Nella teologia cattolica i concetti di “santo” e di”santità” hanno un significato e una storia del tutto speciali. Il culto dei martiri. Le canonizzazioni vescovili. Le canonizzazioni papali. Che cosa fecero i santi. Dobbiamo conoscerli e imitarli.
Nella teologia cattolica i concetti di “santo” e di”santità” hanno un significato e una storia del tutto speciali. Nei primi secoli del cristianesimo “santo” designava qualsiasi battezzato in quanto “puro” e “separato” da ciò che è ” impuro ” e ” profano”; come già il popolo ebraico si diceva “santo” rispetto a tutti gli altri popoli perché “eletto” da Dio, secondo i suoi sapientissimi disegni, a portare la salvezza a tutto il mondo. In seguito però l’appellativo venne limitato a quei cristiani i quali, dopo aver trascorso una vita di virtù, godono della felicità eterna, e finalmente divenne il titolo particolare di quelli ai quali la Chiesa rende pubblici onori in terra. In questo libro con il termine ”santi” sono indicati tutti coloro che furono canonizzati, cioè elevati agli onori degli altari prima dai vescovi, e in seguito dai papi.
Già presso il popolo ebraico c’era l’abitudine di onorare i personaggi più insigni. Il Siracide, infatti, dichiara santi e canonizzati in qualche modo Enoch, Noè, Abramo, Isacco e Giacobbe, Mosè e tanti altri giusti d’Israele dei quali mette in risalto le virtù che riscontriamo anche nei giusti del Nuovo Testamento, che sono degli antichi gli eredi e i continuatori.
“Facciamo l’elogio di quegli uomini pii – egli dice – che furono i nostri antenati, secondo l’ordine delle generazioni. L’Altissimo ha profuso in loro la sua gloria, facendo risplendere la sua grandezza fin dai giorni più antichi. Rifulsero fra di essi illustri regnanti, famosi per la loro potenza; altri furono consiglieri per la loro prudenza, e messaggeri divini per il dono profetico. Altri guidarono la nazione coi loro consigli, o per la loro saggezza di governo e i sapienti discorsi dei loro insegnamenti. Altri furono maestri di musica, e composero canti poetici. Altri ancora erano uomini ricchi e dotati di forza, vissuti in pace nella loro dimora. Tutti vennero onorati dai loro contemporanei, e glorificati durante la vita. Alcuni di essi hanno lasciato un nome, di cui si parla tuttora con onore. Di altri invece non è rimasta memoria. La loro discendenza durerà in eterno, e la loro fama non verrà mai offuscata. Il loro corpo fu sepolto con onore e in pace, ma il loro nome vive nei secoli. La gente racconta la loro sapienza, e l’adunanza celebra i loro elogi (cap. 44).
Il culto dei martiri
La Chiesa cattolica, fin dalle origini, considerò il martirio come massima espressione della fede e suprema prova dell’amore. Venerò quindi coloro che furono uccisi a causa del Vangelo come i più intimi amici di Dio e i più potenti intercessori presso di Lui. Soffrire e morire in testimonianza della divinità di Gesù Cristo costituisce dunque per un cristiano il più grande titolo di gloria. Il Signore Gesù, infatti, nel celebre discorso del Monte, disse ai suoi discepoli e alle turbe di Palestina che lo seguivano: “Beati siete voi quando vi oltraggeranno e perseguiteranno e, mentendo, diranno di voi ogni male per causa mia. Gioite ed esultate, perché grande sarà la vostra ricompensa nei cieli” (Mt. 5,11).
Persecuzione e martirio, lotta tra il bene e il male, tra Dio e Satana, costituiscono la storia perenne della Chiesa. Il fatto riveste carattere di miracolo morale, ossia è una prova apologetica che il cristianesimo è l’unica religione vera. Non per nulla Tertulliano ammoniva i pagani: “Più voi ci mietete con la persecuzione, più noi cresciamo, perché il sangue dei martiri è seme fecondo di novelli cristiani”. E Biagio Pascal (+ 1662) scriveva a distanza di tanti secoli:”Io credo volentieri ad una fede i cui testimoni si lasciano ammazzare”.
