Perchè si studia la storia della filosofia (Cap.IX)

LA RISCOPERTA DI ARISTOTELE NEL XIII SECOLO E  TOMMASO D’AQUINO (VI)
Di Antonio Livi  Tratto da “Dal senso comune alla dialettica. Una storia della filosofia”, Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2004-2005. CAPITOLO NONO. LA RISCOPERTA DI ARISTOTELE NEL XIII SECOLO E  TOMMASO D’AQUINO. Dal mondo a Dio.

Dal mondo a Dio
Ogni ente, nella sua individualità e perfettibilità, è ordinato alla realizzazione di sé in rapporto con gli altri enti. Si tratta di una molteplicità di enti di cui la ragione non solo constata l’ordine e l’armonia, ma cerca l’origine, cioè la causa, per possederne il valore. Ora il molteplice, essendo per sua natura contingente, deve postulare l’Uno necessario; vi deve essere cioè un principio trascendente e assoluto il quale, oltre a costituire la dinamica e il fine di tutti gli esseri, come aveva insegnato Aristotele, deve esserne, per Tommaso, causa libera, assoluta ed eterna, che lo produce dal nulla e lo governa con quella sapienza e armonia con cui si manifesta.Gli enti molteplici di cui è costituito l’universo sono distinti l’uno dall’altro per la loro individualità, caratterizzata dalla composizione di materia e forma; sicché il principio dell’individuazione dell’essere è, per Tommaso, la determinazione quantitativa che la materia riceve dalla forma (materia quantitate signata). Ciò riguarda la metafisica del molteplice cosmico, cioè la cosmologia; il mondo però è considerato da Tommaso come un “organismo” in cui ciascuna parte, pur avendo individualità per sé stessa, contribuisce efficacemente all’armonia e perfezione dell’insieme.
Queste sostanze, al pari degli esseri cosmici, postulano metafisicamente una causa da cui hanno avuto il loro essere. Tale causa non può essere un cieco impulso, inteso come animazione della materia: se così fosse non ne potrebbe risultare ordine e perfezione; né può essere una natura materiale, giacché si confonderebbe con il molteplice e non potrebbe essere causa delle sostanze immateriali; non può essere neppure una potenza misteriosa, immanente negli esseri, inaccessibile alle capacità razionali, poiché è proprio la ragione a rendersi conto dell’impronta razionale e trascendente di cui è sostanziato l’intero universo. Ne consegue che il molteplice, sia materiale che spirituale, è opera di un Essere incausato e causante, trascendente e personale, la cui natura contiene in sé in modo eminente, infinito ed eterno, tutto il valore ontologico e perfettivo che la ragione riscontra nell’insieme degli enti dell’esperienza. Siamo giunti così al culmine del problema, alla ricerca cioè dell’Essere-causa, dell’Uno-principio, donde ha origine il molteplice degli enti e anche il fine del loro dinamismo. Tale indagine ci trasferisce dal problema metafisico a quello teologico, rimanendo, s’intende, sempre nel campo della ragione naturale.
Dio è l’Essere come Soggetto e Persona[50], colui che liberamente crea e governa l’universo: è causa assoluta a cui ciascuna creatura deve la sua esistenza e tutte le sue perfezioni, sia attuali che possibili. La sua natura è infinita e onnipotente, la sua essenza è perfezione in atto, perciò nel suo essere non si può dare alcuna distinzione tra essenza ed esistenza. Tale distinzione infatti, è necessaria per spiegare la costituzione ontologica degli enti molteplici e finiti, nei quali l’essenza indica la potenza e l’esistenza esprime l’attuazione di tale potenza; ma in Dio non può aver luogo alcuna potenza, in quanto la sua essenza è atto purissimo, cioè perfezione totale e inesauribile eternamente in atto.
Ma — si domanda giustamente Tommaso —, come si spiega la creazione? Se Dio è purissimo atto, semplicità assoluta, come può derivare da Lui l’essere di enti materiali, limitati, diversi tra loro? La sapienza classica in genere, specialmente con Platone e Aristotele, aveva affermato l’eternità del mondo, ma rimaneva la difficoltà metafisica secondo la quale non si può ammettere l’eternità di enti per loro natura contingenti, mutabili e corruttibili, poiché l’eternità è immutabilità, incorruttibilità, necessità e perfezione. Né d’altra parte il mondo può essersi dato da sé l’esistenza, giacché il contingente non può essere causa di sé stesso; rimane da vedere come ha fatto Dio a crearlo.
