di ANTONIO LIVI. ARISTOTELE (III). L’antropologia, l’etica e la politica. L’etica aristotelica è intellettualistica, ma non come quella platonica. I valori etici di Aristotele prescindono dalla questione dell’immortalità personale. La virtù. L’uomo virtuoso è identificato con il buon cittadino. Prudenza ed equità, principali virtù di chi governa. Aristotele e il senso comune. La filosofia aristotelica coincide quasi totalmente con le certezze del senso comune. Rilievo storico dell’aristotelismo
di Antonio Livi,
tratto da:
“Dal senso comune alla dialettica. Una storia della filosofia”
Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2004-2005
CAPITOLO TERZO
ARISTOTELE
Parte 3
5. L’antropologia, l’etica e la politica.
L’uomo, secondo Aristotele, trova la sua felicità nel raggiungimento del fine ultimo, che è la sua perfezione morale, con la contemplazione che ne deriva. Ma già prima di questa perfezione finale l’uomo trova il piacere nell’esercizio di ogni sua facoltà, quando essa sia ordinata a ciò che è giusto, ossia “secondo natura”. Per Aristotele, infatti, il piacere è «l’atto di un abito che si esercita secondo natura» (cfr ). Come per Dio – l’abbiamo visto prima – «l’atto del suo vivere è piacere, anche per noi uomini la veglia, l’esperienza sensibile e la conoscenza intellettuale sono piacevoli in sommo grado, proprio perché sono atto; lo stesso succede con le speranze e i ricordi» (Metafisica, XII, 7, 1972b 10-30).
Prima ancora che Epicuro facesse del piacere il valore fondamentale della sua concezione della vita (vedi più avanti, cap. V, 5), già Aristotele aveva identificato il piacere con la vita stessa, quando è vissuta secondo natura e in pienezza: «Il piacere – egli dice – perfeziona tutte le attività, e quindi anche quell’attivita che tutti intensamente desiderano: la vita. E’naturale, pertanto, che tutti tendano anche al piacere: esso infatti dà a ciascuno la perfecsione del suo vivere ossia il raggiungimento di ciò che si desidera. […] la vita e il piacere si presentano strettamente uniti e non ammettono separazione; infatti, senza attività non si genera il piacere, e il piacere a sua volta perfeziona ogni attività» (Etica Nicomachea, X,4, 1174a 13-22).
Per comprendere questa dottrina bisogna sapere che Aristotele distingue nei movimenti vitali due specie: quei movimenti che sono strumentali a un fine estrinseco, e quelli che hanno invece il loro fine in sé stessi, ossia come qualcosa di immanente: «Delle azioni che hanno un termine nessuna è di per sé un fine, perché tutte tendono al raggiungimento del fine; […] dunque, non sono propriamente azioni, o almeno non sono azioni perfette, perché appunto non sono dei fini. Invece, il movimento nel quale è contenuto anche il fine è davvero azione. […] Di questi processi, i primi bisognerà denominarli “movimenti”, mentre i secondi vanno denominati “attività”» (Metafisica, IX, 6, 1048b 20-33). Ora, di queste attività la più importante è la conoscenza, il cui vertice è rappresentato dalla “………………..(theorìa [ = contemplazione])”. Della contemplazione – che è in Dio eterna beatitudine – Aristotele dice che essa è il fine dell’uomo e la ragione della sua felicità già in questa vita, nei momenti nei quali egli può dedicarsi alla conoscenza della verità: «Di questa sola attività – scrive – si può dire che è amata per sé stessa, giacché da essa non deriva nulla che non sia il semplice contemplare, mentre dalle attività pratiche noi ricaviamo un vantaggio più o meno grande al di là dell’azione stessa. E’ per questo motivo che si ritiene che la felicità consista nell’avere il tempo libero dalle attività pratiche» (Etica a Nicomaco, X, 7, 1177b 1-5).
[L’etica aristotelica è intellettualistica, ma non come quella platonica]
Date queste premesse – con l’identificazione della felicità con la contemplazione della verità – bisogna riconoscere che l’etica aristotelica è fondamentalmente simile a quella socratico-platonica; anche Aristotele, infatti, fa coincidere la perfezione dell’agire umano con la rettitudine del giudizio intellettuale, e quindi con la conoscenza del vero Bene. Questa caratteristica dell’etica greca, che potremmo chiamare “intellettualismo”, in Aristotrele si trova unita però a un’altra caratteristica che segna una profonda differenza con il discorso socratico-platonico. Infatti, come osserva Giovanni Reale, «Socrate aveva ridotto le virtù a scienza e a conoscenza e aveva negato che l’uomo potesse volere e fare volontariamente il male .Platone aveva in larga parte condiviso questa concezione, e, per cuanto avesse individuato nell’animo umano forze irrazionali, ossia l’anima concupiscibile e l’anima irascibile capaci di opporsi all’anima razionale, aveva pur sempre creduto che la virtù umana consistesse nel dominio della ragione ad opera della forza della ragione stessa, sicché anche per lui la virtù restava, in ultima analisi, ragione. Aristotele tenta di superare questa interpretazione “intellettualistica” del fatto morale. Da buon realista qual era, egli si era ben accorto che altro è conoscere il bene, e altro è attuarlo e realizzarlo e farlo, per così dire, sostanza delle proprie azioni, e aveva cercato di determinare più da vicino quali fossero i complessi processi psichici che l’atto morale presuppone» (2).
