Pio XI, enciclica Ad catholici sacerdotii. Il sacerdote e’ chiamato ad essere educatore in un mondo che sta perdendo sempre piu’ i valori cristiani: per questo deve essere particolarmente preparato
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Pio XI
Ad catholici sacerdotii
Sin da quando, per arcano disegno della divina Provvidenza, Ci vedemmo sollevati a questo supremo vertice del sacerdozio cattolico, non abbiamo mai cessato di rivolgere le nostre cure più sollecite e più affettuose a quelli tra gli innumerevoli figli che Dio Ci ha dati, i quali, insigniti del carattere sacerdotale, hanno la missione di essere “il sale della terra e la luce del mondo” (Mt 5,13), e in modo ancora più speciale ai dilettissimi giovani che si vanno educando all’ombra del santuario e si preparano a questa nobilissima missione.
Negli stessi primi mesi del Nostro Pontificato, prima ancora di rivolgere la Nostra solenne parola a tutto l’orbe cattolico, Ci demmo premura, con la Lettera Apostolica Officiorum omnium del 1º agosto 1922 indirizzata al diletto Figlio nostro, Prefetto della Sacra Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi, di tracciare le direttive, a cui deve ispirarsi la formazione sacerdotale dei giovani leviti . Ed ogni qualvolta la pastorale sollecitudine Ci muove a considerare più in particolare gli interessi e i bisogni della Chiesa, la Nostra attenzione prima di ogni altra cosa si dirige ai sacerdoti e ai chierici, che formano sempre l’oggetto principale delle Nostre cure.
Di questo Nostro speciale interessamento per il sacerdozio sono prova eloquente i numerosi Seminari che abbiamo o eretti dove ancora non erano, o forniti, non senza grande dispendio, di nuove sedi ampie e decorose, o meglio provveduti di mezzi e di persone onde possano più degnamente raggiungere l’alto loro scopo.
Se poi in occasione del Nostro giubileo sacerdotale abbiamo consentito che ne fosse solennemente festeggiata la fausta ricorrenza e con paterno compiacimento abbiamo secondato le manifestazioni di filiale affetto che Ci venivano da tutte le parti del mondo, ciò fu perché, più che come un ossequio alla Nostra persona, consideravamo quella celebrazione come una doverosa esaltazione della dignità e del carattere sacerdotale.
E anche la riforma degli studi nelle Facoltà ecclesiastiche, da Noi decretata con la Costituzione apostolica Deus scientiarum Dominus del 24 maggio 1931, fu da Noi voluta col precipuo intento di accrescere ed elevare sempre più la cultura e la dottrina dei sacerdoti .
Ma è questo un argomento di tanta e così universale importanza, che ci sembra opportuno di trattarne più di proposito in questa Nostra Lettera enciclica, affinché non solamente quelli che già posseggono il dono inestimabile della fede, ma anche quanti con rettitudine e sincerità di cuore vanno in cerca della verità, riconoscano la sublimità del sacerdozio cattolico e la sua provvidenziale missione nel mondo, e soprattutto la riconoscano e la apprezzino quelli che ad essa sono chiamati: argomento particolarmente opportuno alla fine di quest’anno che a Lourdes, ai candidi raggi dell’Immacolata e fra i fervori dell’ininterrotto triduo eucaristico, ha visto il sacerdozio cattolico, di ogni lingua e di ogni rito, circonfuso di luce divina nello splendido tramonto del Giubileo della Redenzione dall’Urbe esteso all’Orbe cattolico; di quella Redenzione, della quale i Nostri cari e venerati sacerdoti sono i ministri, mai tanto operosi e benefici quanto in questo Anno Santo straordinario, in cui, come dicemmo nella Costituzione apostolica Quod nuper , si è pure celebrato il XIX centenario della Istituzione del Sacerdozio.
E con ciò, mentre questa armonicamente s’innesta alle Nostre precedenti Encicliche, con cui abbiamo voluto proiettare la luce della dottrina cattolica sui più gravi problemi che travagliano la vita moderna, sentiamo pure di dare a quegli stessi Nostri solenni ammaestramenti un opportuno complemento. Difatti il sacerdote è, per vocazione e mandato divino, il precipuo apostolo e l’indefesso promotore dell’educazione cristiana della gioventù ; il sacerdote in nome di Dio benedice il matrimonio cristiano e ne difende la santità ed indissolubilità contro gli attentati e le deviazioni suggerite dalla cupidigia e dalla sensualità ; il sacerdote porta il più valido contributo alla soluzione o almeno alla mitigazione dei conflitti sociali, predicando la fratellanza cristiana, a tutti ricordando i mutui doveri della giustizia e della carità evangelica, pacificando gli animi inaspriti dal disagio morale ed economico, additando ai ricchi e ai poveri gli unici beni a cui tutti possono e devono aspirare ; il sacerdote finalmente è il più efficace banditore di quella crociata di espiazione e di penitenza, a cui abbiamo invitato tutti i buoni per riparare le bestemmie, le turpitudini e i delitti, che disonorano l’umanità nell’ora che volge, un’ora che come poche altre nella storia ha tanto bisogno della misericordia divina e de’ suoi perdoni . E i nemici della Chiesa ben sanno l’importanza vitale del sacerdozio, contro cui appunto, come abbiamo già lamentato per il Nostro diletto Messico , dirigono prima di tutto i loro colpi, per toglierlo di mezzo e sgombrarsi la via alla sempre desiderata e mai ottenuta distruzione della Chiesa stessa.
I. LA SUBLIME DIGNITÀ: ALTER CHRISTUS
Il genere umano sentì sempre il bisogno di avere dei sacerdoti, degli uomini cioè che per missione ufficiale loro affidata fossero i mediatori tra Dio e gli uomini, e a questa mediazione interamente consacrati, ne facessero il compito della loro vita: deputati ad offrire a Dio pubbliche preghiere e sacrifici a nome della società, che pur essa, in quanto tale, ha l’obbligo di rendere a Dio culto pubblico e sociale, di riconoscere in Lui il suo supremo Signore e primo principio, tendere a Lui come ad ultimo fine, ringraziarlo, propiziarlo. Difatti presso i popoli, di cui conosciamo gli usi, purché non costretti dalla violenza ad andar contro le leggi più sacre della natura umana, si trovano dei sacerdoti, quantunque spesso al servizio di false divinità: dovunque si professa una religione, dovunque si ergono altari, là vi è anche un sacerdozio, circondato da speciali mostre di onore e di venerazione.
Ma ai fulgori della rivelazione divina il sacerdote apparisce rivestito di una dignità di gran lunga maggiore, della quale è lontano annuncio la misteriosa, veneranda figura di Melchisedek, sacerdote e re (Gen 14,18) che San Paolo rievoca con riferimento alla persona e al sacerdozio di Gesù Cristo stesso (Eb 5,10; 6,20; 7,1-11.15).
Il sacerdote, secondo la magnifica definizione che ne dà lo stesso San Paolo, è bensì un uomo “preso di mezzo agli uomini”, ma “costituito a vantaggio degli uomini per i loro rapporti con Dio” (Eb 5,1): il suo ufficio non ha per oggetto le cose umane e transitorie, per quanto sembrino alte e pregevoli, ma le cose divine ed eterne; cose, che possono essere per ignoranza derise e disprezzate, che possono anche venire osteggiate con malizia e furore diabolico, come una triste esperienza lo ha spesso provato e la prova pur oggi, ma che stanno sempre al primo posto nelle aspirazioni individuali e sociali dell’umanità, la quale sente irresistibilmente di essere fatta per Iddio e di non potersi riposare se non in Lui.
Nella legge mosaica al sacerdozio, istituito per disposizione divino-positiva promulgata da Mosè sotto l’ispirazione di Dio, vengono minutamente assegnati i compiti, le mansioni, i riti determinati. Sembra che Dio nella sua sollecitudine volesse nella mente ancora primitiva del popolo ebreo imprimere una grande idea centrale che, nella storia del popolo eletto, irradiasse la sua luce su tutti gli avvenimenti, le leggi, le dignità, gli uffici: il sacrificio e il sacerdozio; perché, per la fede nel futuro Messia, diventasse fonte di speranza, di gloria, di forza, di liberazione spirituale (cf. Eb 11). Il tempio di Salomone, mirabile per ricchezza e splendore e ancor più mirabile ne’ suoi ordinamenti e ne’ suoi riti, eretto all’unico vero Dio come tabernacolo della divina Maestà sulla terra, era pure un altissimo poema cantato a quel sacrificio e a quel sacerdozio, che, quantunque ombra e simbolo, racchiudevano tanto mistero da far inchinare riverente il vincitore Alessandro Magno davanti alla ieratica figura del Sommo Sacerdote ; e Dio stesso faceva sentire l’ira sua all’empio re Baldassare, perché gozzovigliando aveva profanato i vasi sacri del tempio (cf. Dn 5,1-30). Eppure quell’antico sacerdozio non traeva la sua più grande maestà e gloria se non dall’essere una prefigurazione del sacerdozio cristiano, del sacerdozio del nuovo ed eterno Testamento confermato col Sangue del Redentore del mondo, di Gesù Cristo vero Dio e vero uomo!