La creazione è per la filosofia cristiana attività libera, propria della natura divina, con la quale si hanno dal nulla le creature. Dio non genera il mondo, non produce gli esseri derivandoli (come immaginava Plotino) dalla sua essenza spirituale, ma li trae dal nulla con l’atto eterno del suo pensiero onnipotente; perciò si spiega come la natura materiale, pur essendo diversa da quella umana, sia anch’essa effetto della creazione, della perfezione e della provvidenza di Dio. Sicché la creazione di cui parla la Rivelazione, esaminata alla luce della ragione, costituisce per Tommaso un valore positivo della ragione, una conquista irrinunciabile del pensiero.
Alla stessa maniera Tommaso procede per provare l’esistenza di Dio; a tale proposito osserva che l’argomento di Anselmo di Aosta non costituisce una prova vera e propria dell’esistenza di Dio, poiché in esso non viene distinto metafisicamente l’essere logico (o possibile) da quello reale (o sussistente). Non a priori dunque ma a posteriori si può provare l’esistenza di Dio, precisamente attraverso cinque argomenti, le celebri “cinque vie”, che si richiamano in parte al processo dimostrativo aristotelico e che sono elencate nella Summa theologiae, I, q. 2, a. 3 come cinque diversi argomenti (nel Liber de veritate catholicae fidei Tommaso adopera invece solo l’argomento del divenire, della causalità, dei gradi di perfezione e dell’ordine: manca la “terza via”).1) La prima via riguarda il moto, ossia il movimento[51] a cui tutte le cose sono soggette e che implica una causa motrice: «Se dunque l’ente da cui una cosa è mossa — insegna Tommaso — è a sua volta mosso (cioè, è soggetto al movimento), è necessario che sia mosso da altro e questo da altro ancora: ma non si può così procedere all’infinito, perché allora non vi sarebbe un primo motore e per conseguenza non vi sarebbe nessun motore, in quanto i motori secondi non muovono se non sono mossi dal primo […]; perciò è necessario giungere a un primo motore non mosso da altro: in esso tutti riconoscono Dio».
2) La seconda via prende in esame la causa efficiente e consiste in uno sviluppo dell’argomento del motore immobile; tutto il creato infatti è ordinato da una connessione di cause efficienti, le quali, a loro volta, essendo effetti di altre cause, l’una connessa all’altra, richiedono necessariamente un principio efficiente che non sia effetto di altri e sia causa prima di tutte: «Dunque è necessario — insegna Tommaso — porre una prima causa efficiente che tutti chiamano Dio».
3) La terza via è connessa alle prime due e riassume l’esigenza metafisica secondo la quale ogni ente contingente implica un ente necessario, e ogni ente necessario relativo richiede l’Essere necessario assoluto: «Perché — afferma Tommaso — bisogna porre qualcosa che sia necessario per sé e non abbia in altro la causa della propria necessità, ma sia causa della necessità degli altri».
4) La quarta via considera i «gradi dell’essere», e così dalle perfezioni limitate si giunge a quella infinita; ogni essere infatti contiene un grado di perfezione rispondente alla sua natura: «Esiste dunque qualcosa — insegna Tommaso — che è causa dell’essere, della bontà e di qualsiasi perfezione di tutti gli esseri che noi chiamiamo Dio».
5) La quinta via ha come punto di partenza l’ordine sapiente che tutti gli enti, sia razionali che irrazionali, esprimono, essendo per natura diretti sempre a un fine che indica bene e perfezione: «Ora — conclude Tommaso — le cose prive di conoscenza non tendono al fine se non sono dirette da un essere, conoscente e intelligente, come la freccia dell’arciere. Vi è dunque un essere intelligente da cui tutte le cose naturali sono ordinate a un fine, e questo essere noi lo chiamiamo Dio».