Un po’ ovunque, già dal secolo III, si formarono raccolte di Acta o relazioni stenografate del processo a condanna dei cristiani, redatte da notai, che diedero origine ai più antichi Martirologi. Essi attestano, assieme alla liturgia, all’epigrafia, all’arte cimiteriale, con quale rispetto i cristiani ricordassero i loro fratelli, defunti ”in pace”, ovvero “in Cristo”, e con quale trasporto tributassero ai martiri un culto speciale di dulìa. Il giorno in cui ricorreva l’anniversario del loro martirio – detto dies natalis o genetliaco, e cioè nascita al cielo – i fedeli si radunavano attorno alla tomba del martire “per la gioiosa celebrazione liturgica della sua memoria e di quella di altri martiri, per attingere forza e coraggio a seguirne l’esempio”. Così leggiamo nella lettera che i cristiani di Smirne scrissero riguardo al martirio del loro vescovo S. Policarpo (+ 156). Sul sepolcro del martire, costruito sovente a forma di arcosolio (arco di trionfo), veniva celebrata la Messa, alla quale faceva seguito l’agape fraterna a beneficio dei poveri. Su di esso sorgeva sovente una cappella o una sontuosa basilica, come si verificò a Roma per gli apostoli Pietro e Paolo, S. Lorenzo, S. Sebastiano, S. Agnese, S. Cecilia, S. Susanna, ecc.
Con la pace concessa alla Chiesa (313) dall’imperatore Costantino il Grande (+ 337), la venerazione per i martiri si diffuse ovunque grandemente. L’uso orientale della traslazione o divisione delle reliquie fu imitato anche in occidente moltiplicandosi così i centri del loro culto. Dal secolo V al secolo XI ebbero luogo molte traslazioni di corpi di martiri, sia per arricchirne le chiese e sia per metterli al sicuro dalle invasioni barbariche e dai saccheggi dei saraceni.
Il culto dei martiri e la fede nella loro intercessione sono confermati dalle invocazioni scritte sulle loro tombe, dal canone della Messa, dai graffiti, dai panegirici recitati in loro onore, dal desiderio di molti fedeli di venire sepolti presso la tomba di un martire. Il culto solenne e liturgico dei martiri era il frutto di una spontanea e logica evoluzione che si fondava sulla notorietà del martirio e sulla evidente somiglianza del defunto con Cristo.
La liturgia attuale continua l’antichissima tradizione, venerando e festeggiando i martiri di ogni tempo e di ogni luogo. Lo storico dell’antichità romana, Teodoro Mommsen (+ 1903), fa notare molto giustamente che “in tutta la lunga storia della conversione dei pagani, noi cerchiamo invano qualche solenne figura di martire delle credenze pagane, e se taluno rimase, isolatamente, fedele alle antiche divinità anche nella morte, egli fu più un martire della libertà che delle sue convinzioni religiose”. Dare testimonianza mediante il martirio della propria fede è un tipico frutto del cristianesimo.
Le canonizzazioni vescovili
Le persecuzioni contro la Chiesa non erano ancora terminate quando i fedeli cominciarono a venerare “i confessori”, cioè quei cristiani deferiti all’autorità civile per la loro fede, ma che, per varie circostanze, o non avevano subito il martirio, o vi erano sopravvissuti. Cosi capitò per S. Dionigi di Milano (+ 359), S. Eusebio di Vercelli (+ 371), S. Atanasio di Alessandria (+ 373), S. Melezio d’Antiochia (+ 38 1), S. Giovanni Crisostomo (+ 407), ecc. In seguito, diffusasi l’idea che può supplire al martirio il desiderio del medesimo, accompagnato ad una vita di sacrificio per Cristo, o anche la pratica eccellente della virtù, accompagnata ad una strenua difesa della fede nel campo politico, ecclesiastico e sociale, si creò attorno a certi personaggi una fama e un culto non dissimili da quelli goduti dai martiri. Tra i tanti basterà ricordare: S. Gregorio Taumaturgo (+270), S. Efrem siro (+ 373), S. Silvestro papa (+ 335), S. Ambrogio di Milano (+ 397), S. Martino di Tours (+397), S. Girolamo (+420) e S. Agostino (+430).