L’Apostolo delle Genti scultoriamente compendia quanto si può dire intorno alla grandezza, alla dignità e ai compiti del sacerdozio cristiano, con queste parole: “Così ci consideri ognuno come ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio” (1Cor 4,1). Il sacerdote è ministro di Gesù Cristo; è dunque strumento nelle mani del divin Redentore per la continuazione dell’opera sua redentrice in tutta la sua mondiale universalità e divina efficacia, per la continuazione di quell’opera mirabile che trasformò il mondo; anzi il sacerdote, come ben a ragione si suol dire, è davvero alter Christus perché continua in qualche modo Gesù Cristo stesso: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi” (Gv 20,21), continuando anch’esso come Gesù a dare, secondo il canto angelico, “gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà” (Lc 2,14).
Potere ineffabile
E in primo luogo, come insegna il Concilio di Trento, Gesù Cristo nell’ultima Cena istituì il sacrificio ed il sacerdozio della Nuova Alleanza: “… Egli adunque, Dio e Signore nostro, benché stesse per offrire se medesimo una volta sola a Dio Padre, mediante la morte sull’altare della croce, per operarvi una redenzione eterna; tuttavia, poiché il suo sacerdozio non doveva estinguersi con la sua morte (Eb 7,24), nell’ultima Cena, nella notte in cui veniva tradito (1Cor 11,23), per lasciare alla diletta sua sposa la Chiesa un sacrificio visibile, come è richiesto dalla natura degli uomini, col quale venisse rappresentato quel sacrificio cruento che doveva operarsi una volta sola sulla croce, e affinché di quel sacrificio rimanesse il ricordo in perpetuo (1Cor 11,24ss) e venisse applicata l’efficacia per la remissione delle colpe che da noi si commettono ogni giorno, dichiarandosi costituito sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedek (Sal 110,4), offrì a Dio Padre il Corpo e il Sangue suo sotto le specie di pane e di vino, e sotto le apparenze di queste medesime cose, diede a gustare quel Corpo e quel Sangue divino agli Apostoli, cui allora costituiva sacerdoti del Nuovo Testamento, e con le parole: Fate questo in memoria di me (Lc 22,19; 1Cor 11,24), comandò agli stessi Apostoli e ai loro successori nel sacerdozio di offrire quella medesima oblazione” .
E da allora, gli Apostoli e i loro successori nel sacerdozio cominciarono ad innalzare verso il cielo quella “oblazione monda “predetta da Malachia per la quale il nome di Dio è grande tra le genti (cf. Ml 1,11) e che, offerta ormai in ogni parte della terra e in ogni ora del giorno e della notte, continuerà ad offrirsi perennemente sino alla fine del mondo: vera azione sacrificale, e non meramente simbolica, che ha una reale efficacia per la riconciliazione dei peccatori con la divina Maestà: “Poiché il Signore, placato da una tale oblazione, concedendo la grazia e il dono della penitenza, rimette le colpe e i peccati anche gravissimi” . La ragione di ciò la indica lo stesso Concilio Tridentino con queste parole: “Una sola e medesima è la vittima, e Colui che ora la offre, mediante il ministero dei sacerdoti, è quello stesso che allora offrì se medesimo sulla Croce, essendone diverso soltanto il modo” .
Donde apparisce luminosamente l’ineffabile grandezza del sacerdote umano, che ha il potere sullo stesso Corpo di Gesù Cristo, rendendolo presente sui nostri altari ed offrendolo in nome di Cristo stesso, vittima infinitamente grata alla Divina Maestà. “Mirabili cose sono queste – esclama giustamente San Giovanni Crisostomo – cose mirabili e piene di stupore!” .
Oltre questo potere che esercita sul corpo reale di Cristo, il sacerdote ha ricevuto altri poteri eccelsi e sublimi sul corpo mistico di Lui. Non abbiamo bisogno, Venerabili Fratelli, di dilungarci ad esporre questa bella dottrina del corpo mistico di Gesù Cristo, così cara a San Paolo; questa bella dottrina, che ci mostra la persona del Verbo fatto carne insieme con tutti i suoi fratelli, ai quali giunge l’influsso soprannaturale che da Lui deriva, formanti con Lui, come Capo, un solo corpo di cui essi sono le membra. Orbene il sacerdote è costituito “dispensatore dei misteri di Dio” (1Cor 4,1) in favore di queste membra del corpo mistico di Gesù Cristo, ministro ordinario com’è di quasi tutti i Sacramenti, che sono i canali attraverso i quali scorre a beneficio dell’umanità la grazia del Redentore.
Dispensatore dei misteri di Dio
Il cristiano, quasi ad ogni passo importante della sua mortale carriera, trova al suo fianco il sacerdote in atto di comunicargli o accrescergli col potere ricevuto da Dio questa grazia, che è la vita soprannaturale dell’anima. Appena nasce alla vita del tempo, il sacerdote lo rigenera col battesimo ad una vita più nobile e più preziosa, la vita soprannaturale, e lo fa figlio di Dio e della Chiesa di Gesù Cristo; per fortificarlo a combattere generosamente le lotte spirituali, un sacerdote rivestito di speciale dignità lo fa soldato di Cristo nella cresima: appena è capace di discernere ed apprezzare il Pane degli Angeli, il sacerdote glielo porge, cibo vivo e vivificante disceso dal cielo; se caduto, il sacerdote lo rialza in nome di Dio e con Lui lo riconcilia per mezzo della penitenza; se Iddio lo chiama a formarsi una famiglia ed a collaborare con Lui alla trasmissione della vita umana nel mondo, per aumentare prima il numero dei fedeli sulla terra e poi quello degli eletti nel cielo, il sacerdote è là a benedire le sue nozze e il suo casto amore; e quando il cristiano, giunto alla soglia dell’eternità, ha bisogno di forza e di coraggio prima di presentarsi al tribunale del Giudice divino, il sacerdote si china sulle membra doloranti dell’infermo e lo riconsacra e conforta con l’Olio Santo. Dopo di aver così accompagnato il cristiano attraverso il pellegrinaggio terreno fino alle porte del cielo, il sacerdote ne accompagna il corpo alla sepoltura con i riti e le preci della speranza immortale, e ne segue l’anima sino oltre le soglie dell’eternità per aiutarla coi suffragi cristiani, se mai abbisognasse ancora di purificazione e di refrigerio. Così dalla culla alla tomba, anzi sino al cielo, il sacerdote è accanto ai fedeli, guida, conforto, ministro di salute, distributore di grazia e di benedizioni.
Ma fra tutti questi poteri che il sacerdote ha sul corpo mistico di Cristo, a vantaggio dei fedeli, uno ve n’è sul quale non possiamo contentarci del semplice accenno testé fatto: quella potestà, “che Iddio non ha data né agli Angeli né agli Arcangeli”, come dice San Giovanni Crisostomo , la potestà cioè di rimettere i peccati: “A chi rimetterete i peccati saranno rimessi ed a chi li riterrete saranno ritenuti” (Gv 20,23). Potestà formidabile, tanto propria di Dio, che la stessa umana superbia non poteva comprendere fosse possibile che venisse comunicata all’uomo: “Chi può rimettere i peccati, se non il solo Dio?” (Mc 2,7). E vedendola esercitata da un semplice uomo qual è il sacerdote, c’è davvero da chiedersi, non per scandalo farisaico, ma per riverente stupore di tanta dignità: “Chi è costui, che rimette anche i peccati?” (Lc 7,49). Ma appunto l’Uomo-Dio, che aveva ed ha “sulla terra il potere di rimettere i peccati” (Lc 5,24), l’ha voluto trasmettere ai suoi sacerdoti per venir incontro, con divina liberalità e misericordia, a quel bisogno di purificazione morale che è insito alla coscienza umana. Quale conforto per l’uomo colpevole, trafitto dal rimorso e pentito, udire la parola del sacerdote, che in nome di Dio gli dice: “Io ti assolvo dai tuoi peccati”! E l’udirla dalla bocca di uno, che a sua volta avrà bisogno egli pure di chiederla per sé ad un altro sacerdote, non solo non avvilisce il dono misericordioso, ma lo fa apparire più grande, facendoci meglio intravedere, attraverso la fragile creatura, la mano di Dio, per la cui virtù si opera il portento. Ed è perciò che – per usare le parole di un illustre scrittore, il quale tratta anche di cose sacre con una competenza rara a trovarsi in un laico – “quando un sacerdote, fremendo in ispirito della sua indegnità e dell’altezza delle sue funzioni, ha stese sul nostro capo le sue mani consacrate; quando, umiliato di trovarsi il dispensatore del Sangue dell’alleanza, stupito ad ogni volta di proferire le parole che danno la vita, peccatore egli ha assolto un peccatore, noi alzandoci da’ suoi piedi, sentiamo di non aver commessa una viltà… Siamo stati ai piedi di un uomo che rappresentava Gesù Cristo… vi siamo stati per acquistare la qualità di liberi e di figliuoli di Dio” .