Inoltre, mentre Socrate si sente guidato da uno spirito e nutre una speranza di una giustizia ultraterrena, e Platone dal canto sua proietta tutta la sua dottrina morale sulla contemplazione del Bene dopo la morte, Aristotele mette decisamente da parte il problema della “immortalità dell’anima” (ossia della permanenza dell’io personale dopo la morte corporale) e costruisce un meraviglioso edificio etico-politico che sembra contemplare esclusivamente la vita terrena degli uomini e le vicende della polis nella storia di questo mondo. Non che Aristotele neghi espressamente un futuro personale dell’uomo singolo dopo la morte, ma il fatto di non risolvere, anzi nemmeno affrontare sistematicamente il problema lascia la possibilità di interpretare la sua etica come la morale di un materialista che non vede altro orizzonte che quello della vita terrena; e in effetti questa interpretazione di Aristotele, iniziata già nell’antichità e presente poi nel Medioevo arabo e cristiano (vedi più avanti, cap. IX) e nel Rinascimento (vedi vol. II, capitoli I e II), ha alienato ad Aristotele le simpatie di molte generazioni di uomini religiosi, soprattutto cristiani, che si volgevano per questo preferibilmente all’etica platonica, così chiaramente spiritualistica e proiettata verso la vita eterna.
[I valori etici di Aristotele prescindono dalla questione dell’immortalità personale]
In realtà, l’etica aristotelica è perfettamente compatibile anche con un quadro generale di riferimento che tenga conto dell’immortalità dell’anima, di Dio e della vita eterna: ciò consentirà, tra l’altro, l’adozione delle categorie etiche aristoteliche da parte di san Tommaso d’Aquino (vedi più avanti, cap. X).
La virtù
Il concetto fondamentale dell’etica di Aristotele è quello di “virtù”. Tale termine, che in italiano ha una radice latina che denota fortezza, virilità (virtus, da vir = uomo), nell’originale greco è ………….. [areté] e denota, più che fortezza, rettitudine o giustizia; la virtù è infatti per Aristotele qualche cosa di retto e giusto dal punto di vista della verità, e in questo senso le virtù morali sono inquadrate da Aristotele nell’àmbito più vasto delle virtù in generale come buona disposizione operativa dell’anima. Aristotele suddivide tali buone disposizioni operative in “virtù teoretiche” e in “virtù etiche”: le prime dispongono l’anima a eseguire rettamente le funzioni intellettive miranti alla conoscenza della verità in sé stessa; le altre dispongono invece l’anima a eseguire rettamente le funzioni intellettive miranti all’azione; l’azione, a sua volta, può essere l’agire umano che rende migliore il soggetto stesso – e qui abbiamo le virtù morali propriamente dette – oppure l’agire umano che produce oggetti o modifica la natura circostante (è il caso delle virtù relative all’arte e alla tecnica). Le virtù morali sono dunque degli “abiti” o “disposizioni stabili” dell’anima: e, se intendiamo l’anima – nel senso aristotelico – come “sostanza”, questi “abiti” o “disposizioni stabili” sono da intendersi come “accidenti” della categoria “qualità”. E, proprio per essere delle qualità, le virtù qualificano l’uomo che le possiede, rendendolo buono: è buono l’uomo dotato di virtù, l’uomo virtuoso. Ciò significa che la bontà dell’uomo non è da valutarsi esclusivamente né principalmente sulla base delle sue azioni esteriori o dei risultati del suo agire: è da valutarsi invece sulla base di quello che ciascuno è in sé stesso, indipendentemente dalla manifestazione o attuazione delle sue capacità. Questo aspetto dell’etica aristotelica può essere chiamato “personalismo” o “interiorità”, e per questo Aristotele ha potuto, nei secoli, attirare sulla sua etica le simpatie di quegli uomini che non amavano ridurre la morale al comportamento esteriore e ai risultati pratici (tendenza che si riscontra nell’utilitarismo e nel pragmatismo: si veda il volume III, cap. XIII).
[L’uomo virtuoso è identificato con il buon cittadino]
L’etica aristotelica, mancando – come già abbiamo detto – di una chiara dimensione religiosa e trascendente, tende a dare un valore assoluto alla vita sociale, al contributo che ciascuno può offrire alla realizzazione di una vita comune ispirata ai princìpi della giustizia. Come tante volte è avvenuto nel corso dei secoli, quando il destino ultraterreno ed eterno della persona umana non è accettato o decisamente riconosciuto, l’etica individuale tende a fondersi con l’etica sociale, e il fine ultimo dell’uomo viene a essere la sua perfetta sintonia con le esigenze della vita pubblica, con ciò che modernamente (dopo l’avvento della filosofia cristiana) si suole denominare con il “bene comune” (ma per i cristiani il bene comune temporale non è l’ultimo fine: l’ultimo fine è l’unione con Dio nella vita eterna).
Come Platone, anche Aristotele vede nell’uomo intellettualmente evoluto e sapiente il naturale candidato al governo della società civile (cfr cap. III, 3); ma in Aristotele manca del tutto l’aspetto utopistico che abbiamo rilevato in Platone, così come mancano quelle categorie politiche di tipo aristocratico che ai nostri giorni si possono chiamare “maschilismo”, “classismo” e “razzismo”. Aristotele fa coincidere l’ideale aristotelico con la massima apertura “democratica” che i suoi tempi gli consentivano, mettendo come unica condizione per l’esercizio del potere politico l’effettiva qualità dell’anima, ossia la “virtù”.