Come si vede, il processo dimostrativo tomistico è caratterizzato da una base oggettiva ed empirica che lo differenzia da quello dell’agostinismo (Agostino, Anselmo, Bonaventura da Bagnoregio). Tommaso infatti non accetta la possibilità di una conoscenza di Dio per immediata intuizione, ma elabora un’argomentazione rigorosamente razionale, nella quale i dati fondamentali dell’esperienza sono gli strumenti di cui la ragione si serve per acquistare la certezza critica dell’esistenza di Dio. Lo schema logico delle “cinque vie” conferma che si tratta di un’argomentazione a base fortemente empirica, ossia capace di ottenere il consenso di chiunque comprenda l’universalità e l’evidenza degli aspetti che Tommaso prende in considerazione per indicarne il fondamento. Ecco come Battista Mondin presenta tale schema logico, basato su quattro momenti: «1) Si attira l’attenzione su un determinato fenomeno (il divenire, la causalità secondaria, la possibilità, i gradi di perfezione, il finalismo); 2) si evidenzia il suo carattere relativo, dipendente, causato, vale a dire la sua contingenza: ciò che è mosso da altri; le cause seconde sono a loro volta causate; il possibile riceve l’essere da altri; i gradi di perfezione ricevono la perfezione da un massimo; il finalismo richiede sempre intelligenza, mentre le cose naturali in sé stesse ne sono prive; 3) si mostra che la realtà effettiva, attuale di un fenomeno contingente non si può spiegare facendo intervenire una serie infinita di fenomeni contingenti; 4) si conclude dicendo che l’unica spiegazione valida del contingente è Dio: Lui è il motore immobile, la causa incausata, l’essere necessario, il sommamente perfetto, l’intelligenza ordinatrice suprema»[52]. Da questo schema logico deriva che ciascuna “via”, pur essendo una rigorosa dimostrazione metafisica, conferma la certezza che di Dio hanno tutti gli uomini al livello del senso comune; tale certezza è intuitiva e universale (sia pure non espressa o male espressa), ma pur sempre basata su una inferenza, non sull’evidenza immediata di Dio. Infatti Tommaso, prima di esporre le prove dell’esistenza di Dio ha cura di ribadire che noi non possiamo avere una conoscenza di Dio immediata, ma dobbiamo partire da ciò che è immediato — il mondo, le cose dell’esperienza conosciute attraverso i sensi — per arrivare con il ragionamento all’evidenza (mediata, appunto) di una prima causa trascendente, che è l’Essere sussistente. Tommaso rifiuta dunque ogni ipotesi di ontologismo; ma, se si comprende bene la differenza tra “evidenza immediata” e “evidenza mediata da una inferenza”, si comprenderà anche che quest’ultima può essere non solo scientifica (cioè consapevole, rigorosa e capace di dialettica per convincere gli altri) ma anche spontanea, intuitiva, popolare, comune a tutti (come è appunto la certezza del senso comune), e quella prima non fa che confermare questa seconda. Su questo punto, insomma, non c’è sostanziale disaccordo tra Tommaso e Bonaventura da Bagnoregio (cfr più sopra).Dio è conosciuto, sia pure imperfettamente, grazie all’analogia dell’essere Dio evidentemente esiste: noi lo conosciamo certissimamente come l’Essere-causa che crea dal nulla l’universo e lo governa con ordine e amore infinito. Ma che cosa si può sapere intorno alla divina essenza? Come la ragione umana può comprendere la natura di Dio? Tale pretesa non contiene forse l’errore dell’antropomorfismo? E come può l’uomo ragionare di Dio senza evitare il pericolo di tale errore? Sarà forse costretto a concludere con l’agnosticismo, rifugiandosi poi nel misticismo irrazionalistico? Tommaso non ha queste preoccupazioni, e dimostra con semplicità e chiarezza come il pericolo dell’antropomorfismo e lo scoglio dell’agnosticismo teologico possono essere nettamente eliminati con la dottrina dell’analogia. Per cogliere bene il senso di tale dottrina è necessario anzitutto tener presente la triplice distinzione di termini che caratterizza le relazioni tra gli esseri, il loro genere e la loro specie, cioè il triplice concetto di equivocità, univocità e analogia:a) si dice “equivoco” il termine che si applica a più enti con significato del tutto diverso (per esempio, il termine “orsa” riferito all’animale e alla costellazione);
b) il termine “univoco” è quello che conviene a molti enti in modo identico (ad esempio il termine “uomo” se riferito a qualsiasi individuo di natura razionale);
c) il termine “analogico” è quello che si applica a diversi enti con un modo di significare che è in parte equivoco e in parte univoco (ad esempio, il termine “scienza” in riferimento a discipline diversissime come la fisica, la chimica, la storiografia, la psicologia, la teologia eccetera).
