1. A partire dagli anni ’70, con inizio nei Paesi più sviluppati nel mondo, è venuta diffondendosi una insistente campagna a favore dell’eutanasia intesa come azione o omissione che di natura sua e nelle intenzioni provoca l’interruzione della vita del malato grave o anche del neonato malformato. Il motivo che abitualmente si adduce è quello di voler così risparmiare al paziente stesso sofferenze definite inutili. Si sono sviluppate campagne e strategie in questo senso.
La PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA propone alcune considerazioni sull’argomento.
1. A partire dagli anni ’70, con inizio nei Paesi più sviluppati nel mondo, è venuta diffondendosi una insistente campagna a favore dell’eutanasia intesa come azione o omissione che di natura sua e nelle intenzioni provoca l’interruzione della vita del malato grave o anche del neonato malformato. Il motivo che abitualmente si adduce è quello di voler così risparmiare al paziente stesso sofferenze definite inutili. Si sono sviluppate campagne e strategie in questo senso, portate avanti con il supporto di associazioni pro-eutanasia a livello internazionale, con pubblici manifesti firmati da intellettuali e uomini di scienza, con pubblicazioni favorevoli a tali proposte – alcune, corredate perfino di istruzioni volte ad insegnare a malati e non i vari modi di porre fine alla vita, quando questa fosse ritenuta insopportabile – , con inchieste che raccolgono opinioni di medici o di personaggi noti all’opinione pubblica, favorevoli alla pratica dell’eutanasia e, infine, con proposte di leggi portate di fronte ai Parlamenti, oltre ai tentativi di provocare sentenze delle Corti che potrebbero dare corso ad una pratica di fatto dell’eutanasia o, almeno, alla sua non punibilità. 2. Il recente caso dell’Olanda, dove già esisteva da qualche anno una sorta di regolamentazione che rendeva non punibile il medico che praticasse l’eutanasia su richiesta del paziente, pone un caso di vera e propria legalizzazione dell’eutanasia su richiesta, sia pure circoscritta a casi di malattia grave ed irreversibile, accompagnata da sofferenze e a condizione che tale situazione sia portata davanti ad una verifica medica che si propone come rigorosa. Il perno della giustificazione che si vuol accampare e far valere di fronte all’opinione pubblica è sostanzialmente costituito da due idee fondamentali: a) dal principio di autonomia del soggetto, il quale avrebbe diritto di disporre in maniera assoluta della propria vita; b) dalla persuasione più o meno esplicitata della insopportabilità e inutilità del dolore che può talora accompagnare la morte. 3. La Chiesa ha seguito con apprensione tale sviluppo di pensiero, riconoscendovi una delle manifestazioni dell’indebolimento spirituale e morale riguardo alla dignità della persona morente e una via “utilitarista” di disimpegno di fronte alle vere necessità del paziente. Nelle sue riflessioni, essa ha mantenuto costante contatto con gli operatori e specialisti della medicina, ricercando la fedeltà ai principi e ai valori dell’umanità condivisi dalla massima parte degli uomini, alla luce della ragione illuminata dalla fede, e producendo documenti che hanno ricevuto l’apprezzamento di professionisti e di larga parte dell’opinione pubblica. Vogliamo ricordare la Dichiarazione sull’Eutanasia (1980), pubblicata 20 anni or sono dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, il documento del Pontificio Consiglio “Cor Unum” Questioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti (1981), l’Enciclica Evangelium Vitae (1995) di Giovanni Paolo II (in particolare ai nn. 64-67), la Carta degli Operatori sanitari, redatta dal Pontificio Consiglio per la Pastorale della salute (1995). In questi documenti del Magistero non ci si è limitati a definire l’eutanasia come moralmente inaccettabile, “in quanto uccisione deliberata di una persona umana” innocente (cfr EV 65. Il pensiero dell’Enciclica