[Prudenza ed equità, principali virtù di chi governa]
Tra le virtù che rendono atto l’uomo a governare la polis, Aristotele annovera una principale, la ………………… [phrónesis = prudenza], che già Platone aveva incluso tra le quattro virtù fondamentali, e un’altra secondaria …………………. [epieikeia = equità]. L’equità è per Aristotele l’esercizio del potere politico rispondente alle ragioni della situazione concreta in rapporto alla razionalità universale della legge; in altri termini, l’equità è la virtù che consente di capire il da farsi, non solo conoscendo le norme generali e astratte, ma tenendo presente la situazione di fatto, la contingenza storica, la complessità del reale. Nella tradizione greca si conosceva il motto di Pittaco, uno dei sette Savi: …………………………….. (Kairón gnothi [ = riconosci il momento giusto]); applicando questa norma sapienziale, Aristotele enuncia un principio di virtù politica veramente fondamentale: Essere equi significa essere indulgenti nei confronti delle vicende degli uomini; ossia, badare non alla legge ma al legislatore; non alla lettera della legge ma allo spirito del legislatore; non all’azione esteriore ma all’intenzione di chi ha agito; non alla parte solamente ma al tutto; non a come è in questo momento l’uomo accusato di reato ma come egli è stato in passato, o sempre o almeno quasi sempre (Retorica, I, 137 4 b). E che questo aspetto politico dell’equità sia strettamente connesso con l’aspetto privato della medesima virtù lo dimostrano le parole con cui Aristotele conclude questo passo: [Essere equi significa] anche ricordare più il bene che si è fatto; e infine significa anche saper sopportare qualche ingiustizia (Ibidem). Nell’Etica Nicomachea Aristotele insiste molto sul fatto che l’equità non è “politica” nel senso deteriore del termine (ossia debolezza o furbizia o incoerenza che porta a compromessi di ogni genere) ma vera e propria virtù (cfr Etica Nicomachea, V 11 37 a – 11 38 a; VI 11 43 a-b). Ha scritto in proposito un filosofo italiano del diritto: «Nell’equità non c’è rinvio a decisioni, irrazionali o di parte, ma a una specifica forma di giudizio, né sillogistico, né entinematico, né teoretico, né topico, ma pratico, fondato cioè sulla prudenza, e più esattamente su quel particolare atteggiarsi che Aristotele ha chiamato gnome [Etica Nicomachea, VI, 11 43 a-b], che non sarebbe eccessivo definire “prudenza giuridica”: […] Un naturale senso di ordine nei rapporti umani, che impedisce ogni divinizzazione del fatto, responsabilizzando l’uomo a dominarlo nel giusto momento e nella consapevolezza del significato morale (nel senso più alto della parola) della sua azione» (3: Sergio Cotta?). E un grande filosofo tedesco, caposcuola della filosofia ermeneutica, ha detto a sua volta: «Aristotele mostra che ogni legge implica una inevitabile disparità rispetto alla concretezza dell’agire, in quanto ha un carattere universale e non può contenere in sé la realtà di fatto in tutta la sua concretezza. […] La legge è sempre manchevole, non perché sia imperfetta in sé stessa, ma perché di fronte all’ordine che la legge propone la realtà umana risulta sempre inadeguata, per cui sarebbe ingiusta una pura e semplice applicazione della legge» (4). Questi commenti del filosofo italiano e di quello tedesco aiutano a comprendere il realismo dell’etica aristotelica e la sua profonda differenza rispetto a qualunque utopia giuridica e politica, a cominciare proprio dall’utopia platonica. Aristotele è convinto che la det erminazione del bene prqatico non può derivare da una elucubrazione toerica indipendente dall’esperienza sociale e storia; il suo metodo prevede che ogni ricerca etico-politica inizi con un esame dele opinioni presenti nella disucussione del momento: così sarà possibile scegliere tra queste le opinioni più accettabili e fondate, anche in base all’esperienza (endoxa). Sembra che questo realismo etico sia intrinsecamente legato al tipo di metodologia scientifica adottata dai pensatori che si occupano dell’etica: mentre Platone privilegia la metodologia astratta della matematica (cfr par. 2), Aristotele privilegia la metodologia fisico-naturale, dicendo espressamente che essa è più idonea dell’altra a comprendere le norme dell’agire umano: il discorso morale riguarda oggetti che si possono paragonare più al punto fisico che al punto matematico (Etica Nicomachea, VI, 11 42 a). Vedremo in seguito, soprattutto nell’epoca moderna, che l’approccio matematizzante e razionalistico ai problemi dell’etica e della politica ha generato sempre nuove forme di utopia: basti citare, tra tutti, Baruch Spinoza con la sua Ethica more geometrico demonstrata; al contrario, dove è sempre prevalsa la metodologia empirico-fattuale, non solo si è evitata l’utopia sociale e politica ma Aristotele è stato esplicitamente richiamato come insuperabile maestro dell’etica: basti pensare a Charles Taylor e ad Alasdair MacIntyre .