Dopo la pace costantiniana, nella Chiesa di Dio prese grande sviluppo la pratica dell’ascetismo e del monachesimo. S. Atanasio, durante i suoi esili, fece conoscere ovunque S. Antonio abate (+ 356), di cui aveva scritto la vita. Egli lo aveva equiparato ai martiri antichi non per l’effusione del sangue, ma per il costante sforzo che si era imposto nella lotta contro i demoni e nell’acquisto della perfezione (Vita, c. 47). Allora fu introdotto l’uso, diventato poi universale, di chiamare “confessori” tutte quelle persone che non avevano avuto da soffrire per la fede o comunque per l’idea cristiana, ma di queste avevano reso testimonianza con la vita di penitenza e di preghiera. Godettero di simile venerazione grandi asceti e famosi monaci come S. Ilarione (+ 372), S. Paolo di Tebe (+ 381), S. Simeone lo stilita (+ 459) e zelanti vescovi come i tre cappadoci: S. Basilio il Grande (+ 379), S. Gregorio Nazianzeno (+ 390) e S. Gregorio Nisseno (+ 400). Presso le loro tombe sorsero sovente santuari che attiravano turbe di pellegrini; le loro reliquie furono venerate e ricercate; l’anniversario della loro morte veniva celebrato liturgicamente con grande solennità.
Dal secolo V al secolo IX parecchi santi “non-martiri” furono accolti nei calendari romani ed ebbero nella Città eterna i loro oratori e le loro chiese con annessi i monasteri. Questo culto in gran parte fu favorito dai papi di origine non romana, dai monaci emigrati per controversie politico -religiose dall’oriente all’occidente, dallo scambio di reliquie e dalla diffusione delle Passiones o racconti completi delle sofferenze subite dai martiri o dai confessori, narrate molto sovente con l’ingenuo gusto del meraviglioso. Nella diffusione del culto dei santi esercitarono ed esercitano ancora un grande influsso le opere dei Padri e degli scrittori ecclesiastici, in quanto sviluppano sistematicamente la teoria del “martirio incruento”, rappresentato dalla vita cristiana, ascetica e monastica vissuta alla perfezione. Al presente i santi confessori sono distinti in quattro categorie: i confessori pontefici (vescovi), i confessori dottori, che si segnalarono nella difesa della fede con gli scritti, i confessori abati; i confessori non pontefici.
P. Giuseppe Löw (+ 1962), redentorista, vice relatore della Sezione storica della S. Congregazione per le cause dei Santi, ha scritto sotto la voce Canonizzazione nell’Enciclopedia Cattolica, vol. III, col. 574 s.: “Fra i secoli VI e X, mentre l’Oriente si distaccava sempre più dall’Occidente, la dissoluzione dell’impero romano e l’immigrazione dei popoli barbarici, con la relativa necessità di convertirli alla fede cattolica, posero la Chiesa di fronte a compiti nuovi e ardui. È l’epoca dei grandi vescovi, dei monaci missionari, dei re convertiti che finiscono persino nel chiostro, delle regine e principesse fondatrici di monasteri e chiese e poi esse stesse badesse o monache, degli eremiti e dei pellegrini; un mondo in fermento e in movimento, con profondi contrasti fra violenza e santità, in mezzo a popoli giovani, di forte immaginativa, entusiasti della nuova fede, ammiratori degli eroi della carità e della illibatezza evangelica. In questo periodo, oltre una rifioritura del culto dei santi martiri, nascono un po’ da per tutto nuovi culti di santi: bastava al popolo spesso la fama di vita penitente, la fondazione di un monastero con le sue benefiche conseguenze, una grande beneficenza verso i poveri, talvolta una morte violenta, anche se non sempre per stretto motivo di fede, e soprattutto la fama di miracoli, per far nascere un nuovo culto: voce popolare di santa vita, e credito di miracoli sono i 2 punti di partenza per questi culti dell’alto medio evo. Le grandi chiese considerarono ordinariamente i loro fondatori e primi vescovi come altrettanti santi; lo stesso vale per le figure di grandi abati. In tutti i casi se ne raccolgono le memorie, se ne scrivono le leggende senza troppe preoccupazioni di critica; i calendari e i martirologi di quei secoli si arricchiscono con sempre nuovi nomi, nelle chiese si moltiplicano gli altari e il numero delle feste aumenta rapidamente. Di tanto in tanto occorreva reprimere anche facili abusi…
