Libro III – Cap. 17 Il 1848 in Italia e in Europa (I)

Prof. A. Torresani. 17. 1  I disordini di Roma, Palermo, Milano e Parigi – 17. 2  Gli statuti di Torino, Firenze e Roma – 17. 3  La rivoluzione a Parigi, Vienna, Berlino e Budapest

     Dopo l’elezione di Pio IX le agitazioni liberali trovarono l’elemento catalizzatore per incanalarle verso un obiettivo concreto: la concessione della costituzione da parte dei governi conservatori. La situazione di Pio IX divenne delica­ta perché qualunque decisione fosse presa, suscitava dissensi e critiche, ma egli seppe percorrere fino in fondo l’esperimento liberale, tirandosi indietro solo quando furono in gioco superiori interes­si di natura religiosa.
     Disordini scoppiarono anche nel regno delle Due Sicilie, esaspera­ti dal tenace autonomismo siciliano costringendo Ferdi­nando II a concedere la costituzione. In Toscana e in Piemonte la costituzione fu resa urgente dalla rivolu­zione di Parigi alla fine di febbraio 1848, dove fu proclamata la seconda repubblica e dove sembrava fosse in atto una rivolu­zione sociale che ponesse in discussione il regime della pro­prietà privata. Quando si seppe che anche a Vienna, a Berlino e a Budapest era in corso una rivoluzione liberale, Venezia e Mila­no insorsero, e i governi provvisori proclamarono decaduto il governo austriaco, invocando l’intervento dell’esercito piemonte­se per rendere indipendente la penisola.
      Carlo Alberto, al termine delle cinque giornate di Milano, dichiarò guerra all’Austria, mentre il maresciallo Radetzky si ritirava nelle fortezze del quadrilatero, in attesa di rinforzi e del chiarimento della situazione politica a Vienna. Carlo Alberto spese il mese di aprile per sistemare l’an­nessione della Lombardia al regno di Sardegna e finalmente inve­stì Peschiera. Poi attese per tutto il mese di maggio prima di riprendere l’avanza­ta, risoltasi con l’insuccesso di Santa Lucia, un sob­borgo di Verona. Alla fine di giugno, con la repressione degli operai di Parigi, la situazione europea indicava il netto declino delle fortune rivoluzionarie, e a luglio arrivò la disfatta dell’esercito piemontese a Custoza, seguita dalla ritirata dell’esercito di Carlo Alberto. Alla fine dell’anno Pio IX abbandonò Roma dove un governo repubblicano formato da Mazzini, Saffi e Armellini tenne il pote­re per circa sei mesi, sopraffatto dall’arrivo di un eser­cito francese. Nel marzo 1849, la ripresa della guerra tra Piemonte e Austria si concluse con la sconfitta piemontese a Novara, con l’abdicazione di Carlo Alberto e l’avvento al trono di Vittorio Emanuele II.
 
 17. 1  I disordini di Roma, Palermo, Milano e Parigi
      L’anello più debole, nel sistema degli Stati italiani, era costituito dallo Stato della Chiesa per la peculiare condizione del suo sovrano.
 Pio IX e le riforme Pio IX era un uomo profondamente religioso e non ragionava in termini strettamente politici: ritenne sincero il desiderio dei suoi sudditi di avere un regime politico più li­berale e si sforzò di venire incontro alle richieste. 
 Preoccupazioni del Mazzini Le riforme in senso liberale comin­ciarono a preoccupare il Mazzini che scrisse: “Guai se i nostri príncipi entrassero mai nella via dei migliora­menti materiali e amministrativi. Certo l’uomo si educherebbe all’indipendenza; ma il senso del dovere, della missione, dell’u­nità nazionale sfumerebbe”, ossia non avverrebbe la riunificazio­ne d’Italia.
 Guardia civica e consulta di Stato Nei primi mesi del 1847 com­parvero a Roma e Bologna i primi giornali politici che, in senso moderato, cercavano di dirigere l’azione politica dei liberali. A febbraio la censura della stampa fu attenuata, ma ben presto furono avanzate richieste più si­gnificative: la guardia civica e la consulta di Stato. La guardia civica era un mezzo voluto dai liberali per premere sul governo papale controllando, anche con l’impiego delle armi, le frange estremiste; la consulta di Stato era il mezzo per far entrare i laici nel governo dello Stato della Chiesa, fino a quel momento composto da ecclesiastici. Il papa Pio IX acconsentì alle due richieste.