[Critica di Aristotele all’utopia platonica]
In base ai criteri ceh abbiamo rilevato, Aristotele non esita a criticare esplicitamente la concezione politica di Platone, quale risulta dal dialogo intitolato La repubblica; scrive infatti Aristotele: «Platone pensa che la cosa migliore sia che ogni Stato sia il più unitario possibile. […] Ma è evidente che se lo Stato progredisce in questo senso ed è sempre più unitario, cesserà di essere uno Stato: lo Stato è per sua natura qualcosa di molteplice, e diventando unitario non è più uno Stato ma si trasforma in una famiglia, e poi in un individuo (infatti si può dire che la famiglia è più unitaria dello Stato, e l’individuo più unitario della famiglia). Pertanto, se anche qualcuno fosse capace di effettuare questa trasformazione, avrebbe il dovere di non farlo, perché altrimenti distruggerebbe lo Stato» (La politica, 1261 a 14-22). La sussistenza della comunità civile (polis) dipende, secondo Aristotele, dalla diversità delle formazioni sociali che la compongono: sono proprio tali diversità, in effetti, a garantire quella gradualità e quella complementerità che sono indispensabili per l’armonia sociale e per il mantenimento o autosufficienza (autarchia) dello Stato. Di conseguenza, scrive Aristotele, «siccome bisogna preferire ciò che è più capace di autosufficienza, proprio per questo bisogna preferire ciò che è meno unitario a ciò che è più unitario» (op. cit., 1261 b 12-13).
6. Aristotele e il senso comune.
[La filosofia aristotelica coincide quasi totalmente con le certezze del senso comune]
Come ha scritto recentemente uno studioso americano a proposito del rifiorire degli studi aristotelici negli Stati Uniti, Aristotele è il filosofo del senso comune per antonomasia ( ). In effetti, l’aver ribadito – anche in opposizione al suo maestro Platone – che l’unica realtà esistente è il mondo delle “sostanze”, ossia degli enti singolari, riporta la filosofia alla prima evidenza del senso comune, dove la molteplicità e il divenire non sono più considerati delle “apparenze” da superare con una conoscenza più perfetta, ma delle verità da spiegare attraverso la dottrina dell’atto e della potenza.
Anche l’antropologia aristotelica, ristabilendo l’unità sostanziale dell’uomo – in contrapposizione all’immagine platonica dell’anima preesistente al corpo e desiderosa di liberarsi di esso – rispecchia e giustifica metafisicamente quella che è la seconda certezza del senso comune, ossia l’autocoscienza dell’io come sostanza alla quale fanno riferimento sia le facoltà spirituali che quelle corporali. Infine, anche l’etica aristotelica, imperniata sulla nozione di “virtù” e di “felicità” fa perno sulla terza e quarta certezza del senso comune, ossia sulla consapevolezza che ogni uomo ha della propria capacità di autodeterminarsi al bene, conosciuto mediante la ragione e al comunicazione con gli altri uomini, soprattutto nell’àmbito della vita civile.
7. Rilievo storico dell’aristotelismo.
L’aristotelismo era destinato, per il vigore speculativo che lo contraddistingue, a rimanere nei secoli il punto di riferimento necessario degli studiosi, sia per quanto riguarda il mondo fisico che per quanto riguarda i problemi della logica, della metafisica, dell’antropologia, dell’estetica, dell’etica e della politica. Il prestigio scientifico di Aristotele riguardo allo studio della natura fisica (biologia, fisica, astronomia) entrò in crisi e crollò poi definitivamente agli inizi dell’età moderna, soprattutto a opera di Galileo e per effetto della nascita delle scienze “positive”, viste come conoscenze diverse e spesso anche contrapposte alla filosofia della natura (10); invece, la logica, la metafisica e l’etica di Aristotele hanno sempre superato superato le crisi culturali succedutesi lungo la storia, e ancora oggi la proposta aristotelica trova convinti e appassionati cultori.
La logica Aristotelica fu sviluppata dai filosofi stoici prima dell’avvento del cristianesimo; successivamente, il mondo cristiano latino entrò in possesso della logica di Aristotele grazie alle traduzioni in latino di Severino Boezio. Nel Medioevo la logica aristotelica fu conservata, studiata e sviluppata senza soluzione di continuità, soprattutto a partire da Abelardo e poi da Tommaso d’Aquino, per finire con Giovanni Duns Scoto. Nell’epoca moderna, come reazione all’abbandono della logica aristotelica da parte di Hegel, un nuovo impulso agli studi aristotelici fu determinato dall’opera di Adolf Trendelenburg. Successivamente, il filosofo tedesco Franz Brentano determinò una svolta nella filosofia europea del primo Novecento recuperando dalla logica aristotelica e scolastica la nozione di ”intenzionalità. Analogamente, nello steso periodo, l’americano Charles Sanders Peirce sviluppò in modo fondamentale gli studi di logica su basi aristoteliche.
Collegata alla logica, la retorica di Aristotele è stata di nuovo al centro degli studi di molti autori che nel Novecento si sono dedicati alle scienze sociali (come Theodor Viehweg e Chaim Perelman), riscoprendo in Aristotele il metodo topico-dialettico.