E tali poteri eccelsi, conferiti al sacerdote in uno speciale sacramento a ciò ordinato, non sono in lui transitori e passeggeri, ma stabili e perpetui, congiunti come sono ad un carattere indelebile impresso nell’anima sua, per cui è diventato “sacerdos in aeternum” (Sal 110,4), a similitudine di Colui del cui eterno sacerdozio è fatto partecipe: carattere, che il sacerdote, anche tra le più deplorevoli aberrazioni in cui per umana fragilità può cadere, non potrà mai cancellare dall’anima sua. Ma insieme con questo carattere e con questi poteri il sacerdote, per il sacramento dell’Ordine, riceve nuova e speciale grazia con speciali aiuti, per i quali, se con la sua libera e personale cooperazione fedelmente asseconderà l’azione divinamente potente della grazia stessa, egli potrà degnamente assolvere tutti gli ardui doveri dello stato sublime, a cui fu chiamato, e portare, senza restarne oppresso, quelle formidabili responsabilità inerenti al ministero sacerdotale, che fecero tremare perfino i più forti atleti del sacerdozio cristiano, come un San Giovanni Crisostomo, Sant’Ambrogio, San Gregorio Magno, San Carlo e tanti altri.
Apostolo della verità e della carità
Ma il sacerdote cattolico è ministro di Cristo e dispensatore de’ misteri di Dio (cf. 1Cor 4,1), anche con la parola, con quel “ministero della parola” (cf. At 6,4), che è un diritto inalienabile e insieme un dovere imprescrittibile impostogli da Gesù Cristo medesimo: “Andate adunque e ammaestrate tutte le genti,… insegnando loro di osservare tutto quello che vi ho comandato” (Mt 28,19-20). La Chiesa di Cristo, depositaria e custode infallibile della divina rivelazione, per mezzo de’ suoi sacerdoti sparge i tesori delle celesti verità, predicando colui che è “luce vera, che illumina ogni uomo che viene a questo mondo” (Gv 1,9), spargendo con divina profusione quel seme, piccolo e disprezzato allo sguardo profano del mondo, ma che, come l’evangelico grano di senape, ha in sé la virtù di mettere radici salde e profonde nelle anime sincere e sitibonde di verità e di renderle, come alberi robusti, incrollabili anche tra le più forti bufere (cf. Mt 13,31-32).
In mezzo alle aberrazioni dell’umano pensiero, ebbro di una falsa libertà da ogni legge e da ogni freno, in mezzo alla corruzione spaventevole dell’umana malizia, si erge faro luminoso la Chiesa, che condanna ogni deviazione a destra o a sinistra della verità, che indica a tutti e a ciascuno la via diritta da seguire; e guai se anche questo faro, non diciamo si spegnesse, il che è impossibile per le promesse infallibili su cui è basato, ma venisse impedito dal diffondere largamente i suoi raggi benefici! Già vediamo coi nostri occhi dove abbia condotto il mondo l’aver rigettato superbamente la divina rivelazione e l’aver seguito, sia pure sotto lo specioso titolo di scienza, false teorie filosofiche e morali. Che se nella china dell’errore e del vizio non si è ancora caduti più in basso, lo si deve ai raggi della verità cristiana che sono pur sempre diffusi nel mondo.
Orbene la Chiesa esercita il suo “ministero della parola “per mezzo dei sacerdoti, distribuiti sapientemente per i vari gradi della sacra gerarchia, ch’essa invia in ogni plaga, banditori indefessi della buona novella, che sola può conservare o portare o far risorgere la vera civiltà. La parola del sacerdote scende nelle anime ed arreca loro luce e conforto; la parola del sacerdote, anche in mezzo al turbine delle passioni, si eleva serena ed annuncia impavida la verità e inculca il bene: quella verità che rischiara e risolve i più gravi problemi della vita umana; quel bene che nessuna sventura, nemmeno la morte, può togliere, che la morte anzi assicura e rende immortale.
Se poi si considerino ad una ad una le verità stesse, che il sacerdote deve più spesso inculcare per essere fedele ai doveri del suo ministero, e se ne ponderiamo l’intima forza, ben si comprende quanto sia grande e benefico, per l’elevazione morale e la pacificazione e tranquillità sociale dei popoli, l’influsso del sacerdote: quando, per esempio, ricorda ai grandi e ai piccoli la fugacità della vita presente, la caducità dei beni terreni, il valore dei beni spirituali e dell’anima immortale, la severità dei divini giudizi, la santità incorruttibile dell’occhio divino che scruta i cuori di tutti e “renderà a ciascuno secondo il suo operato” (Mt 16,27). Nulla di più acconcio che questi ed altri simili insegnamenti, per temperare quella febbrile avidità di godimenti, quella sfrenata cupidigia dei beni temporali, che degradano oggi tante anime e spingono le varie classi della società a combattersi come nemiche, anziché aiutarsi a vicenda con la mutua collaborazione. In mezzo poi al cozzo di tanti egoismi, nel divampare di tanti odi, fra tanti cupi disegni di vendetta, nulla di più opportuno e di più efficace che proclamare alto il “comandamento nuovo” (cf. Gv 13,34) di Gesù, il precetto della carità, la quale si estende a tutti, non conosce barriere né confini di nazioni o di popoli, non eccettua neppure il nemico.
Una gloriosa esperienza di ormai venti secoli dimostra tutta l’efficacia salutare della parola sacerdotale, che essendo eco fedele e ripercussione di quella “parola di Dio”, che “è viva ed efficace e più tagliente di qualunque spada a due tagli” (cf. Eb 4,12), anch’essa arriva “sino alla divisione dell’anima e dello spirito”, suscita eroismi di ogni genere, in ogni classe e in ogni luogo, e crea l’azione disinteressata dei cuori più generosi. Tutti i benefici, che la civiltà cristiana ha portato nel mondo, si devono, almeno nella loro radice, alla parola e all’opera del sacerdozio cattolico. E tale passato basterebbe da sé a dare affidamento anche per l’avvenire, se non avessimo “una parola più sicura” (cf. 2Pt 1,19) nelle promesse infallibili di Cristo.
Anche l’opera missionaria, che manifesta in maniera così luminosa la potenza di espansione, di cui, per divina virtù, è dotata la Chiesa, è promossa ed attuata principalmente dal sacerdote, che, pioniere di fede e di carità, a costo di innumerevoli sacrifici, estende e dilata il Regno di Dio sulla terra.
Mediatore tra Dio e gli uomini
Il sacerdote finalmente – continuando anche in ciò la missione di Cristo, il quale “passava la notte pregando Dio” (cf. Lc 6,12) e “sempre vive ad intercedere per noi” (cf. Eb 7,25) – come pubblico ed ufficiale intercessore dell’umanità presso Dio, ha l’incarico e il mandato di offrire a Dio in nome della Chiesa, non solo il sacrificio propriamente detto, ma anche il “sacrificio della lode” (cf. Sal 50,14) con la preghiera pubblica ed ufficiale; egli, con salmi, preci e cantici, tolti in gran parte dai Libri ispirati, paga a Dio ogni giorno a più riprese questo doveroso tributo di adorazione e compie questo necessario ufficio d’impetrazione per l’umanità, oggi più che mai afflitta e più che mai bisognosa di Dio. Chi può dire quanti castighi la preghiera sacerdotale allontana dal capo dell’umanità prevaricatrice e quanti benefici le procura ed ottiene? Se la preghiera anche privata ha promesse divine così magnifiche e così solenni (cf. Mt 7,7-11), come quelle che Gesù Cristo le ha fatto, quanto più potente sarà la preghiera innalzata ex officio in nome della Chiesa, diletta Sposa del Redentore? E il cristiano, anche se troppo spesso immemore di Dio nella prosperità, conserva nel fondo dell’animo suo la fiducia nella preghiera, sente che la preghiera può tutto e, quasi per santo istinto, in ogni frangente, in ogni pericolo privato o pubblico, ricorre con singolare fiducia alla preghiera sacerdotale. Ad essa domandano conforto gli sventurati di ogni specie; ad essa si ricorre per implorare l’aiuto divino nelle varie vicende di questo terreno esilio. Veramente “il sacerdote sta nel mezzo tra Dio e l’umana natura, da una parte arrecando a noi i benefici di Dio, dall’altra presentando a Dio le nostre preghiere, riconciliandocelo se adirato” .