“Dalle varie e molteplici notizie su questa materia, risulta che si stava formando in questi secoli una certa prassi più o meno uniforme, attraverso la quale veniva autorizzato un nuovo culto. Il punto di partenza rimane sempre la fama pubblica, la vox populi, che subito dopo la morte del servo di Dio correva alla tomba, ne invocava l’intercessione e ne proclamava l’effetto taumaturgico. Allora era avvisato il vescovo competente; in sua presenza, anzi, spesso in occasione di un sinodo diocesano o provinciale, si leggeva una vita del defunto e soprattutto la storia dei miracoli (primissimo nucleo dei futuri processi) e in seguito all’avvenuta approvazione, si procedeva all’esumazione del corpo per dargli una sepoltura più onorevole: la elevatio. Ma spesso seguiva subito o più tardi un altro passo: la translatio, cioè la nuova deposizione del corpo santo davanti o accanto ad un altare o addirittura sotto o sopra l’altare, il quale prendeva il nome dal santo ivi venerato; anzi, alle volte la stessa chiesa era ampliata o ricostruita e dedicata precisamente al santo elevato o traslato. Dall’elevazione o traslazione in poi veniva celebrata regolarmente la festa liturgica, spesso con grande solennità, non solo nella località dove sorgeva l’altare o la chiesa, ma in tutta la diocesi, la regione, la provincia, o in tutta la famiglia religiosa…
“Per più di cinque o sei secoli (secc. VI-XII), la canonizzazione vescovile era la canonizzazione normale e unica in uso nella Chiesa latina. Accanto ad essa, la canonizzazione papale crebbe molto lentamente e ci volle molto tempo e molto lavoro dottrinale e canonistico prima che essa riuscisse a soppiantare la canonizzazione medioevale ordinaria, compiuta dai vescovi…
“II trapasso dalla prassi della canonizzazione vescovile alla canonizzazione papale è quasi impercettibile agli inizi. Questa, in un primo tempo, appare piuttosto casuale, e certamente non era intesa come un atto supremo e valevole per la Chiesa universale. Ma è chiaro che una canonizzazione fatta dal papa aveva una maggiore autorità; e perciò in un secondo tempo le richieste di autorizzazione papali di culto crebbero sempre più. Ma la procedura è la stessa come nella canonizzazione vescovile, e nella maggioranza dei casi il papa si limita a dare il suo consenso, mentre fuori, sul luogo, si procede in seguito alla solita solenne elevazione e inaugurazione del culto. I viaggi dei pontefici nei secoli XI e XII diedero ad essi occasione di procedere a tali elevazioni in persona. Insensibilmente la canonizzazione papale prese maggiore consistenza e valore canonico; si forma una procedura più rigida, e finalmente essa divenne la canonizzazione esclusiva e unicamente legittima”.
Le canonizzazioni papali
I papi hanno provveduto all’allestimento delle cause di beatificazione e canonizzazione mediante la S. Congregazione dei Riti, istituita da Sisto V nel 1588 con la costituzione Immensa Aeterni Dei. Nel 1969 detta Congregazione è stata divisa in due da Paolo VI: in Congregazione per le cause dei Santi e in Congregazione per il culto divino. La procedura nelle cause di beatificazione e canonizzazione fu ristrutturata il 19-3-1969 con il motu proprio di Paolo VI Sanctitas clarior, e la costituzione apostolica Divinus perfectionis magister del 25-1-1983, di Giovanni Paolo II. I due processi, finora in uso, quello diocesano e quello apostolico per provare l’esistenza della fama di martirio o di santità, vengono unificati in una sola inchiesta istruttoria, condotta dal vescovo, la cui autorità ordinaria demandata viene ora confermata ed elevata da quella apostolica delegata.
La canonizzazione papale è un atto o sentenza definitiva con cui il Sommo Pontefice decreta che un servo di Dio, precedentemente beatificato, venga iscritto nel catalogo dei Santi e si veneri nella Chiesa universale con un culto di dulia. Una delle note proprie della Chiesa cattolica è quella della santità. Santo è infatti il fondatore di essa, santa ne è la dottrina, santo il fine che persegue, santi i membri che la compongono in virtù del battesimo dì acqua, dì sangue o dì desiderio. Giudice dì questa santità è soltanto il papa. Il diritto di dichiarare chi debba essere ritenuto e onorato come santo spetta soltanto a lui. Secondo la quasi unanimità dei teologi la canonizzazione dei santi impegna l’infallibilità pontificia. Non è concepibile, teologicamente parlando, che il papa possa fare onorare come “santo”, qualcuno che non avesse realmente già raggiunto la gloria del paradiso.