La metafisica di Aristotele non fu conosciuta nel mondo latino agli inizie del Medioevo, ma fu conservada dagli Arabi che la trasmisero poi ai latini nel secolo XIII, dando origine ai sistemi di Alberto Magno e di Tommaso d’Aquino (vedi cap X). Nel Rinascimento la tradizione aristotelica, in parte combattuta ed emarginata, fiorisce nella scuola padovana (Pietro Pomponazzi). Nell’Ottocento, come reazione alla flolsoofia idealistica di Hegel, Adolf Trendelenburg ripresenta la filosofia aristotelica. Nel Novecento hanno riesaminato con interesse le teorie metafisiche di Aristotele autori importanti come Hans-Georg Gadamer e Joachim Ritter.
L’etica di Aristotele viene oggi riscoperta dagli studiosi europei e americani, soprattutto grazie all’importante saggio sulla nozione di “virtù” pubblicato dello scozzese Alasdair MacIntyre negli anni Sessanta in America e subito tradotto in tutte le lingue occidentali (11). Per quanto riguarda in particolare l’etica publica o politica, nella seconda metà del Novecento molti autori tedeschi (ta i quali Leo Strauss, Hannah Arendt, Eric Voegelin, Wilhelm Hennis e Hans Maier) hanno fatto leva sulle principali nozioni aristoteliche.
L’aristotelismo, come il platonismo, era destinato a rimanere per sempre una categoria essenziale del filosofare: come vedremo in seguito, Aristotele è studiato e interpretato nel periodo ellenistico (cap. V) e dai filosofi neoplatonici (cap. VII); resta un pilastro fondamentale della filosofia cristiana, soprattutto dopo Boezio (cap. VIII) e diventa il Filosofo per antonomasia nel XIII secolo (cap. X). Successivamente (secoli XIV-XVI), il suo pensiero predomina ancora nel campo della logica e della filosofia della natura, non invece nella metafisica 2.
Vittorio Mathieu, accennando all’egemonia culturale dell’aristotelismo dal XIII al XVIII secolo – che portò anche a una sopravvalutazione del metodo scientifico di Aristotele e poi alla sua decadenza, – scrive: «L’opera di Aristotele è la prima sistemazione enciclopedica del sapere dell’antichità. Essa fu considerata per molti secoli esemplare, non solo per il metodo seguito, ma anche per il contenuto […]. Oggi, tuttavia, Aristotele ci si presenta sotto una diversa luce, più adatta a rivelarne il valore. Noi non possiamo più chiedergli come siano, di fatto, le cose dell’esperienza: per questo, ci rivolgiamo agli scienziati. Ma riconosciamo in lui una capacità impareggiabile di approfondire l’interpretazione del significato, sia del divenire naturale, sia degli atteggiamenti umani. Se la scienza di Aristotele conserva per noi solo un interesse storico (maggiore, tuttavia, su certi punti, di quanto un secolo o due fa si credesse), la filosofia di Aristotele rimane pur sempre per noi, liberatici dal servilismo mentale dell’ipse dixit, una delle più illuminanti di tutta la nostra tradizione» 3. Nelle pagine che seguono avremo modo di vedere, sulla base delle opinioni di diversi storici, l’ampiezza di questa influenza di Aristotele in tutta la filosofia antica e medioevale, a parte poi quella moderna che sarà studiata nel vol. II.
Note
(1) Juan José Sanguineti, Scienza aristotelica e scienza moderna, Ed. Armando, Roma 1990, p. .
(2) Govanni Reale, Introduzione a Aristotele, Ed. Laterza, Bari 1974, p.115
(3) Sergio Cotta,
(4) Hans-Georg Gadamer,
(10) Si veda la esauriente ricognizione storica dell’epistemologo argentino Juan José Sanguineti, Scienza aristotelica e scienza moderna, cit.
(11) Cfr Alasdair MacIntyre, After Virtue (trad. it.: Dopo la virtù, Ed. Feltrinelli, Milano 1965.
Eudemo (o dell’Anima), ecc. Il Protrettico contiene un’esortazione alla scienza filosofica diretta a Temisone, principe di Cipro: «O si deve filosofare, o non si deve: ma per decidere di non filosofare è sempre necessario filosofare: dunque bisogna filosofare in ogni caso». Veniamo alle opere esoteriche, ordinate e pubblicate, come s’è detto, da Andronico di Rodi, nella metà del primo secolo av. Cr. ed edite in Roma nell’età augustea. Esse furono sempre oggetto di studio da parte sia dei greci che dei latini. Grandi commentatori dopo la decadenza furono: Alessandro da Afrodisia, gli Arabi (particolarmente Averroè), gli Ebrei, tutta la Scolastica del Medioevo (specialmente san Tommaso, il più grande e più geniale studioso del pensiero aristotelico), gli umanisti rinascimentali come Pietro Pomponazzi, i fautori della rivolta protestante come Melantone, e tutti i filosofi dei secoli successivi fino ai giorni nostri. Oggi la migliore edizione delle opere di Aristotele è quella curata dall’Accademia di Berlino ad opera del Bekker sui codici: Parigino E (X secolo), Laurenziano (XII secolo), Viennese (X secolo, scoperto recentemente dal Gercke). La monumentale opera del Bekker, col suo Index in 5 volumi, rimane un lavoro ancora insuperato. Questi scritti possiamo classificarli nel modo seguente:
1) Metafisica: l’opera aristotelica principale venne chiamata appunto Metafisica da Andronico di Rodi; si tratta di un’opera ordinata in 14 libri, in cui Aristotele distingue le conoscenze particolari da quella filosofica, intesa questa come scienza (*) delle cause e dei princìpi primi. Vengono studiati l’essere nelle sue proprietà e attribuzioni (ontologia) e nel suo divenire (atto e potenza), quindi l’uno e il molteplice, e infine la sostanza e gli accidenti. Inoltre in quest’opera è delineata la prima visione critico-storica di tutte le posizioni, impostazioni e soluzioni dei problemi filosofici da Talete a Platone. Per quanto riguarda il problema teologico, Aristotele ne fa un approfondimento di quello metafisico, per cui le questioni che riguardano Dio le troviamo per lo più trattate in quest’opera, oltre che in tutte le altre.