Ciò premesso, Tommaso esclude che si possa parlare di Dio in senso equivoco (contro l’agnosticismo) o in senso univoco (contro l’antropomorfismo); rimane perciò il senso analogico, con cui si giunge alla coscienza della essenza divina indirettamente, secondo l’analogia che si può stabilire criticamente per via di affermazione, di rimozione e di eminenza. Tali modi di concepire analogicamente Dio — che Tommaso riprende dallo Pseudo-Dionigi — consistono concretamente in questo:
a) affermazione significa considerare che ogni creatura contiene un complesso di perfezioni, come l’essere, l’esistere, la vita, l’intelligenza, la libera volontà, la bontà, la bellezza, ecc.; queste perfezioni sono valori positivi che la creatura non si può dare da sé, ma li riceve dall’autore che dal nulla l’ha creata. Ora, siccome nessuno può dare ciò che non ha, ne consegue che Dio deve avere in sé almeno quelle perfezioni di cui sono fornite le creature;
b) rimozione significa che, negli enti, oltre alle perfezioni si notano le imperfezioni, caratterizzate dal limite metafisico al quale sono soggetti, come la finitezza, la potenzialità, la gradazione (da quelli meno perfetti a quelli ontologicamente più perfetti). Queste imperfezioni sono dovute al fatto che tutte le creature per natura sono soggette alla causa che le ha tratte dal nulla, cioè a Dio. Sicché tali imperfezioni devono essere rimosse dalla nozione della natura divina, in quanto Dio è atto purissimo, Essere metafisicamente per sé sussistente;
c) eminenza vuol dire che, se le perfezioni degli esseri creati sono proporzionate al loro limite e al loro grado di essere, nella natura divina si devono trovare in grado eminente, cioè illimitate e infinite, secondo l’infinità e l’eternità di Dio stesso. Da ciò si deduce che Dio va concepito come «Colui che è», cioè pienezza di essere, di vita, d’intelligenza, di libera volontà; è tutto l’amore, tutta la giustizia, tutta la potenza, tutta la sapienza, la verità assoluta.
Su queste basi della teologia razionale, considerate come necessari «praeambula fidei», l’Aquinate costruisce l’edificio della teologia soprannaturale alla luce della Rivelazione nonché di tutta la tradizione cristiana, con tale coerenza e profondità da divenire nei secoli, fino a oggi, la guida riconosciuta dei teologi.
Tommaso distingue una duplice forma di analogia: di attribuzione e di proporzionalità. L’analogia di attribuzione intercorre tra realtà che possono essere designate con uno stesso termine, ma in ciascuna delle quali la nozione significata dal termine si trova in modo del tutto diverso, in quanto in una di tali realtà la nozione stessa si trova intrinsecamente e formalmente, mentre in tutte le altre realtà si trova in modo estrinseco e solo in dipendenza da quella unica cosa e in ordine ad essa; quest’ultima si chiama “analogato principale” mentre le altre realtà si chiamano “analogati inferiori”. L’esempio classico è quello della salute, nozione analoga che viene attribuita in maniera propria all’essere vivente (analogato principale) e in modo subordinato e derivato ai cibi, all’aria, agli esercizi fisici, ecc. (analogati inferiori). È chiaro che il rapporto tra l’ente analogato principale e gli enti analogati inferiori è un rapporto di causalità estrinseca (efficiente e finale): nell’esempio che abbiamo fatto, certi cibi e certi esercizi fisici vengono detti “sani” in quanto causano (contribuiscono a causare o mantenere) la sanità dell’uomo[53].L’analogia di proporzionalità si dà invece tra termini che hanno come referente degli enti che posseggono tutti intrinsecamente la nozione indicata nel termine stesso, sia pure non in modo identico ma solo somigliante; l’analogia di proporzionalità, a sua volta, si suddivide in “propria” e “metaforica” (quest’ultima è usatissima in poesia, ma anche nel linguaggio comune, come quando l’aggettivo “ridente” si applica a una cittadina).Il caso più importante in cui il linguaggio umano fa uso dell’analogia di proporzionalità propria è quando si dice che il mondo e Dio “sono”: le cose create e il Creatore hanno in comune l’essere, anche se “sono” in modo diverso; li unisce una somiglianza proporzionale propria, avendo con l’essere un intrinseco rapporto di possesso, quantunque in gradi e in modi del tutto diversi[54] «La dipendenza causale — osserva Raimondo Spiazzi — è il fondamento ontologico che rende possibile l’analogia di attribuzione nell’ordine gnoseologico; la trascendenza delle proprietà analoghe — che si infrangono nei diversi termini proporzionali costituendoli in reciproche somiglianze — è il fondamento dell’analogia di proporzionalità nell’ordine gnoseologico. Se noi possiamo stabilire dei rapporti o proporzioni o analogie tra la creazione e Dio è perché nella realtà stessa esistono dipendenze e somiglianze: fondamenti di analogia»[55].