Del resto, come accennavamo fin da principio, i nemici stessi della Chiesa, a modo loro, mostrano di sentire tutta la dignità e l’importanza del sacerdozio cattolico, dirigendo contro questo i loro primi e più feroci colpi, ben sapendo quanto sia intimo il nesso che intercede tra la Chiesa e i suoi sacerdoti. I più accaniti nemici del sacerdozio cattolico sono oggi i nemici stessi di Dio: ecco un titolo di onore che rende il sacerdozio più degno di rispetto e di venerazione.
II. FULGIDO ORNAMENTO
La virtù e la scienza
Sublimissima dunque, Venerabili Fratelli, è la dignità del sacerdote; e le debolezze, per quanto deplorevoli e dolorose, di alcuni indegni non possono oscurare lo splendore di tale altissima dignità, come non devono far dimenticare le benemerenze di tanti sacerdoti insigni per virtù, per sapere, per opere di zelo, per il martirio. Tanto più che l’indegnità del soggetto non rende punto invalida l’opera del suo ministero: la indegnità del ministro non intacca la validità dei Sacramenti, che ripetono la loro efficacia dal Sangue di Cristo, indipendentemente dalla santità dello strumento, ossia, come si esprime il linguaggio ecclesiastico, esercitano la loro azione “ex opere operato”.
È però verissimo che tale dignità, di per se stessa, esige in chi ne è investito una elevazione di mente, una purezza di cuore, una santità di vita corrispondente alle sublimità e santità dell’ufficio sacerdotale. Questo, come abbiamo detto, costituisce il sacerdote mediatore tra Dio e l’uomo in rappresentanza e per mandato di Colui che è “l’unico Mediatore tra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo” (cf. 1Tm 2,5); deve quindi avvicinarsi quanto è possibile alla perfezione di Colui di cui fa le veci e rendersi sempre più gradito a Dio con la santità della vita e delle opere; poiché, più che il profumo degli incensi, più che il fulgore dei templi e degli altari, Iddio ama e gradisce la virtù. “Diventando (gli ordinati) mediatori tra Dio e il popolo – dice San Tommaso – devono risplendere per la bontà della coscienza davanti a Dio e per la buona fama presso gli uomini” . Dall’altra parte, invece, se chi tratta ed amministra le cose sante, mena una vita riprovevole, le profana e diventa sacrilego: “Quelli che non sono santi, non devono trattare le cose sante”.
Perciò già nell’Antico Testamento, Iddio comandava ai suoi sacerdoti e ai leviti: “Siano dunque santi, perché santo sono anch’io, il Signore che li santifico” (Lv 21,8). E il sapientissimo Salomone, nel cantico per la dedicazione del tempio, questo appunto chiede al Signore per i figli di Aronne: “I tuoi sacerdoti si rivestano di giustizia e i tuoi santi esultino” (Sal 132,9). Orbene, Venerabili Fratelli, “se tanta perfezione e santità e alacrità – diremo con San Roberto Bellarmino – si esigeva in quei sacerdoti, che sacrificavano pecore e buoi e lodavano Dio per benefici temporali, che cosa mai non si dovrà esigere in quei sacerdoti che sacrificano l’Agnello divino e rendono grazie per benefici eterni?” . “Grande in vero – esclama San Lorenzo Giustiniani – è la dignità dei Prelati, ma maggiore ne è il peso; posti come sono in grado così elevato davanti agli occhi degli uomini, bisogna che anche si innalzino al sommo vertice delle virtù davanti agli occhi di Colui che tutto vede; altrimenti sono sopra gli altri non a proprio merito, ma a propria condanna” .
Imitatore di Cristo
E veramente tutti i titoli da Noi accennati più sopra per dimostrare la dignità del sacerdozio cattolico, ritornano ora qui come altrettanti argomenti per dimostrare il dovere che gli incombe di una sublime santità; poiché, come insegna l’Angelico Dottore, “ad esercitare convenientemente i sacri ordini non basta una bontà qualunque, ma si richiede una bontà eccellente; siccome quelli che ricevono il sacro ordine vengono costituiti per ragione di esso sopra il popolo, così siano a lui superiori anche per la santità” . Infatti, il sacrificio eucaristico, in cui s’immola la Vittima immacolata che toglie i peccati del mondo, in modo particolare esige che il sacerdote con una vita santa ed intemerata si renda il meno indegno possibile di Dio, a cui ogni giorno offre quella Vittima adorabile, che è lo stesso Verbo di Dio incarnato per nostro amore. “Rendetevi conto di quello che fate, imitate quello che trattate”
, dice la Chiesa per bocca del Vescovo ai diaconi che stanno per essere consacrati sacerdoti. Inoltre il sacerdote è distributore della grazia di Dio, di cui i Sacramenti sono i canali; ma troppo disdirebbe a un tale distributore, se di quella grazia preziosissima egli stesso fosse privo o anche solo ne fosse in sé scarso estimatore e pigro custode. Di più egli deve insegnare la verità della fede: la verità religiosa non si insegna mai tanto degnamente e tanto efficacemente, che quando è accompagnata dalla virtù; poiché, come dice il comune effato: “Le parole commuovono, ma gli esempi trascinano”. Deve annunziare la legge evangelica; ma, per ottenere che gli altri l’abbraccino, l’argomento più accessibile e più persuasivo, con la grazia di Dio, è il vedere quella legge attuata nella vita di chi ne inculca l’osservanza. E San Gregorio Magno ne dà la ragione: “Più facilmente penetra nel cuore degli uditori quella voce che ha in suo favore la vita del predicatore, perché, mostrando con l’esempio come si debba operare, aiuta a fare quello che inculca” . Così appunto del divin Redentore dice la Sacra Scrittura che “cominciò a fare e ad insegnare” (At 1,1), e le turbe lo acclamavano, non tanto perché “nessun uomo ha mai parlato come quest’uomo” (Gv 7,46), quanto, piuttosto perché “ha fatto bene ogni cosa” (Mc 7,37). E al contrario “quelli che dicono e non fanno “si rendono simili agli Scribi e Farisei, a rimprovero dei quali lo stesso divin Redentore, pur salvando l’autorità della parola di Dio che annunziavano legittimamente, ebbe a dire al popolo che l’ascoltava: “Sulla cattedra di Mosè si sono assisi gli Scribi e i Farisei: osservate dunque e fate tutto quello che essi vi dicono; non vogliate però agire secondo le loro opere” (Mt 23,2-3). Un predicatore che non si sforzi di confermare con l’esempio della vita la verità che annunzia, distruggerebbe con una mano quello che edifica con l’altra. E invece Iddio largamente benedice le fatiche dei banditori del Vangelo, che prima di tutto attendono seriamente alla propria santificazione: essi vedono sbocciare copiosi i fiori e i frutti del loro apostolato e nel giorno delle messe “tornando andranno con gioia portando i loro covoni” (Sal 126,6).
Sarebbe un errore gravissimo e pericolosissimo se il sacerdote, trasportato da falso zelo, trascurasse la propria santificazione per tutto immergersi nelle opere esteriori, per quanto buone, del ministero sacerdotale. Con ciò, metterebbe in pericolo la propria eterna salute, come il grande Apostolo delle Genti temeva di se stesso: “Castigo il mio corpo e lo rendo schiavo, perché non avvenga che dopo aver predicato agli altri, io diventi riprovato” (1Cor 9,27); e si esporrebbe anche a perdere, se non la grazia divina, certamente quell’unzione dello Spirito Santo, che dà una mirabile forza ed efficacia all’apostolato esterno.