 Riforme in Toscana Il primo Stato italiano a seguire quello pon­tificio sulla via delle riforme fu il granducato di Toscana, in una congiuntura resa difficile dalla carestia e dalla crisi economi­ca. Il centro più attivo era l’università di Pisa dove insegnava Giuseppe Montanelli, un giobertiano inten­to a realizzare un progetto neoguelfo e riformista. A Firenze si riuniva un gruppo di repubblicani in contatto col Mazzini, disposti a collaborare coi liberali purché costoro ottenessero dal governo una politica più co­raggiosa. A Livorno, invece, affiorava la protesta delle catego­rie popolari travagliate dalla crisi del porto e dal carovita: i democratici livornesi, guidati dall’irruente eloquenza di Domenico Guerrazzi, erano affascinati dalle dottrine socia­liste.
 Reazioni conservatrici Lo sviluppo delle agitazioni a Roma e Fi­renze, indussero i governi austriaco e francese, a cercare un ac­cordo per scongiurare la rivoluzione in Italia. Verso la fine di aprile, il Metternich scrisse una dura lettera al granduca di To­scana, avvisandolo che la politica di riforme sarebbe sboccata in un tentativo di federazione degli Stati italiani, travolgendo go­verni deboli come quello toscano. Negli ambienti diplomatici, l’iniziativa austriaca era ritenuta preludio all’intervento militare.
 Il Consiglio dei ministri a Roma Nel giugno 1847, il papa Pio IX istituì il Consiglio dei ministri, fissandone le attribuzioni, ma i liberali rimasero delusi perché non comparve alcun laico tra i ministri. A Roma cominciarono ad arrivare gruppi di sanfedisti: apparve indi­spensabile l’istituzione della guardia civica, ma il 17 luglio l’Austria fece occupare da un contingente di soldati la cittadel­la di Ferrara, adducendo gli estremi previsti da una delle clau­sole del Congresso di Vienna. Tra Roma e Vienna si aprì una polemica diplo­matica circa il significato dell’occupazione di Ferrara che, a sua volta, aprì una controversia tra Vienna e Londra, perché i libera­li inglesi non ritenevano la situazione italiana così esplosiva da giustificare l’intervento austriaco. A sua volta, l’iniziativa inglese preoccupò il governo francese, che temeva di perdere la sua influenza sull’Italia, e perciò inviò una missione diplomati­ca e una squadra navale per rafforzare nei governi italiani la volontà di resistere. 
 Difficoltà economiche Per tutto il 1847 la situazione economica fu difficile e fino a ottobre ci furono scioperi con qualche manifestazione di luddismo, ossia la distruzione dei nuo­vi macchinari ritenuti causa della disoccupazione. Le manifesta­zioni, orientate dai democratici in senso antiaustriaco, furono avversate dai moderati, rimasti fedeli al loro progetto di gra­dualismo. Nell’agosto 1847 Massimo d’Azeglio pubblicò un opuscolo intitolato “Proposta d’un programma per l’opinione nazionale ita­liana”, tendente a presentare il partito moderato come quello che raccoglieva i maggiori consensi.
 Cresce la tensione a Milano L’aristocrazia lombarda era divenuta sempre più ostile al governo austriaco, al quale era attribui­ta anche la difficile congiuntura economica. Nel novembre 1846 era morto l’arcivescovo Gaysruck, austriaco, che aveva retto l’arcidiocesi ambrosiana fin dal 1818 con molto equilibrio. Il successore, nominato dal governo di Vienna, Carlo Ro­milli, prese possesso della sua carica il 5 settembre 1847.  La sera vi fu una manifestazione di giubilo, con grande folla. La pioggia rovinò la festa e perciò gli organizzatori vol­lero ripetere la luminaria il giorno 8 settembre, ma questa volta la polizia intervenne, giudicando sedizioso un inno cantato in onore di Pio IX: ci furono  un morto e sessanta feriti.