è precisato al n. 57, consentendo così la giusta interpretazione del passo del n. 65 appena citato), o come azione “vergognosa” (cfr Conc. Vat. II, GS 27) , ma è stato anche offerto un itinerario di assistenza al malato grave e al morente che fosse, sia sotto il profilo dell’etica medica, sia sotto il profilo spirituale e pastorale, ispirato alla dignità della persona, al rispetto della vita e dei valori della fraternità e della solidarietà, sollecitando persone ed istituzioni a rispondere con testimonianze concrete alle sfide attuali di una dilagante cultura di morte. Recentemente, questa Pontificia Accademia per la Vita ha dedicato una delle sue Assemblee generali (dopo un lavoro preparatorio durato diversi mesi), allo stesso tema, pubblicandone poi gli Atti conclusivi nel volume intitolato “The Dignity of the Dying Person” (2000). 4. Vale la pena ricordare qui, pur rinviando ai documenti appena citati, che il dolore dei pazienti, di cui si parla e su cui si vuol fondare una specie di giustificazione o quasi obbligatorietà dell’eutanasia e/o del suicidio assistito, è oggi più che mai un dolore “curabile” con i mezzi adeguati dell’analgesia e delle cure palliative proporzionate al dolore stesso; questo, se accompagnato dall’adeguata assistenza umana e spirituale, può essere lenito e confortato in un clima di sostegno psicologico e affettivo. Eventuali richieste di morte da parte di persone gravemente sofferenti – come dimostrano le inchieste fatte fra i pazienti e le testimonianze di clinici vicini alle situazioni dei morenti – quasi sempre costituiscono la traduzione estrema di un’accorata richiesta del paziente per ricevere più attenzione e vicinanza umana, oltre alle cure appropriate, entrambi elementi che talvolta vengono a mancare negli ospedali di oggi. Risulta quanto mai vera la considerazione già proposta dalla Carta degli Operatori sanitari: “l‘ammalato che si sente circondato da presenza amorevole umana e cristiana, non cade nella depressione e nell’angoscia di chi invece si sente abbandonato al suo destino di sofferenza e di morte e chiede di farla finita con la vita. È per questo che l’eutanasia è una sconfitta di chi la teorizza, la decide e la pratica” (n. 149). A tal proposito, vien fatto di domandarsi se per caso, sotto la giustificazione della insopportabilità del dolore del paziente, non si nasconda invece l’incapacità dei “sani” di accompagnare il morente nel suo difficile travaglio di sofferenza, di dare senso al dolore umano – che comunque non è mai del tutto eliminabile dall’esperienza della vita umana quaggiù – e una sorta di rifiuto dell’idea stessa della sofferenza, sempre più diffuso nella nostra società del benessere e dell’edonismo. Non è poi da escludere che, dietro alcune campagne “pro-eutanasia”, si nascondano questioni di spesa pubblica, ritenuta insostenibile ed inutile di fronte al prolungarsi di certe malattie. 5. È dichiarando curabile (nel senso medico) il dolore e proponendo, come impegno di solidarietà, l’assistenza verso colui che soffre che si giunge ad affermare il vero umanesimo: il dolore umano chiede amore e condivisione solidale, non la sbrigativa violenza della morte anticipata. Per altro, il c.d. principio di autonomia, con cui si vuole talvolta esasperare il concetto di libertà individuale, spingendolo al di là dei suoi confini razionali, non può certo giustificare la soppressione della vita propria o altrui: l’autonomia personale, infatti, ha come presupposto primo l’essere vivi e reclama la responsabilità dell’individuo, che è libero per fare il bene secondo verità; egli giungerà ad affermare se stesso, senza contraddizioni, soltanto riconoscendo (anche in una prospettiva puramente razionale) di aver ricevuto in dono la sua vita, di cui perciò non può essere “padrone assoluto”; sopprimere la vita, in definitiva, vuol dire distruggere le radici stesse della libertà e dell’autonomia della persona. Quando poi la società