Del resto, se a tutti i cristiani è detto: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,48), quanto più devono i sacerdoti considerare rivolte a sé queste parole del divino Maestro, chiamati come sono con vocazione speciale a seguirlo più da vicino! Perciò la Chiesa inculca apertamente a tutti i chierici questo gravissimo dovere, inserendolo nel codice delle sue leggi: “I chierici devono condurre una vita internamente ed esternamente più santa che i laici ed essere loro di preclaro esempio nella virtù e nella rettitudine dell’operare” . E siccome il sacerdote “è ambasciatore di Cristo” (cf. 2Cor 5,20), egli deve vivere in modo da potere con verità far sue le parole dell’Apostolo: “Siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (1Cor 4,16; 11,1), deve vivere come un altro Cristo, che col fulgore delle sue virtù illuminava ed illumina il mondo.
La pietà sacerdotale
Ma se tutte le virtù cristiane devono fiorire nell’anima sacerdotale, ve ne sono però alcune che in modo tutto particolare convengono e più si addicono al sacerdote. E prima di tutte la pietà, secondo l’esortazione dell’Apostolo al suo diletto Timoteo: “Esercitati nella pietà” (1Tm 4,8). Infatti, se sono così intimi, così delicati e frequenti i rapporti del sacerdote con Dio, evidentemente essi devono essere accompagnati e come imbalsamati dal profumo della pietà; se “la pietà è utile a tutto” (1Tm 4,8), essa è utile soprattutto al retto esercizio del ministero sacerdotale. Senza la pietà, le più sante pratiche, i più augusti riti del sacro ministero saranno eseguiti meccanicamente e per abitudine; mancherà loro lo spirito, l’unzione, la vita. La pietà però, di cui parliamo, Venerabili Fratelli, non è quella falsa pietà, leggera e superficiale, che piace ma non nutre, solletica ma non santifica; Noi intendiamo la pietà soda, la quale, non soggetta alle incessanti fluttuazioni del sentimento, si fonda sui principii della dottrina più sicura, ed è quindi formata di convinzioni salde, che resistono agli assalti e alle lusinghe della tentazione. E questa pietà, se deve in primo luogo filialmente dirigersi al Padre che sta nei cieli, deve però estendersi anche alla Madre divina, e con tanto maggior tenerezza nel sacerdote che non nei semplici fedeli, quanto più vere e profonde sono le somiglianze tra i rapporti del sacerdote con Cristo e i rapporti di Maria col suo divin Figliuolo.
La castità
Intimamente congiunta con la pietà, da cui deve ricevere consistenza e splendore, è l’altra gemma fulgidissima del sacerdote cattolico, la castità, alla cui perfetta e totale osservanza i chierici della Chiesa Latina costituiti negli Ordini maggiori sono tenuti con obbligo sì grave che, trasgredendolo, sarebbero rei anche di sacrilegio .
Che se tale legge non vincola in tutto il suo rigore i chierici delle Chiese orientali, anche tra essi però il celibato ecclesiastico è in onore e, in certi casi, specialmente per i supremi gradi gerarchici, è requisito necessario ed obbligatorio.
Un certo nesso tra questa virtù e il ministero sacerdotale si scorge anche solo col lume della ragione: essendo che “Dio è spirito” (Gv 4,24), appare conveniente che chi si dedica e si consacra al servizio di lui, in qualche modo “si spogli del corpo”. Già gli antichi Romani avevano intravisto questa convenienza; una loro legge così formulata: “Agli dei accostati castamente”, viene citata dal più grande dei loro oratori, aggiungendovi questo commento: “La legge comanda di accostarsi agli dei castamente, cioè con l’anima casta, in cui sta ogni cosa; non esclude però la castità del corpo, ma questo si deve intendere così, che, essendo l’anima di molto superiore al corpo, se si deve conservare la purezza del corpo, molto più si deve custodire quella dell’anima” . Nell’Antico Testamento, ad Aronne e a’ suoi figliuoli fu comandato da Mosè in nome di Dio di non uscire dal Tabernacolo e quindi di osservare la continenza nei sette giorni in cui si compiva la loro consacrazione (cf. Lv 8,33-35).
Ma al sacerdozio cristiano, tanto superiore all’antico, conveniva una purezza molto maggiore. Infatti la legge del celibato ecclesiastico, la cui prima traccia scritta (la quale evidentemente suppone una prassi più antica) si riscontra in un canone del Concilio di Elvira all’inizio del secolo IV , quando ancora fremeva la persecuzione, non fa che dar forza di obbligazione a una certa, diremmo quasi, morale esigenza, che sgorga dal Vangelo e dalla predicazione apostolica. L’alta stima in cui il Divino Maestro mostrò di avere la castità, esaltandola come cosa superiore alla comune capacità, il saperlo “fiore di Madre Vergine” e fin dall’infanzia allevato nella famiglia verginale di Maria e Giuseppe, il vederlo prediligere le anime pure, come i due Giovanni, il Battista e l’Evangelista; l’udire il grande Apostolo Paolo, fedele interprete della legge evangelica e del pensiero di Cristo, predicare i pregi inestimabili della verginità, specialmente in ordine ad un più assiduo servizio di Dio: “Chi è senza moglie, ha sollecitudine delle cose del Signore, del compiacere a Dio” (1Cor 7,32); tutto questo doveva quasi necessariamente far sì che i sacerdoti della Nuova Alleanza sentissero il fascino celestiale di questa eletta virtù, cercassero di essere nel numero di quelli “ai quali è stato concesso di comprendere questa parola” (cf. Mt 19,11), e se ne imponessero spontaneamente l’osservanza, sancita poi ben presto da gravissima legge ecclesiastica in tutta la Chiesa Latina: affinché – come asseriva alla fine del secolo IV il Concilio Cartaginese II – “anche noi osserviamo quello che gli Apostoli hanno insegnato e la stessa antichità ha osservato” .
Né mancano testimonianze anche di illustri Padri Orientali, che esaltano l’eccellenza del celibato cattolico e che mostrano esservi stata allora, nei luoghi dove la disciplina era più severa, consonanza anche su questo punto tra la Chiesa Latina e l’Orientale. Sant’Epifanio alla fine dello stesso secolo IV attesta che il celibato già s’estendeva fino ai suddiaconi: “Colui che ancora vive nel matrimonio e attende ai figli, anche se sia marito di una sola donna, non viene tuttavia ammesso (dalla Chiesa) all’ordine di diacono, di presbitero, di vescovo o di suddiacono, ma colui soltanto che si sia separato dall’unica sua consorte o ne sia rimasto vedovo; il che si fa specialmente in quei luoghi dove i canoni ecclesiastici sono osservati con accuratezza” . Ma eloquente sopra tutti è in questa materia il Santo Diacono di Edessa e Dottore della Chiesa universale Efrem Siro, “chiamato meritatamente cetra dello Spirito Santo” . Questi, in un suo carme, rivolgendo la parola al Vescovo Abramo, suo amico: “Tu ben rispondi al nome che porti, o Abramo – gli dice – perché tu pure sei stato fatto padre di molti; ma poiché tu non hai una sposa, come Abramo ebbe Sara, ecco che la tua greggia è la tua sposa. Educa i figli di lei nella tua verità, diventino a te figli di spirito e figli della promessa affinché sieno eredi nell’Eden. O frutto splendido della castità, nel quale si è compiaciuto il sacerdozio… e il corno riboccante del sacro olio ti unse, la mano sacerdotale si è posata su di te e ti ha eletto, la Chiesa ti ha scelto e ti ha amato” . E altrove: “Non basta al sacerdote ed al nome di lui purificare l’anima e far monda la lingua e lavare le mani e rendere mondo l’intero corpo, mentre offre il vivo Corpo (di Cristo), ma in ogni tempo egli deve essere puro, perché è posto quale mediatore tra Dio ed il genere umano. Sia lode a Colui che ha in tal guisa voluto mondi i suoi ministri” . E San Giovanni Crisostomo afferma che “perciò chi esercita il sacerdozio deve essere così puro come se fosse collocato nei cieli tra quelle Podestà”
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Del resto la stessa sublimità, o per usare la frase di Sant’Epifanio, “l’incredibile onore e dignità “del sacerdozio cristiano, già brevemente da Noi esposta, dimostra la somma convenienza del celibato e della legge che lo impone ai ministri dell’altare: chi ha un officio in certo modo superiore a quello dei purissimi spiriti “che stanno al cospetto di Dio” (cf. Tb 12,15), non è forse giusto che debba vivere quanto è possibile come un puro spirito? Chi tutto deve essere “in quelle cose che sono del Signore” (Lc 2,49; 1Cor 7,32), non è giusto che sia interamente distaccato dalle cose terrene ed abbia sempre “la sua conversazione ne’ cieli”? (cf. Fil 3,20). Chi deve essere assiduamente sollecito della salute eterna delle anime e continuare verso di esse l’opera del Redentore, non è forse giusto che si tenga libero dalle preoccupazioni di una famiglia, che assorbirebbe gran parte della sua attività?