 Tensioni a Napoli e in Sicilia  A Napoli, il re Ferdinando II aveva ten­tato di favorire il progresso materiale del suo regno, ma era de­ciso a non fare concessioni al patriottismo italiano anche nelle manifestazioni più moderate. La situazione in Sicilia era più grave. Il fatto nuovo rispetto al passato era che gli indipen­dentisti siciliani avevano stretto rapporti col movimento nazio­nale italiano (scambi com­merciali). Nei primi giorni di set­tembre 1847 a Reggio Calabria e Messina ci fu un’in­surrezione e per qualche ora Reggio cadde in mano agli insorti, ma due navi da guerra borboniche iniziarono il bombardamento di Reggio, terminato con la riconquista della città.
 La costituzione in Toscana e in Piemonte La richiesta di co­stituzione provocò in agosto gravi tumulti in Toscana, mentre a Torino venivano fondate alcune riviste come l'”Antologia italia­na” e il “Mondo illustrato”. Grande svilup­po aveva avuto in Piemonte l’Associazione agraria subalpina che nel 1847 raggiunse quasi 3000 soci, una società di copertura per dibattiti politici, incoraggiata da Carlo Alberto. Il Cavour fe­ce le sue prime esperienze politiche nelle lotte per la direzione dell’Associazione agraria.
 Riforme in Piemonte Il 29 ottobre 1847, Carlo Alberto firmò una serie di provvedimenti importanti: la pubblicità dei processi pe­nali; la soppressione del privilegio del foro civile; l’istitu­zione della Corte di Cassazione; la direzione di polizia affi­data al ministero degli interni; l’istituzione del consiglio su­periore della sanità; l’istituzione dei registri di stato civile tenuti dai comuni; le nuove norme per la censura della stampa, divenuta  più liberale ecc. Il 3 novembre, infine, si arrivò a stipulare una lega doganale tra regno di Sardegna, Stato della Chiesa, Toscana e principato di Lucca.
 I laici nella consulta a Roma Il 15 novembre, a Roma fu insedia­ta la Consulta di Stato di cui faceva parte Marco Minghetti.
 I giornali politici in Piemonte A dicembre, in Piemonte furono pubblicati i primi giornali politici: il “Risorgimento”, fondato dal Balbo con la collaborazione del Cavour; la “Concordia” diret­to dal Valerio; l'”Opinione” fondato dal Lanza.  Subito comincia­rono discussioni tra i vari redattori di questi giornali, alcune delle quali clamorose, come la richiesta di espulsione dei gesui­ti e la Costituzione: quest’ultima fu avanzata dal Cavour, ma il re era ancora contrario.
 Lo sciopero del fumo a Milano A Milano, il 1848 iniziò con san­guinosi incidenti connessi con lo sciopero del fumo, ossia la de­cisione dei patrioti di non acquistare tabacco per danneggiare il fisco imperiale.  L’iniziativa ebbe clamoroso successo: le auto­rità reagirono mandando in giro per la città soldati e poliziotti forniti di sigari. Seguirono zuffe con morti e feriti. La stampa italiana commentò ampiamente i fatti, deplorando i mali causati dalla mancanza di libertà e di indipendenza.
 L’insurrezione di Palermo La situazione più tesa rimaneva quella presente nel regno delle Due Sicilie, dove Ferdinando II non ave­va permesso alcuna riforma in senso liberale. In Sicilia esiste­vano gruppi di rivoluzionari collegati con i liberali di Toscana e dello Stato della Chiesa. Giuseppe La Masa, un fuoriuscito si­ciliano, tornò a Palermo l’8 gennaio 1848, prese contatto con al­cuni patrioti tra cui Rosolino Pilo, dando inizio il 12 gennaio all’insurrezione di Palermo. La rivolta siciliana avveniva in un momento di crisi del programma neoguelfo, mirante a graduali ri­forme col consenso dei sovrani, non strappate mediante un conflitto aperto che appariva favorevole solo ai mazziniani. Rimaneva la possibilità che Carlo Alberto prendesse la dire­zione del movimento di indipendenza guidando una guerra contro l’Austria.
