Nei sudditi il Beato non tollerava volontarie trasgressioni alla regola. Era risoluto e costante nel punirle. Particolarmente esigente si mostrava con coloro che violavano il silenzio, ma mentre imponeva penitenze sapeva consolare. Grande importanza attribuiva pure all’osservanza scrupolosa della povertà religiosa. In cella egli non disponeva che di un piccolo tavolo, una sedia di paglia, un catino per la toeletta, una minuscola tela raffigurante l'”Ecce homo”, una croce di legno in capo al letto, il breviario e i quaresimali da lui scritti. Non voleva che le offerte dei benefattori del convento fossero superiori alle quotidiane necessità dei religiosi. Soleva dire: “Non è vero povero chi non vuole sentire l’incomodo della povertà, né sopportare la mancanza delle cose necessarie”.
11 gennaio
Questo emulo di S. Francesco d’Assisi nella pratica della povertà evangelica e della penitenza nacque a Cori (Latina) il 4-6-1655 da Natale Placidi e Angiola Cardilli, poveri pastori, e fu battezzato lo stesso giorno con i nomi Francesco e Antonio. A tre anni fu cresimato nella collegiata di Santa Maria della Pietà. La prima istruzione gli fu impartita dal Can. G.B. Melita il quale aveva aperto nella propria casa una scuola per cinquanta ragazzi. La povertà dei genitori non gli consentì di continuare gli studi. Essendo stato incaricato di condurre al pascolo delle pecore, approfittava del tempo libero per leggere libri devoti e pregare.
Alla morte dei genitori il Beato decise di farsi frate. Vendette le pecore, ne assegnò il prezzo come dote alle sorelle maritate, e si recò a Roma, nel convento di Ara Coeli, per chiedere al P. Vincenzo da Bassano, provinciale, di essere ammesso nell’Ordine. Il suo desiderio fu soddisfatto. Difatti ricevette l’abito francescano dal P. Angelo da Lucca, Guardiano a Orvieto del convento della SS. Trinità, e fu ammesso tra i novizi chierici con il nome di Tommaso. Aveva ventidue anni. L’8-2-1687 emise la professione dei primi voti, e quindi studiò filosofia e teologia prima a Viterbo, nel convento del Paradiso, e poi a Velletri, nel convento di San Lorenzo, dove cantò la sua prima Messa.
Il provinciale nominò P. Tommaso secondo maestro dei novizi, tanto era esemplare nell’osservanza della regola, benché avesse soltanto ventotto anni. Tuttavia egli rimase a Orvieto alla guida dei novizi per poco tempo, fino a quando cioè il Ministro Generale P. Pietro Marino Sormanno, in ottemperanza al desiderio espresso dal B. Innocenzo XI (+1689), destinò il convento di Civitella, oggi Bellegra, donato dai Benedettini a S. Francesco d’Assisi quando per la seconda volta fu all’abbazia di Subiaco, come convento di recollezione. Il nostro Beato, che bramava vivere conforme a una severa osservanza della regola, chiese di farne parte.
Benché non fosse Guardiano del convento, P. Tommaso si adoperò con tutte le forze perché dai confratelli fosse osservata la più stretta povertà, la solitudine e soprattutto il silenzio che favoriva tanto l’abituale unione con Dio. Egli dovette certamente emergere tra i membri della comunità per lo spirito di orazione e di penitenza se, nel 1703, il P. Desiderio Nardi da Lucca, Provinciale, lo nominò Guardiano de! convento di Palombara Sabina (Roma), affinchè vi introducesse lo stesso genere di vita francescana praticata nel convento di Bellegra.
Nei sudditi il Beato non tollerava volontarie trasgressioni alla regola. Era risoluto e costante nel punirle. Particolarmente esigente si mostrava con coloro che violavano il silenzio, ma mentre imponeva penitenze sapeva consolare. Grande importanza attribuiva pure all’osservanza scrupolosa della povertà religiosa. In cella egli non disponeva che di un piccolo tavolo, una sedia di paglia, un catino per la toeletta, una minuscola tela raffigurante l’”Ecce homo“, una croce di legno in capo al letto, il breviario e i quaresimali da lui scritti. Non voleva che le offerte dei benefattori del convento fossero superiori alle quotidiane necessità dei religiosi. Soleva dire: “Non è vero povero chi non vuole sentire l’incomodo della povertà, né sopportare la mancanza delle cose necessarie”. Ai poveri era solito distribuire anche quanto poteva sembrare indispensabile alla comunità. Era convinto che “il mostrare tanta sollecitudine per le cose temporali fosse un legare le mani alla divina Provvidenza”.