Ed è davvero spettacolo degno di commossa ammirazione quello, pur così frequente nella Chiesa Cattolica, dei giovani Leviti, che prima di ricevere il sacro Ordine del Suddiaconato, prima cioè di consacrarsi interamente al servizio e al culto di Dio, liberamente rinunziano alle gioie e alle soddisfazioni, che potrebbero onestamente concedersi in un altro genere di vita! Diciamo “liberamente”, poiché, se dopo l’ordinazione non saranno più liberi di contrarre nozze terrene, all’ordinazione stessa però accedono non costretti da veruna legge o persona, ma di propria e spontanea volontà .
Non intendiamo però, che quanto siamo venuti dicendo in commendazione del celibato ecclesiastico, sia così interpretato come se volessimo in certo modo biasimare e quasi redarguire la disciplina diversa, legittimamente ammessa nella Chiesa Orientale; ma lo diciamo unicamente per esaltare nel Signore quella verità che riteniamo una delle glorie più pure del sacerdozio cattolico e Ci pare risponda meglio ai desideri del Cuore Santissimo di Gesù e ai suoi disegni sulle anime sacerdotali.
Distacco dai beni terreni
Non meno che nella castità, il sacerdote cattolico deve essere segnalato nel disinteresse. In mezzo ad un mondo corrotto, in cui tutto si vende e tutto si compra, egli deve passare scevro di ogni egoismo, santamente sdegnoso di ogni vile cupidigia di guadagno terreno, in cerca di anime, non di danaro, della gloria di Dio, non della sua. Egli non è il mercenario che lavora per riscuotere una mercede temporale, né l’impiegato che, pur attendendo coscienziosamente agli obblighi del suo ufficio, pensa anche alla sua carriera e alla sua promozione; egli è il “buon soldato di Cristo “che “non s’impaccia dei negozi del secolo, perché possa piacere a chi lo ha arrolato” (2Tm 2,3-4); è il ministro di Dio e il padre delle anime; egli sa che l’opera sua, le sue sollecitudini non possono compensarsi adeguatamente coi tesori e con gli onori della terra. Non gli è interdetto di ricevere il conveniente sostentamento, secondo il detto dell’Apostolo: “Quelli che servono all’altare, hanno parte all’altare; così pure il Signore ordinò a quelli che annunziano il Vangelo di vivere del Vangelo” (1Cor 9,13-14); ma, “chiamato alla sorte del Signore”, come dice il suo stesso titolo di clericus, ossia “all’eredità del Signore”, nessun’altra mercede si aspetta, se non quella che Gesù prometteva ai suoi Apostoli: “La vostra mercede è copiosa nei cieli” (Mt 5,12). Guai se il sacerdote, dimentico di sì divine promesse, cominciasse a mostrarsi “avido di turpe lucro” (Tt 1,7) e si confondesse con la turba dei mondani, su cui geme la Chiesa insieme con l’Apostolo: “Tutti pensano alle cose loro, non a quelle di Gesù Cristo” (Fil 2,21). In tal caso, oltre il mancare alla sua vocazione, raccoglierebbe il disprezzo del suo stesso popolo, il quale riscontrerebbe in lui una deplorevole contraddizione tra la sua condotta e la dottrina evangelica così chiaramente espressa da Gesù e che il sacerdote deve annunziare: “Non cercate di accumulare tesori sopra la terra, dove la ruggine e il tarlo li consumano e dove i ladri li dissotterrano e li rubano; procurate invece di accumulare tesori nel cielo” (Mt 6,19-20). Se si pensa che uno degli Apostoli di Cristo, uno dei Dodici, come mestamente notano gli Evangelisti, Giuda, fu condotto all’abisso dell’iniquità appunto dallo spirito di cupidigia delle cose terrene, ben si comprende come questo medesimo spirito abbia potuto arrecare tanti danni alla Chiesa attraverso i secoli: la cupidigia, che dallo Spirito Santo è detta “radice di tutti i mali” (1Tm 6,10), può trascinare a qualunque delitto; e quando anche non arrivi a tanto, di fatto un sacerdote infetto da tale vizio, consciamente o inconsciamente fa causa comune coi nemici di Dio e della Chiesa e coopera ai loro iniqui disegni.
E invece il sincero disinteresse concilia al sacerdote gli animi di tutti, tanto più che con questo distacco dai beni terreni, quando viene dall’intima forza della fede, va sempre congiunta quella tenera compassione verso ogni sorta d’infelici, che trasforma il sacerdote in un vero padre dei poveri, nei quali egli, memore di quelle commoventi parole del suo Signore: “Ogni volta che avete fatto qualche cosa per uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatta a me” (Mt 25,40), con affetto singolare vede, venera e ama Gesù Cristo stesso.
Lo zelo
Libero così il sacerdote cattolico dai due principali legami che lo potrebbero tenere troppo avvinto alla terra, i legami di una propria famiglia e i legami del proprio interesse, sarà più atto ad essere infiammato da quel celeste fuoco che erompe dai penetrali del Cuor di Gesù e non cerca che di apprendersi a cuori apostolici per incendiare tutta la terra: il fuoco dello zelo (cf. Lc 12,49). Questo zelo per la gloria di Dio e la salute delle anime deve, come si legge di Gesù nella Sacra Scrittura (cf. Sal 69,10; Gv 2,17), divorare il sacerdote, fargli dimenticare se stesso e tutte le cose terrene e spingerlo potentemente a consacrarsi tutto alla sua sublime missione, cercando mezzi sempre più efficaci per compierla sempre più largamente e sempre meglio.
E come può un sacerdote meditare il Vangelo, udire il lamento del buon Pastore: “Ed ho altre pecorelle, che non sono di questo ovile, e anche quelle bisogna che io conduca” (Gv 10,16), vedere “i campi che già biondeggiano per la messe” (Gv 4,35), e non sentirsi accendere in cuore la brama di condurre tali anime al cuore del buon Pastore, non offrirsi al Padrone della messe come operaio indefesso? Come può un sacerdote vedere tante povere turbe, non solo nelle lontane regioni delle Missioni ma purtroppo anche nei paesi già cristiani da secoli, “giacenti come pecore senza pastore” (Mt 9,36), e non sentire in sé l’eco profonda di quella divina commiserazione che tante volte commosse il Cuore del Figlio di Dio? (cf. Mt 9,36; 14,14; 15,32; Mc 6,34; 8,2). Un sacerdote, diciamo che sa di possedere la parola di vita e di avere nelle sue mani i mezzi divini di rigenerazione e di salute? Ma sia lode a Dio, che appunto questa fiamma di zelo apostolico è uno dei più luminosi raggi che brillano in fronte al sacerdozio cattolico, e Noi con cuore ripieno di paterna consolazione vediamo i Nostri Fratelli e i diletti Figli Nostri, i Vescovi e i sacerdoti, come scelta milizia sempre pronti a correre, all’appello del Capo, su tutte le fronti dell’immenso campo, dove si combattono le pacifiche ma pur aspre battaglie della verità contro l’errore, della luce contro le tenebre, del Regno di Dio contro il regno di Satana.
L’obbedienza
Ma da questa stessa condizione del sacerdozio cattolico come di milizia agile e valorosa, ne viene la necessità di uno spirito di disciplina, o diciamo con parola più profondamente cristiana, la necessità dell’obbedienza: di quella obbedienza, che bellamente lega tutti i vari gradi della Gerarchia ecclesiastica, “sicché – come dice il Vescovo nell’ammonire gli ordinandi – la Chiesa santa ne resta circondata, ornata e retta da una varietà certamente magnifica, mentre in essa altri vengono consacrati Pontefici, altri sacerdoti di grado inferiore… formandosi di molti membri di varia dignità un solo corpo di Cristo” . Quest’obbedienza i sacerdoti promisero al loro Vescovo nell’atto di partire da lui ancora freschi della sacra unzione; quest’obbedienza a loro volta i Vescovi giurarono nel giorno della loro consacrazione al supremo Capo visibile della Chiesa, al Successore di San Pietro, al Vicario di Gesù Cristo. L’obbedienza adunque leghi sempre più queste varie membra della sacra Gerarchia tra loro e tutte al Capo, rendendo così la Chiesa militante davvero terribile ai nemici di Dio “come esercito schierato” (Ct 6,3.9); l’obbedienza temperi lo zelo forse troppo ardente degli uni, e sproni la debolezza o la fiacchezza degli altri; assegni a ciascuno il suo posto e le sue mansioni, e ciascuno vi si collochi senza resistenze che non farebbero che intralciare l’opera magnifica che svolge la Chiesa nel mondo; ciascuno veda nelle disposizioni dei Superiori gerarchici le disposizioni del vero ed unico Capo, a cui tutti obbediamo, Gesù Cristo Signor Nostro, il quale si è fatto per noi “obbediente fino alla morte, e alla morte di croce” (cf. Fil 2,8).
