La presa di posizione di uno storico cattolico di fronte al film ‑ e al romanzo ‑Il nome della rosa è trascritta integralmente ‑ titolo compreso ‑ da Avvenire, del 10 dicembre 1986, dove è comparsa nella rubrica Lettere.
Da diverse settimane si sta proiettando in tutta Italia, non saprei dire con quale successo, ma certamente col supporto di una adeguata campagna di sostegno, il film Il nome della rosa liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Umberto Eco. Si tratta di un film poliziesco, di scarsa sostanza anche come «giallo», ambientato, però, nel Medio Evo, e più precisamente in un’abbazia del XIV secolo. Proprio a questo proposito desidero intervenire per avvertire gli spettatori meno esperti di storia che tutta la descrizione fatta nel film di quell’epoca è completamente falsa.
Di certo anche i più sprovveduti tra gli spettatori non dubitano, credo, che i tipi, i ritratti, le ambientazioni sono forzate all’estremo: tanto vistosi infatti sono i particolari caricaturali e grotteschi che, sulle prime, ma ahimè erroneamente, si potrebbe pensare alla presenza di una qualche forma di ironia. Ma attenzione: non si tratta della forzatura di qualcosa che abbia una qualche parentela, anche soltanto vaga, con la realtà storica.
Il film accoglie, per esasperarla, una vecchia, illuministica, falsificatrice visione del Medio Evo; essa era già riconoscibile e riconosciuta come falsa allora, quando fu, con intenti dichiaratamente anticristiani, formulata; che venga riproposta oggi, dopo che la conoscenza storica tanto è avanzata nello studio, in tutti i suoi aspetti, di quel millennio che va sotto il nome di Medio Evo è francamente esasperante e sarebbe incredibile se non si sapesse di quanto l’odio per il cristianesimo e la voluta ignoranza sono capaci.
Bertoldo potrebbe rispondere facilmente al suo granduca. Com’era il popolo? Credulone e superstizioso, pauroso ed ignorante. Com’erano i monaci? Ricchi, golosi, spietati, viziosi, oscurantisti, nemici della vita. Quale periodo attraversava allora la Chiesa? Un lungo periodo buio, pieno di crudeltà ed ignoranza. Cosa facevano i poveri? Morivano di fame assillati dalle tasse.
Colleghi mi hanno detto che in fondo tutto è così falso che non vale nemmeno la pena di parlarne. Ma milioni e milioni di persone nel mondo subiscono, intanto, il bombardamento di una menzogna che certamente, grazie alla forza delle immagini, lascerà il segno. Allora, per quel poco che posso, sento di dover protestare.
Protesto, dunque, un po’ demoralizzato, come professore di storia medievale che vede oltraggiati duecento anni di faticose ricerche negli archivi e nelle biblioteche, duecento anni di sforzi per avvicinarsi alla comprensione della realtà storica.
Protesto, indignato, come uomo di cultura che vede un certo regista Jean‑Jacques Annaud, gonfiato dal denaro dei produttori e dalle voci servili o comprate di molti giornalisti, farsi beffe di ogni dovere morale e intellettuale di rispettare la verità storica.
Protesto, amareggiato, come cristiano che vede insultato un periodo glorioso della storia della Chiesa e constata che anche in campo cattolico voci che dovrebbero vigilare si piegano in modo supino e ridicolo a ripetere la vecchia «leggenda nera» anticristiana.
Non ho qui lo spazio per tentare, foss’anche minimamente, una sintesi o un’esemplificazione del debito che l’umanità ha contratto, secolo dopo secolo, con il monachesimo e con i monaci; s’intenda: un debito culturale, tecnologico, materiale, anche al di là di ogni considerazione di ordine religioso e spirituale. E neppure ho lo spazio per confutare tante menzogne, di sostanza e di dettaglio. Ma che il lettore – spettatore si guardi intorno, in questo nostro paese benedetto, ove il Medio Evo ha lasciato, quasi a ogni angolo, così tante, e luminose, tracce di sè: e immediatamente l’incantesimo svanirà, mostrandosi così per cartapesta volgare quel che non è altro, in effetti, che cartapesta volgare.
Resta, tuttavia, un sospetto più vivo sull’ambiguo romanzo di Umberto Eco, il quale, da parte sua, si è mantenuto nell’ambiguità a proposito dei rapporti tra la sua opera letteraria e la pellicola che oggi vorrebbe ripeterne lo strepitoso successo. Sarà forse ora più facile metterne a nudo, dietro l’abilità della costruzione, la scorrevolezza della pagina, il pudore di chi ha studiato un po’ di storia e di filosofia medievali, la sostanziale e illuministica indifferenza verso la verità storica.
Marco Tangheroni
Direttore del Dipartimento di Medievistica dell’Università di Pisa