A parte la considerazione che il Sommo Pontefice nell’esercizio del supremo magistero è illuminato e assistito dallo Spirito Santo, dobbiamo riconoscere che sono talmente minuziose le investigazioni, gli studi, gli accertamenti compiuti dai competenti sulla vita, le opere, gli scritti e le virtù dei servi di Dio, che è praticamente impossibile l’errore nelle canonizzazioni. Del resto, prima che il beato venga solennemente dichiarato “santo”, si richiede che ottenga da Dio il compimento di miracoli, i quali saranno esaminati oltre che da medici e chirurghi nominati d’ufficio, da tre o più riunioni dei cardinali e dei consultori facenti parte della Sacra Congregazione per le cause dei Santi, l’ultima delle quali è presieduta dal papa.
Una volta che sono stati approvati i miracoli ed è stato promulgato il decreto nel quale è stabilito che si può procedere con sicurezza (tuto) alla canonizzazione, la questione viene esaminata in 3 concistori consecutivi: 1) Il Concistoro segreto, in cui i cardinali residenti in Roma, muniti di documenti riguardanti la vita del beato e gli atti della causa, rispondono al Sommo Pontefice: Placet o Non ptacet. 2) Il Concistoro pubblico, solennissimo, cui prendono parte anche i vescovi che si trovano a Roma e gli ambasciatori delle nazioni cattoliche, accreditati presso la Santa Sede. Uno degli avvocati concistoriali espone la vita e i miracoli del beato e ne chiede la canonizzazione. Il segretario delle Lettere latine gli risponde in nome del papa; egli esorta i presenti a implorare i lumi divini con i digiuni e le preghiere, prima che i Cardinali e i Vescovi abbiano manifestato il loro proposito. 3) A tale scopo è indetto il Concistoro semipubblico al quale, oltre ai Cardinali e ai Vescovi residenti in Roma, sono invitati anche gli Abati nullius, perché, dopo aver preso in considerazione il compendio della vita del beato e i relativi atti, diano il loro suffragio. Quest’ultimo concistoro si apre e poi si chiude con una breve allocuzione del papa che annunzia il giorno in cui, nella basilica di San Pietro, compirà, secondo il solenne cerimoniale prescritto, l’atto della canonizzazione. Da quel momento il Santo novello potrà essere venerato in tutta la Chiesa con la celebrazione di Messe, con la costruzione di chiese e di altari in suo onore, e potrà essere raffigurato con attorno al capo l’aureola.
La prima canonizzazione papale storicamente sicura è quella che eseguì Giovanni XV il 31-1-993, durante il sinodo celebrato al Laterano, riguardo a S. Ulderico, vescovo di Augusta. Molti sono persuasi che i santi canonizzati siano migliaia e migliaia. La realtà è molto diversa poiché la santità vera, consumata, eroica è molto rara. Fino al 1990 i santi canonizzati in modo formale ed equipollente dai Sommi Pontefici sono circa 544, di cui 123 italiani, 96 vietnamiti, 93 sud coreani, 91 francesi, 61 spagnoli, 54 inglesi e gallesi, 22 ugandesi, 20 olandesi, 17 giapponesi, 15 tedeschi, 8 irlandesi, 7 polacchi, 4 portoghesi, 2 belgi, 2 svizzeri, ecc. I santi canonizzati, provenienti da famiglie nobili, sono un centinaio. Un bel numero se si considera quanto sia difficile rinunciare alle ricchezze per amore del regno dei cieli. Le donne canonizzate sono appena una ottantina. Dalle statistiche risulta che, dal 1860 al 1890, Pio IX ha elevato alla gloria degli altari 52 persone; Leone XIII 18; Pio X 5; Benedetto XV 2; Pio XI 33; Pio XII 33; Giovanni XXIII 11; Paolo VI 83; Giovanni Paolo Il 237.