Pare tuttavia che lo zelo del B. Tommaso non sia stato sempre illuminato. Difatti fece trasportare da Palombara al convento di Tivoli tutti gli oggetti d’argento che trovò in sacrestia, cedette al comune due prati che si trovavano fuori della clausura, e di notte fece tagliare gli ulivi che si trovavano nell’orto quasi contrastassero con la povertà francescana. I benefattori del convento ne rimasero tanto indignati che quando i frati andarono alta questua dell’olio non gliene diedero neppure una goccia. Il vescovo di Sabina, il Card. Prospero Carpegna, mandò allora alcuni Padri della Missione a spiegare loro come la perfetta osservanza della regola francescana esigeva la rinuncia a ogni sorta di proprietà. Il malumore della gente un po’ alla volta cessò anche perché il B. Tommaso era sempre pronto a istruirli nelle principali verità della fede, assiduo al confessionale e sollecito nel visitare e nell’assistere gli infermi e i moribondi benché soffrisse assai a causa di un’ernia, di cattiva digestione e di una piaga cronica che gli si era formata a una gamba. Quanto più poteva si medicava da sé non tollerando che qualcuno gli toccasse la carne nuda. Quando i dolori erano più lancinanti, si limitava a esclamare: “Sia benedetto Dio! Viva Iddio! Sia lodato Gesù Cristo!” A un confratello che un giorno lo compassionava rispose: “Questi sono regali che ci fa l’amoroso Signore, sono fiori e rose”. A chi gli raccomandava di avere riguardo per la sua salute corporale rispondeva: “Basta averne tanta quanta è sufficiente a servire con tutto lo spirito l’Altissimo. Che cosa è uno se non sa patire qualcosa per amore di Dio?”
Per tutto il tempo della vita trascorso in religione, e cioè quarantasei anni, il Beato non fu mai visto triste ne per le infermità, ne per le ristrettezze del convento. Anzi, se vedeva qualche confratello malinconico lo riprendeva dolcemente dicendo: “È una vergogna che i servi di Dio stiano malinconici. Soltanto nell’inferno regna la malinconia”.
La forza per esercitare in grado eroico tutte le virtù, il Beato la trovava nella preghiera. Iniziava la sua giornata facendo sovente la meditazione sulla Passione del Signore e impiegando 3/4 d’ora nella celebrazione della Messa. Chiudeva la giornata con una visita al SS. Sacramento, una preghiera alla Madonna e a S.Pietro d’Alcantara, suo speciale protettore. Più volte fu visto sollevato da terra al momento dell’elevazione dell’ostia nella Messa, o rapito in aria mentre distribuiva la comunione ai fedeli, predicava o passeggiava nell’orto. Alcune volte fu visto splendente in volto, altre volte fu visto con il viso solcato da lacrime. Pregava stando immobile e senza appoggiarsi al banco. Sulla porta del coro di Palombara fece scrivere: “Si cor non orat, in vanum lingua laborat” (Se non si prega con il cuore, si muove inutilmente la lingua). Devotissimo della SS. Trinità e della Vergine Maria s’inchinava profondamente quando nella recita dei salmi venivano invocati i loro nomi. Esigeva che i confratelli facessero altrettanto. Ai negligenti non esitava a imporre sensibili mortificazioni come il portare sassi appesi al collo.
Dopo che la stretta osservanza fu solidamente stabilita nel convento di Palombara Sabina, il B. Tommaso fu rimandato in quello di Bellegra dove rimase fino alla morte attento sempre a osservare fedelmente le regole del Ritiro approvate nel 1706 dal P. Lorenzo Cozza da S. Lorenzo, Provinciale e più tardi Ministro Generale e cardinale. Le regole prescrivevano che tre volte la settimana si tenesse il capitolo delle colpe; si recitasse a mezzanotte in coro il Mattutino; nel corso della giornata tutti i religiosi facessero l’orazione mentale per lo spazio di due ore e mezzo; i sacerdoti fossero assidui al ministero delle confessioni e celebrassero la Messa soltanto per i benefattori e i confratelli defunti; in convento si osservasse un perpetuo e rigoroso silenzio; oltre i digiuni prescritti dalla Chiesa in quaresima si osservasse la Benedicta tanto raccomandata da S. Francesco, consistente in un digiuno di quaranta giorni a cominciare dall’Epifania; infine si digiunasse nelle vigilie delle feste della Madonna, di S. Francesco e di S. Antonio. La refezione veniva consumata in ginocchio e non includeva la pietanza.