Gli studiosi contemporanei hanno riscoperto nel principio tommasiano di analogia un fecondo indirizzo metodologico, ossia «un modo di argomentare rigoroso che, in forza di quell’intellettualismo possibile grazie all’analogia e che si colloca agli antipodi del razionalismo, non elimina il mistero (come giustamente pretende la sensibilità contemporanea) ma non rinuncia neppure a usare discretamente della ragione anche a quei livelli superiori che si rivelano decisivi per dare significato alla vita umana.[…] In altri termini, l’atteggiamento filosofico tommasiano, adeguatamente essenzializzato, sembra in grado di contribuire a gettare un ponte tra i due filoni fondamentali del pensiero contemporaneo tra i quali c’è scarsa comunicazione: da un lato il filone empiristico e dell’analisi linguistica, con la sua esigenza di chiarezza, di rigore e di rapporto con le scienze; dall’altro il filone del pensiero esistenziale ed ermeneutico, con la sua domanda di profondità»[56]. Tommaso al riguardo si esprime invero in modo assai esplicito, distinguendo ciò che del mistero ci è permesso di conoscere in virtù dell’analogia e ciò che invece rimane inconoscibile: «Per mezzo degli effetti — egli scrive — noi sappiamo che Dio esiste e che Egli, in quanto causa di tutti gli enti, è del tutto trascendente rispetto a essi e del tutto diverso. Questo è l’estremo e più perfetto esito della nostra conoscenza nella vita presente, e per questo dice giustamente Dionigi nella Teologia mistica che noi ci uniamo a Dio senza poterlo conoscere; infatti, di Lui sappiamo bene che cosa non è, ma non possiamo capire affatto che cosa sia in positivo. Per questo stato nostro di ignoranza riguardo alla conoscenza più sublime [sublimissimae cognitionis ignorantia], la Scrittura dice che Mosè si avvicinò alla nube impenetrabile nella quale era Dio»[57].

NOTE
[50] Ossia, “ens” come participio presente del verbo “esse”; qui Tommaso si rifà sempre, nei suoi scritti, a come Dio si è rivelato a Mosè (cfr Libro dell’Esodo, III, 14) dicendo che il suo nome proprio è “Colui che è” (in ebraico “Jahvè”); dai primi filosofi cristiani ai grandi dottori scolastici, la metafisica ha come fulcro speculativo, assolutamente originale rispetto ai Greci, l’autorivelazione di Dio, quella che Étienne Gilson chiama la «metafisica dell’Esodo» (cfr L’esprit de la philosophie médiévale, Ed. Vrin, Parigi 1931; God and Philosophy, Yale University Press, New Haven 1939).
[51] Qui, come nelle altre “viae”, il punto di partenza della dimostrazione non è di tipo “fisico” (in senso moderno, cioè limitato ai corpi materiali e alla loro valutazione in termini di scienza sperimentale) ma di tipo metafisico: il termine “motus”, applicato — come fa Tommaso — a tutti gli enti in generale, indica il “divenire”, il passaggio dalla potenza all’atto, ossia la condizione metafisica di base di ogni ente limitato e contingente, quali sono assolutamente tutti gli enti creati: solo Dio infatti è l’Essere perfetto che non “si muove”, nel senso che non può né perdere né acquistare una sua perfezione entitativa. Fatta questa precisazione si capisce che le obiezioni moderne alla “prima via” che mettono in questione la concezione del “moto” in senso fisico (cioè secondo quello che le scienze fisico-matematiche considerano moto nel tempo e nello spazio) si basano su un fraintendimento: Tommaso non parla solo di moto “fisico”, ma di moto in senso metafisico, che è una evidenza di senso comune, perché tutti si accorgono che le cose cambiano incessantemente, in tutti i sensi. Si tratta insomma dell’evidenza da cui partiva Eraclito quando ricordava che tutti gli enti dell’esperienza subiscono il movimento.
[52] Battista Mondin, Il sistema filosofico di Tommaso d’Aquino, II ed., Ed. Massimo, Milano 1992, p. 195.
[53] Tommaso d’Aquino, Quaestiones disputatae de veritate, q. 21, a. 4.
[54] Tommaso d’Aquino, Quaestiones quodlibetales, q. 9, a. 3.
[55] Raimondo Spiazzi, Natura e grazia: fondamenti dell’antropologia cristiana secondo Tommaso d’Aquino, Ed. Studio Domenicano, Bologna 1992, p. 46.
[56] Angelo Campodonico, Alla scoperta dell’essere: saggio sul pensiero di Tommaso d’Aquino, Jaca Book, Milano 1986, p. 205.
[57] Tommaso d’Aquino, Summa contra gentiles, III, c. 49.