2) Filosofia della natura: in questo campo Aristotele è famoso anzitutto per la Fisica: opera grandiosa composta di 8 libri ai quali sono collegati i trattati Intorno al cielo (4 libri); Intorno alle Meteore (4 libri); Intorno alla generazione e corruzione (2 libri); in queste opere sono trattate questioni filosofiche prevalentemente cosmologiche e astronomiche (il mondo sublunare è corruttibile, quello sopralunare è incorruttibile, ecc.).
A queste opere si affianca la Storia degli animali: il termine «i™storía [historía]» significa in greco “osservazione”; è dunque un’opera di zoologia e si articola nei seguenti libri: Sulle parti degli animali, Intorno alla trasmigrazione degli animali, Intorno al movimento degli animali: sono trattati filosofici sulla vita, a partire dai dati della biologia e della zoologia.
3) Psicologia: Sull’anima e Parva naturalia, ove abbiamo lo studio critico della natura sensibile e psichica dell’uomo (anima, senso e sensibile, memoria e reminiscenza, sonno e veglia).
4) Gnoseologia e logica: viene tradizionalmente denominato Organon (= strumento [del pensiero]) un ampio trattato intorno alle regole logiche del soggetto conoscente in relazione all’oggetto conoscibile, quindi contiene continue dissertazioni, riferimenti e princìpi intimamente connessi alla metafisica. L’Organon è diviso in: a) Categorie: libro in cui si parla dei generi supremi e dei modi generalissimi dell’ente che l’intelletto deduce e predica; sicché le «categorie» (*) sono dette anche predicamenti (*) e sono la sostanza e i suoi accidenti; Aristotele ne deduce nove e li aggiunge al primo, cioè alla sostanza; b) Pepí e¬rmeneíav (“Intorno all’interpretazione”), un libro che tratta i giudizi; c) I primi Analitici: due libri che trattano il sillogismo; d) I secondi Analitici: due libri che dimostrano come attraverso il sillogismo si perviene alla scienza della verità; e) Topici: otto libri in cui viene esaminato il sillogismo (*) come ragionamento dialettico che, se parte da premesse probabili, non può raggiungere conclusioni certe; f) I ragionamenti sofistici: in cui, sulle tracce di Platone, mostra la vacuità della sofistica, dimostrando come essa consista in una rete di sillogismi (*) apparenti che conducono fatalmente all’errore.
5) Etica: a) Etica Eudemia, attribuita un tempo al discepolo Eudemo, ma ora rivendicata e ritenuta autentica; b) Grande Etica: grande non per la mole, ma per i grandi valori morali che vi sono trattati; c) Etica a Nicomaco. Questa è l’opera di etica più importante, in quanto l’autore riassume e approfondisce il contenuto delle altre due: certo che l’Etica Nicomachea vince le altre per ordine, compiutezza e per valore letterario, sì che divenne, per antonomasia, l’Etica di Aristotele; la quale introdotta a Parigi fin dal 1215, fu la più popolare delle opere aristoteliche, riassunta, tradotta e commentata in ogni tempo e in ogni nazione. Nella opere di etica Aristotele delinea una visione armonica nella quale l’attività pratica è descritta come effetto rispondente, necessario ed equilibrato dell’attività teoretica; perciò l’attività teoretica, analogamente a Socrate, rimane il fondamento necessario e indispensabile dell’agire umano.
6) Pedagogia: ci restano frammenti di dialoghi che dovevano formare un trattato dal titolo «L’Educazione», ove doveva approfondire la visione pedagogica che si nota nelle sue opere sia di Etica che di Politica.
7) Estetica: a) Técnh r™htorikä (“Arte della retorica”), opera in tre libri in cui insegna che l’oggetto della Retorica è il verosimile e il fine è la persuasione degli ascoltatori; inoltre parla della natura del discorso, delle sue parti e delle regole per la sua efficacia; b) Poetica: è un trattato giuntoci incompleto, in cui si parla della genesi storica della poesia mimetica, dei molteplici generi e delle varie regole da applicare per avere un’opera d’arte; inoltre tratta la genesi critica della commedia e della tragedia.
8) Politica: a) Politiká (“Politica”) in otto libri, in cui Aristotele delinea la visione equilibrata intorno alla società: naturale socievolezza dell’uomo, la famiglia come fonte della società, lo Stato: sua natura, funzione e fine, vari tipi di governo, ecc.; b) una raccolta di costituzioni, pervenuteci solo in parte, in cui doveva esservi la storia critica delle costituzioni di 158 città, sia greche che barbare; nel 1891 è stata rinvenuta quella di Atene.