Nel Ritiro di Bellegra il nostro Beato trascorse gli ultimi venti anni di vita sempre intento, sia come Guardiano che come suddito, ai lavori più umili come fare il bucato, tagliare la legna, andare alla questua, fare il portinaio, lavare i piatti in cucina. Quando ne rompeva qualcuno si umiliava comparendo in refettorio con i cocci al collo. Un giorno vi comparve con alcuni baccalà che inavvertitamente aveva lasciato andare a male per chiederne la penitenza. Quando giungeva il suo turno alla mensa comune faceva pure la lettura spirituale. Allora si udiva sovente sospirare: “Dolcissimo Gesù, non ci lasciare mai più. È tanto il bene che aspetto, che ogni pena mi è diletta”.
Non pago di tante mortificazioni il Beato affliggeva il proprio corpo anche con i cilici e le discipline. Di notte dormiva poco. Preferiva trascorrere il tempo nella preghiera, nello studio, nel comporre prediche e nello scrivere a coloro che si rivolgevano a lui per consiglio. Di giorno spiegava ai confratelli la teologia morale e mistica, le sacre cerimonie e la regola francescana, oppure dettava esercizi spirituali ai chierici e ai preti che chiedevano ospitalità al P. Guardiano.
Come già a Palombara anche a Bellegra il B. Tommaso era assiduo al capezzale dei malati dei paesi vicini e lontani per i quali nutrì sempre una tenerezza materna. Diversi ne guarì con l’imposizione delle mani. Ai più diseredati moltiplicò miracolosamente il pane e l’olio e predisse il futuro.
Il tempo che gli rimaneva libero il Beato lo dedicava all’evangelizzazione dei poveri contadini. Diversi vescovi come quello di Tivoli, Velletri, Roma, Palestrina e Anagni lo richiesero come predicatore di quaresimali, Quarantore e Missioni al popolo. E siccome erano grandi i frutti spirituali da lui ottenuti, il Card. Francesco Barberini, abate di Subiaco, tutti gli anni voleva che nelle parrocchie dell’abbazia predicasse le missioni. Ne era diventato quindi l’apostolo. Secondo l’arciprete di Marano, che nel 1713 preparò con l’aiuto del P. Tommaso i parrocchiani alla visita pastorale del cardinale, nessun missionario, compreso il B. Antonio Baldinucci ss. (+1717), fu più efficace di lui nel convertire i peccatori. L’arciprete di Valle Pietra (Anagni) concepì tanta stima del Beato che, quando vi si recava per il sacro ministero, conservava gli avanzi del pane di lui per distribuirli ai malati.
Per la salvezza delle anime il degno figlio di S. Francesco si sobbarcava a qualsiasi fatica nonostante le sue croniche infermità. S. Teofilo da Corte (+1740), suo Guardiano, un giorno gli disse che lo avrebbe dispensato volentieri da quelle incombenze che avesse ritenute troppo gravose per i suoi acciacchi, ma egli, gli rispose: “P. Guardiano, non abbia alcun riguardo, comandi liberamente perché Iddio mi aiuterà”. Nel ricevere un’obbedienza, anche ardua, diceva sempre: “Io so che questa è la volontà del Signore, e tanto basta”. Sovente si udiva sospirare: “Si faccia, Signore, la tua santissima volontà in me, di me, intorno a me, in vita e in morte, nel tempo e nell’eternità”. Nel 1709 Tommaso fu mandato a predicare a Camerata Nuova (Roma). Egli ubbidì, ma mentre camminava recitando come al solito un rosario dopo l’altro con le Litanie, svenne per il freddo. A Olevano Romano stava morendo un peccatore impenitente. Appena il P. Teofilo gli disse che il parroco desiderava che andasse lui a prepararlo alla morte, partì all’istante benché la strada fosse coperta di neve e la notte molto inoltrata. A Olevano il Beato fu colto da febbre. Il Guardiano accorse al suo capezzale con un carrettino trainato da una giumenta, e con l’aiuto di un pio Terziario Francescano riuscì a riportarlo nel ritiro di Bellegra.