Che cosa fecero i santi
Tutti coloro che sono giunti agli onori degli altari hanno vissuto alla perfezione i consigli evangelici, e hanno praticato in grado eroico tutte le virtù, in modo speciale la fede, la speranza e la carità. Ciascuno di essi si distinse in qualche virtù particolare; tutti però si rassomigliano in tre aspetti fondamentali della vita ascetico-mistica:
1) Anzitutto i santi (siano essi canonizzati o no) furono tutti uomini di continua orazione. Essi hanno capito alla perfezione e praticato l’esortazione di S. Paolo: “Perseverate assiduamente nella preghiera, e vigilate in essa con azioni di grazia” (Col 4,2). Per attendervi, molti rinunciavano al sollievo corporale. Vivevano abitualmente immersi in Dio come il pesce nell’acqua.
2) Tutti i santi si sono conformati alla volontà di Dio e hanno sopportato con pazienza non solo le croci della vita, ma per vivere più realisticamente il mistero pasquale, hanno ricercato la sofferenza in mille diverse maniere, che hanno dell’incredibile. Noi, che viviamo in tempi di benessere e di comodità senza precedenti nella storia, stentiamo a credere ai flagelli, ai cilici, ai digiuni, alle macerazioni di ogni genere cui fecero ricorso i santi per scontare i propri peccati, e per ottenere pietà e misericordia da Dio per i misfatti che gli uomini quotidianamente commettono. Come S. Paolo, anch’essi hanno sentito l’incoercibile necessità di “dare compimento nella propria carne a ciò che manca alle tribolazioni di Cristo a vantaggio del suo corpo, che è la Chiesa” (Col 1,24), mossi a ciò dallo Spirito Santo e sostenuti dalla sua grazia senza la quale non è possibile persistere in tante penitenze.
3) Finalmente i santi hanno nutrito tutti un grande amore per i poveri, i malati, gli orfani, gli emarginati della società, i peccatori e hanno cercato di soccorrerli in tutte le maniere possibili. Nessuno più dei santi ha preso sul serio l’insegnamento di Gesù che dice: ”Ama il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente. 2 questo il primo e massimo comandamento. Il secondo gli rassomiglia: ama il prossimo tuo come te stesso. A questi due comandamenti si riduce tutta la Legge e i Profeti(Mt 22,37s). Al dire di S. Paolo la carità è “il vincolo della perfezione” (Col 3,14) perché è il principio ispiratore di tutte le virtù e tiene strettamente uniti i cristiani tra loro.
Aveva ragione quindi S. Francesco di Sales di esortare monsignor Andrea Frémyot, arcivescovo di Bourges, di servirsi nella predicazione degli esempi tratti dalla vita dei santi, scrivendogli il 5-10-1604: “Che cosa sono le vite dei santi, se non il Vangelo messo in pratica? Fra il Vangelo e le vite dei santi non passa maggiore differenza di quella che passa tra una musica scritta e una musica cantata”. Eppure, in questi tempi di contestazione e di critica, tanti dicono di non credere a quello che di meraviglioso viene narrato nelle vite dei santi benché essi siano considerati come gli autentici “profeti” del Nuovo Testamento. A questi ipercritici ha già risposto 900 anni or sono S. Bartolomeo il Giovane (+ 1065) il quale, nel prologo della vita di S. Nilo di Rossano, suo padre spirituale e maestro, così scrive: “A dire il vero in questi ultimi tempi… non si trova chi ami questo genere di narrazioni, e tanto meno che ne faccia diligente e amoroso studio; anzi, al contrario, vi sono molti che le mettono in derisione, che ne provano fastidio; giacché costoro alle antiche storie dei santi non credono assolutamente, e alle recenti negano fede. Chiudendosi per tal modo, a così dire, la via ad ogni loro vantaggio, essi si sono prefissi un solo scopo, quello cioè di misurare le cose narrate con il metro della loro intelligenza; rifiutando come falso, o quanto meno, come sospetto di falsità, tutto quanto supera la portata del loro intelletto”.