 Carattere arcaico della rivolta siciliana La rivolta siciliana, iniziata il 12 gennaio, è uno dei rari casi di rivoluzione annunciata me­diante manifesti. Il giorno stabilito una grande folla occupava il centro di Palermo in attesa degli avvenimenti. Giuseppe La Ma­sa e qualche altro patriota fecero un discorso e distribuirono armi, poi improvvisarono una bandiera tricolore. Ben presto per la città cominciarono a sfilare alcune bande di sac­cheggiatori che si scontrarono con le truppe.  Ci furono alcuni morti e molti feriti. La notte successiva fu formato un comi­tato provvisorio presieduto dal La Masa che fece affluire bande di contadini armati: questi gruppi di disperati attaccarono soldati e polizia in vari punti della città. Fu catturata una forte somma di danaro statale che permise di distribuire sussidi ai rivoltosi. L’artiglieria sparava dal forte di Castellammare sulle principali strade, ma i ribelli riuscirono a tenere in pu­gno la città. Per tutto il giorno 13 tuttavia, le forze della borghesia rimasero estranee alla lotta e perciò il La Masa decise di fare appello alle forze moderate perché assumessero la dire­zione della lotta.  Il 14 gennaio furono istituiti quattro comi­tati: per i viveri, le finanze, le informazioni, la guerra, presieduti da nobili. La sera del giorno 15 giunse a Pa­lermo una squadra navale che sbarcò 5000 soldati, respinti dai rivoltosi che nei giorni successivi espugnarono i centri di resi­stenza borbonica all’interno della città. Cominciarono le trat­tative: i ribelli chiesero la costituzione del 1812, una richie­sta che trovava uniti tutti i siciliani. Il 18 gennaio Ferdinan­do II annunciò la concessione di una parziale autonomia per la Sicilia, rifiutata dal comitato rivoluzionario. Il 24 gennaio fu attaccato il palazzo reale e il 30 il corpo di spedizione si reimbarcò per Napoli. L’amministrazione borbonica in Sicilia cessò di esistere, le prigioni furono aperte e molti delinquenti comuni si misero a far la rivoluzione per fini loro particolari. Il 28 gennaio, perciò, fu istituita la guardia nazionale gui­data dal barone Pietro Riso, un banchiere. Il 2 febbraio il co­mitato di Palermo assunse i poteri di un governo provvisorio per l’isola, con la presidenza di Ruggero Settimo. La maggioranza del governo era moderata, con qualche repubblicano come il Crispi.
 La rivolta si estende a Napoli La notizia della rivolta di Pa­lermo giunse a Napoli, ma la città era troppo presidiata perché la sollevazione dei moderati  avesse successo. Si decise perciò di operare la rivoluzione nel Cilento, dove avven­nero scontri disordinati, non sempre vittoriosi per i ribelli.  Ferdinando II, tardivamente, prese alcuni provvedimenti liberali, compresa la liberazione dei prigionieri politici in attesa di processo. Il 29 gennaio, Ferdinando II decise la concessione della Costituzione. Il fatto fu celebrato con feste e fuochi d’artificio, ma ci furono anche dis­sensi perché i Siciliani annunciarono che quella Costituzione, simile a quella francese del 1830, non li soddisfaceva.
 Una costituzione senza supporto sociale La costituzione fu pro­mulgata il 10 febbraio e, forse, avrebbe potuto guidare una ri­forma dello Stato napoletano se fosse esistita una borghesia li­berale efficiente: purtroppo il liberalismo napoletano era forma­to di letterati eloquenti ma privi di senso politico e per di più travagliati da divisioni che poco dopo li rese vittime della reazione assolutista.
 
 17. 2  Gli statuti a Torino, Firenze e Roma
   Gli avvenimenti di Napoli ebbero immediata ripercussione a To­rino dove ci furono manifestazioni per chiedere la costituzione. 
 Lo Statuto albertino Carlo Alberto resistette per quanto gli fu possibile, ma infine si piegò, e l’8 febbraio fu annunciata lo Statuto che doveva avere alcuni punti qualifi­canti:
 1. La religione cattolica rimaneva religione di Stato; 2. La persona del re era inviolabile; i ministri erano responsa­bili del loro operato davanti al Parlamento;  3. Il re aveva il potere esecutivo; 4. Il re sanciva le leggi e le promulgava; 5. La giustizia era amministrata in nome del re; 6. Il potere legislativo era esercitato dal re e dalle due Came­re; 7. Il senato era composto di membri a vita nominati dal re; la camera era nominata da elettori attivi; 8. La proposta di leggi spettava al  re e alle camere.  L’imposi­zione di nuovi tributi doveva essere sottoposta prima alla camera elettiva; 9. Il re doveva convocare le due Camere, poteva prorogare le ses­sioni e sciogliere la Camera elettiva. In quest’ultimo caso dove­va convocare la nuova Camera entro quattro mesi dallo scioglimen­to della precedente; 10. Nessun tributo poteva esser imposto o riscosso senza il con­senso delle Camere; 11. La stampa sarebbe stata libera, ma soggetta a leggi repressi­ve degli abusi; 12. Era garantita la libertà personale; 13. I giudici erano inamovibili; 14. Si prevedeva la formazione di una milizia comunale.