La metafisica (che Aristotele chiama «filosofia prima» o «teologia») è la dottrina dell’«o¢n Fw o¢n [ón he ón = essere in quanto essere]»; essa non contraddice il senso comune, e quindi sa che la realtà non può essere considerata separata da tutto ciò che percepiscono i sensi. Il molteplice sensibile non potrebbe essere neppure immaginato se non contenesse in sé l’universale; in ogni essere sensibile che cade sotto i sensi si devono dunque osservare due elementi o coprincìpi inscindibili, la cui sintesi logica (che egli chiama «s´ynolon», cioè unione) costituisce la realtà dell’essere: questi elementi sono la «uçlh [h´yle = materia]» e la «erdov [éidos = forma o essenza]». La materia è l’elemento particolare, generico, passivo e indeterminato; la forma è l’elemento universale, attivo e determinante la materia ad essere questa o quella realtà (questo o quell’ente, questo o quell’individuo). L’essere non è la materia, considerata nella sua indeterminatezza («materia prima»), né può essere la forma, intesa nella sua astrattezza; ma è l’unione di materia e forma, l’una intesa come principio passivo, di carattere particolare, l’altra come elemento attivo, di valore universale.
La forma, intesa in tal senso, si può dire che è la costituzione metafisica di ogni essere, per cui viene chiamata da Aristotele «ousía [usía]»: ciò che è, o meglio la ragione per cui questo ente è questo e non può essere un altro. L’essere dunque, è l’unione di materia e forma; la forma determina e individualizza la realtà, quindi è considerata anche come natura dell’essere; forma, essenza e natura sono tre sinonimi che esprimono la realtà nella sua costituzione ontologica. L’unione comprensiva che sintetizza ed esprime questi tre elementi è la sostanza (*) che vuol appunto significare il substratum, cioè il fondamento dell’essere. «Il sostrato – insegna Aristotele – è sostanza, ed è, per un rispetto, materia (e chiamo materia – prosegue Aristotele – ciò che non è qualcosa di determinato) e, per altro rispetto, la sostanza è concetto e forma, o ciò che, essendo qualcosa di determinato, si può separare col pensiero; in terzo luogo, sostanza è ciò che risulta da entrambi [cioè dalla materia e dalla forma]… ed esso solo si può dire che esiste».
Sicché la sostanza è la categoria (*) prima, cioè la condizione comprensiva e necessaria dell’essere, senza la quale la realtà non può essere concepita: essa è ciò che è in sé e non può essere in altro.
Oltre a questa, l’essere ha altre categorie di carattere particolare e contingente, cioè attribuzioni predicative della sostanza («predicamenti»), ma che non possono avere l’essere in sé: sono chiamate da Aristotele «accidenti» (*). L’accidente è ciò che non può essere in sé ma è nella sostanza, come in un dato individuo la statura, il carattere, la dottrina, la virtù, ecc. Come s’è detto, oltre a quella della sostanza, Aristotele enumera nove categorie, o accidenti predicabili della sostanza stessa, che sono: quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, azione, passione, situazione e possesso.
In tal modo il dualismo (*) metafisico di Platone sembra eliminato, in quanto viene stabilita l’unità ontologica della realtà, costituita da ciò che è sostanza, individuo, risultante dall’unione di materia e forma; le essenze dunque non sono separate dai molteplici sensibili, ma costituiscono la natura universale di ciascun essere. Un ente reale è sempre un individuo, la cui materia si può dire che è ciò che appare ai sensi, mentre la forma è l’idea che la ragione si fa di esso, concependolo come un quid, cioè come un’essenza che lo determina ad essere quell’ente (*), distinto da un altro o da altri esseri. Nel mondo animato la forma, oltre ad essere astrazione concettuale, è principio vitale (essenza, come si è già detto, natura, ecc.), per il quale la pianta germoglia e vegeta, l’animale sente, e l’uomo vegeta, sente e intende. Perciò la realtà non è «idea iperurania», ma s´ynolon, unione inscindibile di materia e forma: una pietra, una pianta, un animale, l’uomo sono enti, sostanze, realtà, individui. Così resta stabilito che le realtà sono molte (contro Parmenide), tante quanti sono gli esseri particolari che si constatano coi sensi, e che hanno in sé stesse la loro essenza individuale (contro Platone).
Ora è necessario spiegare il divenire (*) delle realtà, cercare cioè il principio (metafisico) in virtù del quale il molteplice diviene continuamente altro da sé; è necessario indagare intorno all’origine del divenire degli esseri, intorno alla causa del loro trasformarsi e al fine a cui essi tendono.
A questo proposito Aristotele espone la teoria metafisica di potenza e atto, effetto e causa, mobile e movente; mobile, effetto e potenza sono termini che riguardano (analogamente al termine «materia», già esaminato) aspetti contingenti e particolari, mentre causa, movente e atto esprimono (analogamente alla «forma») l’universale (*).
Per potenza (*) Aristotele intende la disposizione e la possibilità che ciascun essere ha di divenire altro da sé accidentalmente; ciò significa che l’essere, pur rimanendo essenzialmente quella tale sostanza, può mutare, e infatti muta, nei suoi accidenti o categorie: il seme diventa pianta, il bambino diventa uomo, l’ignorante dotto, ecc… Intesa in questo senso, la potenza indica tutte le perfettibilità di cui l’essere è suscettibile, come anche le degradazioni in cui può cadere; in altre parole, mentre la sostanza, come si è visto, esprime l’ente, questo ente come io l’osservo hic et nunc, la potenza mi apre la visione di tutto il suo possibile divenire.