Difatti il divino Sommo Sacerdote volle che in modo tutto singolare ci fosse manifesta la sua perfettissima obbedienza all’Eterno Padre; e perciò abbondano le testimonianze, sia profetiche sia evangeliche, di questa totale e perfetta soggezione del Figlio di Dio alla volontà del Padre: “Entrando nel mondo dice: Tu non hai voluto sacrifizio né offerta, ma mi hai preparato un corpo… Allora dissi: Ecco io vengo (poiché di me sta scritto in principio del libro) per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10,5-7). “Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato” (Gv 4,34). Ed anche sulla croce, non volle consegnare l’anima sua nelle mani del Padre prima di avere dichiarato che tutto era compiuto quanto le Sacre Scritture avevano di lui predetto, cioè tutta la missione affidatagli dal Padre, fino a quell’ultimo così profondamente misterioso “Sitio”, ch’egli pronunciò “affinché si adempisse la Scrittura” (Gv 19,28); volendo con ciò dimostrare come anche lo zelo più ardente debba sempre essere pienamente sottomesso alla volontà del Padre, cioè sempre regolato dall’obbedienza a chi per noi tiene le veci del Padre e ci trasmette i suoi voleri, ossia ai legittimi Superiori gerarchici.
La scienza
Ma la figura del sacerdote cattolico, che Noi intendiamo mettere in piena luce al cospetto di tutto il mondo, sarebbe incompleta se omettessimo di rilevare un altro importantissimo requisito, che la Chiesa esige in lui: la scienza. Il sacerdote cattolico è costituito “maestro in Israele” (Gv 3,10) avendo ricevuto da Gesù l’ufficio e la missione di insegnare la verità: “Ammaestrate tutte le genti” (Mt 28,19). Egli deve insegnare la dottrina della salute, e di quest’insegnamento, a somiglianza dell’Apostolo delle Genti, è debitore “ai sapienti e agli ignoranti” (Rm 1,14). Ma come la potrà insegnare, se non la possiede? “Le labbra del sacerdote devono custodire la scienza e dalla sua bocca ricercheranno la legge” (Ml 2,7), dice lo Spirito Santo in Malachia; e nessuno potrebbe mai dire in commendazione della scienza sacerdotale una parola più grave di quella che un giorno la Sapienza stessa divina ha pronunziato per bocca di Osea: “Perché tu hai rigettato la scienza, rigetterò io te dal ministero di mio sacerdote” (Os 4,6). Il sacerdote deve pienamente possedere la dottrina della fede e della morale cattolica, deve saperla proporre, deve saper render ragione dei dogmi, delle leggi, del culto della Chiesa, di cui è ministro; deve dissipare l’ignoranza; la quale, non ostante i progressi della scienza profana, ottenebra in fatto di religione le menti di tanti contemporanei. Non è stato mai tanto opportuno come oggi il monito di Tertulliano: “Questo solo spesso desidera la verità, di non essere cioè condannata senza essere conosciuta” . È dovere del sacerdote sgombrare dagli intelletti i pregiudizi e gli errori, accumulativi dall’odio degli avversari: all’anima moderna, che ansiosa cerca la verità, egli deve saperla indicare con serena franchezza; alle anime ancor incerte, travagliate dal dubbio, egli deve ispirare coraggio e fiducia e guidarle con tranquilla sicurezza al porto sicuro della fede coscientemente e fortemente abbracciata; agli assalti dell’errore protervo ed ostinato egli deve sapere opporre una resistenza strenua e vigorosa ma calma insieme e solida.
È quindi necessario, Venerabili Fratelli, che il sacerdote, anche in mezzo alle occupazioni assillanti del suo santo ministero e sempre in ordine a quello continui lo studio serio e profondo delle discipline teologiche, aggiungendo al corredo sufficiente di scienza portato seco dal Seminario una sempre più ricca erudizione sacra, che lo renda sempre più idoneo alla sacra predicazione e alla guida delle anime . Inoltre, per il decoro dell’ufficio che esercita e per guadagnarsi come conviene la fiducia e la stima del popolo, che tanto giovano a rendere più efficace la sua opera pastorale, il sacerdote deve essere fornito di quel patrimonio di dottrina anche non strettamente sacra, che è comune agli uomini colti del suo tempo; deve cioè essere sanamente moderno, com’è la Chiesa, che abbraccia tutti i tempi e tutti i luoghi e a tutti si adatta, tutte le sane iniziative benedice e promuove e non ha paura dei progressi anche più arditi della scienza, purché sia vera. In tutti i tempi il clero cattolico si distinse in ogni campo dello scibile umano; in alcuni secoli anzi si spinse talmente all’avanguardia del sapere che chierico divenne sinonimo di dotto. E la Chiesa, dopo aver custodito e salvato i tesori della cultura antica, che senza di essa e de’ suoi monasteri sarebbero andati quasi interamente perduti, ha dimostrato ne’ suoi più illustri Dottori come tutte le umane cognizioni possano servire ad illustrare e difendere la fede cattolica; del che abbiamo Noi stessi recentemente additato al mondo un esempio luminoso cingendo del nimbo dei Santi e dell’aureola dei Dottori, quel grande Maestro del sommo Aquinate, quell’Alberto Teutonico, che già i suoi contemporanei onoravano del nome di Magno e di Dottore universale.
Ora certamente non si può pretendere che il clero possa avere un simile primato in ogni campo del sapere: il patrimonio scientifico dell’umanità è ormai così vasto, che nessun uomo può abbracciarlo interamente né, molto meno, rendersi insigne in ciascuno de’ suoi innumerevoli rami. Ma, mentre si devono prudentemente incoraggiare e aiutare quei membri del clero che per inclinazione e doti speciali si sentono chiamati ad approfondire e coltivare questa o quella scienza, questa o quell’arte, che non disdica alla loro professione ecclesiastica, perché tutto questo, se si contiene entro i dovuti confini e sotto la direzione della Chiesa, ridonda a decoro della Chiesa stessa e a gloria del divino suo Capo Gesù Cristo; anche tutti gli altri chierici non si devono contentare di quello che forse poteva bastare in altri tempi, ma devono essere in grado di avere, anzi devono avere di fatto, una cultura moderna in confronto dei secoli passati.
Che se talvolta il Signore, “scherzando sulla terra” (Pr 8,31), volle anche in tempi recenti assumere alla dignità sacerdotale ed operare meraviglie di bene per mezzo di uomini sforniti quasi interamente di questo patrimonio di dottrina, di cui parliamo, ciò fu perché tutti impariamo a pregiare, tra le due, più la santità che la scienza, e a non riporre più fiducia nei mezzi umani che nei divini; in altre parole, ciò fu perché il mondo ha bisogno di sentirsi ripetere di tanto in tanto questa salutare lezione pratica: “Le cose stolte del mondo ha scelto Dio, per confondere i sapienti… affinché nessun uomo si dia vanto al cospetto di Lui” (1Cor 1,27.29). Ma, come nell’ordine naturale i miracoli divini sospendono per un momento l’effetto delle leggi fisiche senza abrogarle, così questi uomini, veri miracoli viventi, nei quali la santità eccelsa suppliva a tutto il resto, non tolgono punto la verità e necessità di quanto siamo venuti inculcando.
Questa necessità poi di virtù e di scienza, questa esigenza di esemplarità e di edificazione, di questo “buon odore di Cristo” (cf. 2Cor 2,15), che il sacerdote deve spargere dappertutto intorno a sé presso quanti l’avvicinano, è oggi tanto maggiormente sentita e resa tanto più evidente e stringente, in quanto che l’Azione Cattolica, questo movimento sì consolante che sa spingere le anime anche verso i più sublimi ideali di perfezione, mette i laici a più frequente contatto e a più intima collaborazione col sacerdote, al quale naturalmente essi non solo si rivolgono come a guida, ma mirano anche come ad esemplare di vita cristiana e di virtù apostoliche.