 Il primo ministero costituzionale Sulla base di questi elementi portanti fu redatto lo Statuto albertino, promulgato il 4 mar­zo. Il 16 marzo fu nominato il primo ministero costituzionale presieduto da Cesare Balbo.
 La costituzione in Toscana Anche in Toscana gli avvenimenti di Napoli produssero molto fermento e perciò il 31 gennaio il gran­duca aveva nominato una commissione per procedere d’urgenza ad alcune riforme in senso liberale. Lo Statuto fu sottoscritto dal granduca il 15 febbraio e pubbli­cato due giorni dopo.
 I laici nel governo a Roma A Roma le agitazioni crebbero fino al punto che Pio IX decise di emanare un proclama, il 10 febbraio, con grandi novità. Infatti, il 12 febbraio fu costituito un nuovo governo in cui, su nove ministri, quattro erano laici. Poi fu costituita una commissione per la Costituzione. Il 13 marzo Pio IX firmò lo Statuto, pubblicato il giorno dopo. A metà marzo la rivoluzione moderata sembrava aver trionfato in tutta Italia, meno che nel Lombardo-Veneto e nei du­cati padani direttamente occupati dagli austriaci. In Sicilia la rivoluzione aveva assunto un carattere di insurrezione e quindi la Costituzione appariva più avanzata rispetto agli altri Stati italiani, dove era frutto di compromesso tra i precedenti go­verni assoluti e le aspirazioni dei liberali. Ovunque, tuttavia, premevano sui liberali alcuni gruppi democratico-repubblicani pronti ad assumere il potere in caso di fallimento dei moderati; dietro i democratici c’erano infine quelle masse di popolazione che non si occupavano di problemi costituzionali, pur aspirando al miglioramento della loro condizione che fino a quel momento nessuno aveva ancora preso in considerazione.
 
 17. 3  La rivoluzione a Parigi, Vienna, Berlino e Budapest
      Finché la rivoluzione rimaneva confinata in Italia, la riso­nanza risultò limitata; quando la rivoluzione scoppiò in Francia l’eco divenne europea e subito riapparvero i fantasmi della gran­de rivoluzione che per un quarantennio si era cercato di esorciz­zare: il giacobinismo repubblicano, il radicalismo sociale, la guerra europea.
 La rivoluzione in Francia In Francia,  la serie dei banchetti politici doveva terminare il 22 febbraio 1848 per decreto del go­verno, ma il comitato organizzatore decise di continuare. Il 23 febbraio il re Luigi Filippo licenziò il Guizot, che non sembrava abbastanza energico. Di fronte al palazzo del ministero degli esteri la folla si scontrò con le truppe e gli incidenti prose­guirono col saccheggio dei negozi d’armi e del municipio. Il giorno 24 febbraio Parigi appariva in rivolta: gli insorti aveva­no eretto le barricate intorno ai quartieri centrali, mentre a corte si tentava affannosamente un rimpasto di governo. Non es­sendoci ministri in carica, gli ordini apparivano contraddittori. A mezzogiorno, il re abdicò e fuggì all’estero.
 Assalto alle Tuileries Un’ora dopo la reggia fu presa d’assalto e devastata, mentre i rivoluzionari occupavano i punti strategi­ci: il municipio, la prefettura col comando della poli­zia, le poste. I repubblicani dalla sede del loro giornale cer­cavano di orientare la rivolta. Alla Camera, i deputati scarta­rono l’ipotesi di una reggenza, facendo approvare la formazione di un governo provvisorio formato da alcuni de­putati radicali tra cui il Lamartine, Dupont de l’Eure, Ledru-Rollin e Marie. Ad essi furono aggregati il socialista Louis Blanc un operaio, Albert, e qualche altro. Alle 19 il nuovo go­verno si installò all’Hotel de Ville. Il regime monarchico e la dinastia furono spazzati via senza eccessiva violenza, almeno rispetto al 1830, ma questa volta i repubblicani erano decisi a non lasciarsi sfuggire la vitto­ria. 
