in Cile insieme alla figlia e alla famiglia di lei, dove contrasse matrimonio con un impiegato delle ferrovie, e trascorse l’ultimo ventennio della vita dedicandosi alla preghiera, all’espiazione dei suoi peccati e al commercio (+1929). Manuél Mora invece perì in una rissa al passo Flores, durante una corsa di cavalli, senza sacramenti, tra il 1906 e il 1907.
Giovanni Paolo II di Laura Vicuna riconobbe l’eroicità delle virtù il 5-6-1986, e la beatificò a Colle Don Bosco il 3-9-1988. Le sue reliquie sono venerate dal 1955 nella cappella dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice di Bahìa Bianca (Patagonia Settentrionale).
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 1, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 276-287.
http://www.edizionisegno.it/