C’è un serio motivo per dubitare dei fatti straordinari che si sono verificati nella vita di tanti santi? Assolutamente no, sia perché tali fatti sono più che sufficientemente documentati dai contemporanei, e sia perché i medesimi fenomeni soprannaturali si sono verificati in uomini e donne vissuti in secoli e luoghi diversi. Ad esempio, se le persecuzioni da parte del diavolo sono state,possibili nella vita di S. Giovanni M. Vianney, di S. Giovanni Bosco, di S. Gemma Galgani, perché attribuire a una pura invenzione di S. Atanasio quelle subite da S. Antonio abate nel deserto? Altrettanto si dica dei miracoli operati in vita dai santi. Il Vecchio Testamento non è pieno di prodigi operati da Dio per dimostrare al popolo eletto che Lui soltanto era il vero Signore da adorare e amare? E il Vangelo non riferisce i prodigi operati da Gesù per dimostrare che soltanto Lui era veramente il Messia, il Figlio di Dio incaricato di redimere il mondo dal peccato e dalla morte? Perché considerare come leggende i portenti che Egli continua ad operare nel corso della storia per mezzo dei suoi servi più fedeli, ai quali ha affidato compiti straordinari a beneficio della Chiesa e dell’umanità? È pacifico che molte volte gli scrittori delle vite dei santi si sono lasciati prendere la mano nell’esaltazione del loro eroe dipingendolo con colori irreali, eccessivamente distaccato dal suo ambiente e dai suoi difetti. Tuttavia chi sa leggere, per esempio, tra le righe dei Fioretti di S. Francesco, non troverà difficoltà a discernere quanto in essi è leggendario o frutto di fantasia, da quello che è invece storico e frutto della grazia di Dio.
Tutti i secoli, per quanto burrascosi, ebbero i loro santi, provenienti da tutte le categorie sociali. Il Concilio Vaticano II afferma nella costituzione dogmatica Lumen Gentium che “tutti nella Chiesa, sia che appartengano alla gerarchia, sia che da essa siano diretti, sono chiamati alla santità” (n. 39), “alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità” (n. 40, b). In realtà, la storia delle canonizzazioni pontificie ci dice che le anime veramente generose sono poche. Di fronte al sacrificio molti si scoraggiano e rinunciano alla lotta. Anziché inerpicarsi con cuore magnanimo su per la montagna della perfezione, preferiscono adagiarsi al piano, paghi della loro “aurea mediocrità”.
Insegna ancora il Concilio che “nei vari generi di vita e nei vari uffici un’unica santità è coltivata da quanti sono mossi dallo Spirito di Dio e, obbedienti alla voce del Padre e adoranti in spirito e verità Dio Padre, seguono Cristo povero, umile e carico della croce per meritare di essere partecipi della sua gloria. Ognuno secondo i propri doni e uffici deve senza indugi avanzare per la via della fede viva, la quale accende la speranza e opera per mezzo della carità” (n. 41). Queste verità sono state messe in pratica alla lettera da quanti sono stati elevati all’onore degli altari. Aveva ragione, quindi, S. Brigida di dire ai suoi figli spirituali: “Dopo la Bibbia nulla vi stia più a cuore delle vite dei santi”.
Dobbiamo conoscerli e imitarli
Alle ore 12 di domenica 31-5-1970, Paolo VI, dopo il rito della canonizzazione di S. Giovanni d’Avila, rivolse ai fedeli convenuti sulla piazza di S. Pietro, prima della recita dell’Angelus, la seguente esortazione:
“Questa canonizzazione ci fa pensare al patrimonio di uomini eletti, posseduto dalla Chiesa e via via accresciuto nel corso dei secoli; non è soltanto un patrimonio di memorie degne di essere ricordate dagli storici e dai compaesani; ed è già cosa singolare e mirabile; non è soltanto una tradizione del passato, altra cosa preziosa che il tempo non riesce a consumare; ma è un patrimonio vivo, di personalità di prim’ordine, che sono ancora con noi, anzi più che mai dopo che è loro riconosciuta la santità, che li iscrive in quella comunione dei Santi, ch’è la Chiesa; la Chiesa celeste specialmente la quale, in Cristo e mediante lo Spirito, comunica anche con noi, ancora membri della Chiesa terrestre e pellegrina in questo tempo e in questo mondo.
“Se esiste questa comunione dei Santi – ed esiste! – non faremmo bene a profittarne un po’ di più di quanto oggi non si faccia? Conoscerli questi Santi, onorarli ed invocarli, e soprattutto imitarli, dobbiamo.