 La Seconda repubblica Durante la notte fu proclamata la Seconda repubblica col diritto al lavoro e al minimo di sussistenza. Due giorni dopo fu costituita una commissione di governo per i lavo­ratori, che ottenne la riduzione di un’ora e mezzo dell’orario di lavoro. Le decisio­ni erano prese sotto la pressione della folla di Parigi che poi celebrò per settimane le conquiste raggiunte. In seguito fu approvato il suffragio universale, la libertà di stampa, l’aboli­zione della pena di morte per reati politici e la prigione per debiti. Sotto la spinta della necessità di dare lavoro ai nume­rosi disoccupati furono creati gli ateliers nationaux, grandi cantieri per lavori pubblici che non fu possibile pianificare: furono arruolati numerosi disoccupati impiegati in lavori di sterro senza reale utilità. La rivoluzione rimase limitata a Pa­rigi: il resto della Francia rimase in attesa di svi­luppi, senza opporsi a provvedimenti chiaramente demagogici.
 Riflessi internazionali I problemi internazionali si imposero all’attenzione del governo provvisorio perché tutti si chiedevano se la Francia avrebbe cercato di esportare le sue no­vità politiche. Il Lamartine, a capo del ministero degli esteri, esitava a imbarcarsi in una guerra contro Prussia, Austria e Rus­sia, rassicurando il governo britannico guidato dal Palmerston circa la volontà di pace della Francia. Il 5 marzo fu pubbli­cato un manifesto in cui la Francia proponeva il principio della sovranità popolare e il diritto di autodeterminazione dei popoli, il rifiuto del trattato di Vienna del 1815, accettando l’ordine internazionale vigente, fondato sull’equilibrio tra le potenze d’Europa. Questo linguaggio moderato era imposto dall’impreparazione dell’esercito e dalla difficile situazione economica.
 Tensioni negli Stati tedeschi In molti Stati tedeschi ci furono manifestazioni, la formazione della guardia nazionale e petizioni per ottenere governi rappresentativi. Anche in Germania i movi­menti non ebbero carattere violento, sebbene i governanti risultas­sero paralizzati dalla paura.
 La rivolta di Vienna A Vienna, i fatti di Parigi provocarono il collasso bancario e l’acuirsi della crisi delle industrie di Vienna e della Boemia.  Il malcontento si concretò in manifesta­zioni di studenti e borghesi. La crisi divenne acuta il 13 marzo a causa di scontri tra manifestanti e soldati, se­guiti da sollevazioni nei quartieri operai. La corte fu colta dal panico e cedette: il Metternich, indicato come capro espiato­rio dai manifestanti, fu costretto a lasciare la città e il gior­no 15 l’imperatore promise Costituzione, libertà di stampa e consiglio dei ministri. A Presburgo, dove era riunita la dieta ungherese, il Kossuth tenne un discorso mi­naccioso e spinse la dieta ad approvare un programma di riforme liberali. Nelle tre settimane seguenti fu approvata la legge agraria, l’abolizione dei diritti feudali e una maggiore autonomia per l’Ungheria. A Praga si ebbe una petizione degli studenti e dei borghesi che chiedevano l’istituzione di una dieta ceca, libertà politiche, pari dignità per le lingue dell’impero e la fine della legislazione feudale. A conti fatti, nell’impero absburgico non erano accaduti eventi violenti e per il momento l’imperatore aveva fatto solo promesse.
 Insurrezione a Berlino A Berlino, ormai divenuta una città indu­striale, la disoccupazione era grave e quando il 16 marzo giunse la notizia dei disordini di Vienna, si formarono cortei duramente affrontati dai soldati. Il giorno 18, proprio a seguito della brutalità dell’esercito, scoppiò un’insurrezione che eb­be la  meglio e il re Federico Guglielmo IV dovette placare la collera della folla con alcune concessioni come la libertà di stampa; la convocazione di un’assemblea nazionale per elaborare la legge elettorale; il governo con ministri responsabili verso il Parlamento. L’esempio di Berlino fu imitato dagli Stati della Germania. Nello Schleswig-Holstein la popolazione tedesca procla­mò l’indipendenza dei due ducati dalla Danimarca ed elesse un principe proprio: accorsero volontari tedeschi che ributtarono l’esercito danese oltre il fiume Eider.