Nei paesi in cui il B. Tommaso da Cori giungeva, predicava in quaresima e nell’avvento due volte al giorno, la mattina e la sera. Se i fedeli, dopo i rintocchi della campana che annunciava la predica, tardavano a recarsi in chiesa, prendeva tra le mani un grande crocifisso e si aggirava per il paese dicendo a gran voce: “Peccatore, tu dormi e Cristo sta in croce”. In chiesa si disciplinava con vigore quando le sue parole non bastavano ad allontanare il popolo dalla bestemmia, dall’ubriachezza e dagli odi inveterati. Possedeva un’arte speciale per sedare le discordie e rappacificare le famiglie. Quando incontrava resistenze si toglieva il mantello dalle spalle, si metteva la corda al collo, si inginocchiava per terra e supplicava i contendenti per amore di Dio a fare la pace.
Il Beato aveva soprattutto in orrore le sregolatezze del carnevale. Per tenerne lontani i fedeli, a volte, acceso da santo zelo, si poneva una corda al collo, prendeva in mano un teschio di morto, e li scongiurava a non profanare la loro dignità di cristiani. Negli ultimi giorni di carnevale si recò a predicare a Ciciliane (Roma). Avendo visto che il popolo era intento a buffi spettacoli, andò in chiesa, inalberò un crocifisso, ritornò tra coloro che si sollazzavano e gridò: “Chi è di Dio segua la croce, e chi è del demonio resti qui”. A coloro che lo seguirono in chiesa fece fare la Via Crucis e poi tenne una predica.
Molti furono i peccatori ostinati da lui riconciliati con Dio ai quali qualche volta svelò peccati occulti o dimenticati. Sovente, soprattutto nelle feste, gli capitava di confessare dal mattino alla sera senza prendere cibo di sorta. Tutti preferivano fare a lui le loro confidenze. Quando dal popolo si vedeva venerato come un santo, diceva: “Tutto è del Signore. Non vi è niente del mio. Io sono un miserabile peccatore”. Benché fosse molto esperto in teologia alla quale dedicava ogni giorno molte ore di studio, si riteneva “un vecchio balordo”, “un disgraziato”. Diceva che, se coloro ai quali aveva predicato il Vangelo l’avessero trattato secondo il suo merito, lo avrebbero preso a sassate.
Il 4-1-1792, affranto da tante fatiche, il B. Tommaso fu assalito da febbre e sputi sanguigni. Fratel Angelo della Torre, abruzzese, ne ebbe cura, ma il malato diceva ai confratelli: “Oh, questa non si rappezza come le altre infermità”. Si preparò alla morte confessandosi più volte, contemplando un’immagine della Madonna che aveva fatto collocare davanti a sé, stringendo il crocifisso, baciandolo e replicando ogni tanto: “Sposo mio! Sposo mio!”
Il giorno precedente la morte, tralci Angelo lo vide rapito in estasi davanti all’immagine della Vergine SS., mentre esclamava: “Madre mia! Sposa mia!””.
Per ricevere il viatico che aveva chiesto, il Beato avrebbe voluto alzarsi da letto, ma il superiore del convento non glielo permise. Mentre il sacerdote con l’ostia consacrata si avvicinava alla cella, si sollevò un palmo dal letto stando genuflesso, poi stese una mano verso la porta e disse ad alta voce con il volto in fiamme: “Piano un poco, piano un poco principazzi. Lasciate entrare Gesù Cristo”. Una schiera di diavoli gli erano comparsi in figura di cavalieri e principi per tentarlo. Morì 1’11-1-1729, come aveva predetto, benché il medico non credesse imminente il trapasso.
Appena morto il B. Tommaso apparve a Cori a una Terziaria Agostiniana insieme al P. Baldinucci per consolarla nelle sue afflizioni domestiche. Alla sua sepoltura ci fu poca gente a causa della pioggia ininterrotta e del vento impetuoso, come egli aveva predetto. Fu sepolto nella cappella di S. Rosa, e poi riesumato e traslato davanti all’altare maggiore della chiesa del convento. Dal suo corpo e dagli oggetti di suo uso emanò una soavissima fragranza. A Fratel Angelo aveva detto: “Vorrà un giorno in cui dovrete dire qualche cosa di quello che avete veduto e osservato in me”. Difatti, quando fu introdotta la causa di beatificazione del P. Tommaso da Cori, fu chiamato a deporre anche lui. Pio VI ne riconobbe l’eroicità delle virtù il 1-8-1778, e lo beatificò il 18-8-1786.
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 1, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 153-158.
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