“Ne avremmo conforto a ben pensare dell’umanità e a ben vivere la vita cristiana. Senza forse che lo riconosciamo, sta il fatto che noi ci lasciamo impressionare dalle figure degli uomini singolari, dalle figure degli artisti, ad esempio, degli sportivi, degli eroi, dei potenti; e sta bene, questo è fenomeno della convivenza umana; è un mimetismo al quale, più o meno, non si sfugge. Se conoscessimo meglio i Santi, potrebbe darsi che diventassimo anche noi più buoni, più fedeli, più cristiani, e non sarebbe forse una bella cosa?
“Vediamo di capire la Chiesa che onora Cristo onorando i suoi migliori seguaci, e facciamo anche noi qualche passo per metterci in linea.
Maria è in testa, e ci invita”.
Paolo VI nel corso della canonizzazione di S. Teresa di Gesù Jornet e Ibars, che si svolse in S. Pietro il 27-1-1974, ebbe ancora a dire:
“Non possiamo tacere l’elogio dello studio dei Santi, cioè della agiografia. Se ogni studio della vita umana, considerata nella sua esistenziale fenomenologia, è sempre interessantissimo (quanta scienza, quante arti vi trovano il loro inesauribile nutrimento!), quale interesse, quale passione dovrebbe avere per noi lo studio dell’agiografia, cioè delle vite dei Santi, nei quali questo soggetto di studio, ch’è il volto umano, svela segreti di ricchezza, di avventura, dì sofferenze, di sapienza, dì drammaticità, in una parola, di virtù, che non possiamo riscontrare in pari vigore di esperienza e di espressione, e finalmente di ottimista affermazione, in altri viventi, siano pur essi dotati di straordinarie qualità. La parola “edificazione” è qui appropriata; la conoscenza della vita dei Santi è per eccellenza una edificazione. Così ricordassero i nostri maestri di spirito e di umanesimo e i nostri educatori del popolo la prodigiosa, staremmo per dire la misteriosa efficacia pedagogica e formativa d’attingere alla scuola dei Santi la vocazione e l’arte di vivere bene, da veri uomini e da veri cristiani! ”.
Gli stessi concetti sono ribaditi ogni tanto da Giovanni Paolo II nei discorsi che fa al popolo di Dio in occasione della glorificazione di beati e di santi. Nel mese di maggio 1980, disse a Lisieux durante la sua visita alla tomba di S. Teresa di Gesù Bambino:
“I santi non invecchiano mai, essi non cadono in prescrizione. Essi restano continuamente i testimoni della giovinezza della Chiesa. Essi non diventano mai personaggi del passato, uomini e donne di “ieri”. Al contrario: essi sono sempre gli uomini e le donne di “domani”, gli uomini dell’avvenire evangelico dell’uomo e della Chiesa,i testimoni del “mondo futuro”.
A un gruppo di pellegrini polacchi in visita alle memorie degli apostoli, l’11-10-1982 proclamò:
“I santi sono nella storia per costituire i permanenti punti di riferimento, sullo sfondo del divenire dell’uomo e del mondo. Ciò che si manifesta in essi è duraturo e intramontabile. Testimonia dell’eternità. Da questa testimonianza l’uomo attinge, sempre di nuovo, la coscienza della sua vocazione e la sicurezza dei destini. In tale direzione i santi guidano la Chiesa e l’umanità”.
Nel discorso che Giovanni Paolo II tenne a Lucca il 23-9-1989 ai giovani nel corso della sua visita pastorale, tra l’altro disse:
“I Santi, che in ogni epoca della storia hanno fatto risplendere nel mondo un riflesso della luce di Dio, sono i testimoni visibili della santità misteriosa della Chiesa. Questa vostra terra, carissimi giovani, è stata percorsa, anche in tempi recenti, da Santi a voi familiari. Per conoscere in profondità la Chiesa è a loro che dovete guardare! E non soltanto ai Santi canonizzati, ma anche a tutti i Santi nascosti, anonimi, che hanno cercato di calare il Vangelo nella ferialità dei loro doveri quotidiani. Essi esprimono la Chiesa nella sua verità più intima; e, al tempo stesso, essi salvano la Chiesa dalla mediocrità, la riformano dal di dentro, la sollecitano ad essere sempre più ciò che deve essere, la Sposa di Cristo senza macchia né ruga” (cf. Ef 5,27).
Testo tratto da:
Sac. Guido Pettinati SSP, I Santi canonizzati del giorno, vol. 1, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 11-21.