arriva a legittimare la soppressione dell’individuo – non importa in quale stadio di vita si trovi, o quale sia il grado di compromissione della sua salute – essa rinnega la sua finalità e il fondamento stesso del suo esistere, aprendo la strada a sempre più gravi iniquità. Nella legittimazione dell’eutanasia, infine, si induce una complicità perversa del medico che, per la sua identità professionale ed in forza delle inderogabili esigenze deontologiche ad essa legate, è chiamato sempre a sostenere la vita e a curare il dolore, giammai a dare la morte “neppure mosso dalle premurose insistenze di chicchessia” (Giuramento di Ippocrate); tale convinzione etica e deontologica ha varcato i secoli intatta nella sua sostanza, come conferma, ad esempio, la Dichiarazione sull’Eutanasia dell’Associazione Medica Mondiale (39 Assemblea – Madrid 1987)
“L’Eutanasia, vale a dire l’atto di porre fine deliberatamente alla vita di un paziente, sia in seguito alla richiesta del paziente stesso oppure alla richiesta dei suoi congiunti, è immorale. Questo non impedisce al medico di rispettare il desiderio di un paziente di permettere al naturale processo di morte di seguire il suo corso nella fase finale di malattia“. La condanna dell’eutanasia espressa dall’Enciclica Evangelium Vitae perché “grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana” (n. 65), racchiude il peso della ragione etica universale (è fondata sulla legge naturale) e la istanza elementare della fede in Dio Creatore e custode di ogni persona umana. 6. La linea di comportamento verso il malato grave e il morente dovrà dunque ispirarsi al rispetto della vita e della dignità della persona; dovrà perseguire lo scopo di rendere disponibili le terapie proporzionate, pur senza indulgere in alcuna forma di “accanimento terapeutico”; dovrà raccogliere la volontà del paziente quando si tratta di terapie straordinarie o rischiose – cui non si è moralmente obbligati ad accedere -; dovrà assicurare sempre le cure ordinarie (comprese nutrizione ed idratazione, anche se artificiali) ed impegnarsi nelle cure palliative, soprattutto nell’adeguata terapia del dolore, favorendo sempre il dialogo e l’informazione del paziente stesso. Nell’immediatezza di una morte che appare ormai inevitabile ed imminente “è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita” (cfr Dich. su Eutanasia, parte IV), poiché vi è grande differenza etica tra “procurare la morte” e “permettere la morte”: il primo atteggiamento rifiuta e nega la vita, il secondo accetta il naturale compimento di essa. 7. Le forme di assistenza domiciliare – oggi sempre più sviluppate, soprattutto per il paziente malato di tumore -, il sostegno psicologico e spirituale dei familiari, dei professionisti e dei volontari, possono e devono trasmettere la persuasione che ogni momento di vita ed ogni sofferenza sono abitabili dall’amore e sono preziosi davanti agli uomini e davanti a Dio. L’atmosfera della solidarietà fraterna dissipa e vince l’atmosfera della solitudine e la tentazione della disperazione. L’assistenza religiosa in particolare – che è un diritto ed un aiuto prezioso per ogni paziente e non soltanto nella fase finale della vita – se accolta, trasfigura il dolore stesso in atto di amore redentivo e la morte in apertura verso la vita in Dio. Le brevi considerazioni qui offerte si pongono accanto al costante insegnamento della Chiesa, la quale, sforzandosi di essere fedele al suo mandato di “attualizzare” nella storia lo sguardo d’amore di Dio per l’uomo, soprattutto quando è debole e sofferente, continua ad annunciare con forza il Vangelo della vita, certa com’è che, nel cuore di ogni persona di buona volontà, esso possa risuonare ed essere accolto: tutti, infatti, siamo invitati a far parte del “popolo della e per la vita”! (cfr Evangelium Vitae 101).
Il Presidente JUAN DE DIOS VIAL CORREA
Il Vice-Presidente Mons. ELIO SGRECCIA
Città del Vaticano, 9 Dicembre 2000