III. LA PREPARAZIONE
Il Seminario
Se così alta è la dignità del sacerdozio e così eccelse le doti che richiede, ne segue, Venerabili Fratelli, l’imprescindibile necessità di dare ai candidati del santuario una formazione proporzionata. La Chiesa, conscia di questa necessità, per nessun’altra cosa forse, lungo i secoli, ha mostrato tanto tenera sollecitudine e materna premura come per la formazione de’ suoi sacerdoti. Essa non ignora che, se le condizioni religiose e morali dei popoli dipendono in gran parte dal sacerdozio, l’avvenire stesso del sacerdote dipende dalla formazione ch’egli avrà ricevuto, essendo anche per lui verissimo il detto dello Spirito Santo: “Il giovinetto secondo la via che ha presa, anche quando sarà invecchiato non se ne scosterà” (Pr 22,6). Perciò la Chiesa, mossa dallo Spirito Santo, ha voluto che dappertutto si erigessero Seminari dove si allevino e si educhino con singolare cura i candidati al sacerdozio.
La cura dei Seminari
Il Seminario dunque è e deve essere la pupilla degli occhi vostri, o Venerabili Fratelli, quanti dividete con Noi il formidabile peso del governo della Chiesa, è e deve essere l’oggetto precipuo delle vostre sollecitudini. Accurata soprattutto deve essere la scelta dei Superiori, dei Maestri e in modo particolare del Direttore spirituale, che ha una parte sì delicata e sì importante nella formazione dell’anima sacerdotale. Date ai vostri Seminari i migliori sacerdoti, né temiate di sottrarli anche a cariche apparentemente più rilevanti, ma che in realtà non possono venire a confronto con quest’opera capitale e insurrogabile; cercateli anche altrove, dovunque ne troviate di veramente atti a sì nobile scopo; siano tali che insegnino, prima con l’esempio che con la parola, le virtù sacerdotali e sappiano infondere con la dottrina uno spirito sodo, virile, apostolico; facciano fiorire nel Seminario la pietà, la purezza, la disciplina, lo studio, premunendo prudentemente gli animi giovanili, non solo contro le tentazioni presenti, ma anche contro i pericoli ben più gravi a cui si troveranno poi esposti nel mondo, in mezzo al quale dovranno vivere “per far tutti salvi” (cf. 1Cor 9,22).
E affinché i futuri sacerdoti possano avere quella scienza che i nostri tempi esigono, come sopra abbiamo esposto, è di somma importanza che, dopo una soda formazione negli studi classici, siano bene istituiti ed esercitati nella filosofia scolastica “secondo il metodo, la dottrina e i principii del Dottore Angelico” . Questa “philosophia perennis”, come la chiamava il Nostro grande Predecessore Leone XIII, non solo è loro necessaria per approfondire il dogma, ma li premunisce efficacemente contro gli errori moderni, quali che essi siano, rendendo la loro mente atta a distinguere nettamente il vero dal falso, e in ogni questione di qualunque genere o in altri studi che dovranno fare, darà loro una chiarezza di vista intellettuale che supererà di molto quella di altri, privi di questa formazione filosofica, anche se dotati d’una più vasta erudizione.
Che se, come avviene specialmente in alcune regioni, la poca estensione delle Diocesi o la dolorosa scarsità degli alunni o la mancanza di mezzi e di uomini adatti non permettesse a ciascuna Diocesi di avere un proprio Seminario ben ordinato secondo tutte le leggi contenute nel Codice di Diritto Canonico e secondo le altre prescrizioni ecclesiastiche, sommamente conviene che i Vescovi della regione fraternamente si aiutino ed uniscano le loro forze concentrandole in un Seminario comune, che risponda interamente all’alto suo scopo. I grandi vantaggi di tale concentrazione compensano largamente i sacrifici sostenuti per conseguirli; anche il sacrificio, talvolta doloroso al cuore paterno del Vescovo, di vedere temporaneamente allontanati i suoi chierici dal Pastore, che vorrebbe trasfondere egli stesso il suo spirito apostolico nei suoi futuri collaboratori, e dal territorio che dovrà essere il campo del loro ministero, sarà poi ripagato dal riceverli meglio formati e più forniti di quello spirituale patrimonio che profonderanno in maggior copia e con maggior frutto a beneficio della loro Diocesi. E perciò Noi non abbiamo mai tralasciato di incoraggiare e promuovere e favorire tali iniziative, spesso anzi le abbiamo suggerite e raccomandate; dal canto Nostro poi, dove l’abbiamo creduto necessario, abbiamo Noi stessi eretto o migliorato o ampliato parecchi di tali Seminari Regionali, come a tutti è noto, non senza grandi spese e gravi cure, e continueremo, con l’aiuto di Dio, ad adoperarci con tutto lo zelo anche per l’avvenire per un’opera che riputiamo tra le più giovevoli al bene della Chiesa.
La scelta dei candidati
Ma tutto questo magnifico sforzo per l’educazione degli alunni del santuario poco gioverebbe se non fosse accurata la scelta dei candidati stessi, per i quali sono eretti e amministrati i Seminari. A tale scelta tutti devono concorrere, quanti sono preposti alla formazione del clero: i Superiori, i Direttori spirituali, i Confessori, ciascuno nel modo e nei limiti propri del suo ufficio, come devono con ogni impegno coltivare la vocazione divina e corroborarla, così con non minore zelo devono distogliere ed allontanare per tempo da una via, che non è la loro, quei giovani che si scorgono sprovvisti della necessaria idoneità e si prevedono quindi non atti a sostenere degnamente e decorosamente il ministero sacerdotale. E quantunque sia molto meglio che questa eliminazione si faccia fin dal principio, perché in queste cose l’attendere ed aspettare è insieme un grave errore e un grave danno, tuttavia qualunque sia stata la causa del ritardo, si deve correggere l’errore quando lo si avverte, senza umani riguardi, senza quella falsa misericordia che diventerebbe una vera crudeltà, non solo verso la Chiesa, a cui si darebbe un ministro o inetto o indegno, ma anche verso il giovane stesso che, sospinto così sopra una falsa via, si troverebbe esposto ad essere pietra d’inciampo a sé e agli altri, con pericolo di eterna rovina.
Né sarà difficile all’occhio vigile ed esperto di chi presiede al Seminario, di chi segue e studia amorosamente ad uno ad uno i giovani a sé affidati e le loro inclinazioni, non sarà difficile, diciamo, accertarsi se uno abbia o no una vera vocazione sacerdotale. Questa, come ben sapete, Venerabili Fratelli, più che in un sentimento del cuore o in una sensibile attrattiva, che talvolta può mancare o venir meno, si rivela nella retta intenzione di chi aspira al sacerdozio, unita a quel complesso di doti fisiche, intellettuali e morali che lo rendono idoneo per tale stato. Chi tende al sacerdozio unicamente per il nobile motivo di consacrarsi al servizio di Dio e alla salute delle anime, e insieme ha o almeno seriamente attende ad acquistare una soda pietà, una purezza di vita a tutta prova, una scienza sufficiente nel senso da Noi sopra esposto, questi mostra di essere chiamato da Dio allo stato sacerdotale. Chi invece, spintovi forse da malconsigliati genitori, volesse abbracciare questo stato per la prospettiva di vantaggi temporali e terreni, intraveduti e sperati nel sacerdozio, come avveniva più frequentemente in passato; chi è abitualmente refrattario alla soggezione e alla disciplina, poco inclinato alla pietà, poco amante del lavoro e poco zelante delle anime; chi specialmente è proclive alla sensualità e con diuturna esperienza non ha provato di saperla vincere; chi non ha attitudine allo studio, in modo che si preveda non poter seguire con sufficiente soddisfazione i corsi prescritti; tutti costoro non sono fatti per il sacerdozio, e il lasciarli progredire, fin quasi alla soglia del santuario, rende loro sempre più difficile il ritrarsene, e forse li spingerà a varcarla, per umano rispetto, senza vocazione e senza spirito sacerdotale. Pensino i Superiori dei Seminari, pensino i Direttori spirituali e Confessori, quale gravissima responsabilità si assumono davanti a Dio, davanti alla Chiesa, davanti ai giovani stessi, se dal canto loro non fanno il possibile per impedire un passo sbagliato. Diciamo che anche i Confessori e Direttori spirituali potrebbero essere responsabili di un sì grave errore, non