Per la realizzazione del divenire è necessario che ci sia la «e¬nérgeia [enérgheia = energia o atto]», il principio dinamico la cui funzione consiste appunto nell’attuazione graduale di tutte le perfezioni che la sostanza potenzialmente contiene. In tal modo Aristotele elimina il dualismo di essere / divenire (Parmenide ed Eraclito), al pari di quello di essenza / apparenza (Platone); ogni essere sensibile ha in sé l’essenza individuale, il «sinolo»; è una sostanza, comprendente sia il suo essere attuale che il suo potenziale divenire (potenza e atto). Sicché l’ente può considerarsi sotto due aspetti: come idealità di ciò che può divenire (ad esempio: il bambino in potenza a diventare adulto, dotto) o come essere realizzante le sue idealità potenziali, cioè l’essere che va facendosi, attuando quelle perfezioni che aveva potenzialmente (l’adulto che, pur rimanendo quella essenza che lo individua nella sua infanzia, è diventato l’uomo maturo e dotto; maturità e dottrina sono perfezioni non più potenziali come quando era bambino e ignorante, ma perfezioni attuate e attuali). Tale attuazione, cioè la potenza o le potenze attuate nell’essere, si è realizzata per mezzo del movimento (*) e conduce alla perfezione in atto; questa perfezione in atto è chiamata da Aristotele «e¬nteléceia [entelécheia]». «Una potenza è sempre una potenza determinata a qualcosa – insegna Aristotele –; e ci sono esseri che hanno potenza a muoversi secondo ragione, e di cui le potenze si accompagnano perciò alla ragione; altri sono sprovvisti di ragione, e le loro potenze sono irrazionali… L’atto è l’esistenza stessa dell’oggetto, non nel senso in cui diciamo che è in potenza, ad esempio, un Ermete nel legno, o la metà di una linea nella linea intera, in quanto si può cavarla da questa… L’atto, dunque, sta alla potenza come il costruire al saper costruire; l’essere desto al dormire; il guardare al tener gli occhi chiusi, pur avendo la vista; come l’oggetto cavato dalla materia ed elaborato compiutamente sta alla materia grezza e all’oggetto non ancora finito».
Si potrebbe dire dunque che la potenza indica quiete, mentre l’atto si vede dal movimento per mezzo del quale l’essere dalle sue perfezioni potenziali passa all’attuazione di esse; a proposito del movimento, inteso in tal senso, Aristotele ne distingue quattro specie: «Quattro sono i mutamenti – insegna Aristotele – secondo che una cosa muta per la sostanza, o per la qualità, o per la quantità, o per il luogo; e dicesi nascere o perire (generazione o corruzione) il mutamento sostanziale, aumento o diminuizione quello di quantità; alterazione quello di qualità; traslazione quello di luogo». Ora perché si effettui il movimento sono necessari due elementi; il mobile (ciò che è mosso), e il movente che muove il mobile, intendendo per movente la causa (*) del movimento e per mosso l’effetto di detta causa; perciò la causa è il principio che determina l’influsso reale e diretto nell’attuazione di qualsiasi potenza della sostanza, cioè degli enti (*).
In rapporto al movimento Aristotele distingue quattro tipi di cause: due di natura intrinseca, cioè immanenti all’essere, e due di carattere estrinseco, cioè esterne e trascendenti gli esseri su cui influiscono. Bisogna subito notare che per immanenza s’intende tutto ciò che è e si svolge nell’ente come sua propria natura e attività; mentre per trascendenza s’intende l’influsso di una natura diversa ed esterna a quella dell’ente su cui influisce, per cui si dice estrinseca.
Le cause intrinseche sono la causa materiale e quella formale; quelle estrinseche sono la causa efficiente e quella finale.
La causa materiale è fondamentale e necessaria potenzialità del divenire di ciascun essere; è un blocco di marmo, ad esempio, da cui si può scolpire una statua, una lapide, un monumento; la causa formale si può dire che è la più importante, poiché oltre a essere intrinseca all’essere, come quella materiale, è anche causa concettuale da parte dell’intelletto che conosce l’essere: è intrinseca all’essere perché ne esprime l’essenza o forma (*); è concettuale, in quanto costituisce l’oggetto del primo atto conoscitivo da parte della ragione.
Oltre alle due cause intrinseche, materiale e formale (in rapporto alla materia e alla forma), abbiamo, come s’è detto, due cause estrinseche: la causa efficiente e quella finale; la causa efficiente è principio esterno che pervade, trascende e determina l’essere ad attuare il suo divenire: lo scultore, ad esempio, è causa efficiente nei confronti della statua che ha ricavato dal blocco di marmo.
La causa finale è principio secondo il quale ogni essere sia razionale che irrazionale, va realizzando un fine che, sebbene lontano o inconscio, è sempre metafisicamente presente all’essere, ed è anteriore a ogni sua attuale determinazione; la causa finale dunque, è lo scopo per il quale ogni essere diviene, il terminus ad quem a cui ogni essere tende. Intesa in tal modo la causa finale, Aristotele la chiama «bene»; abbiamo così l’identità di fine col bene (*) che ogni essere tende a raggiungere nel suo divenire. Lo scultore, riprendendo l’esempio di sopra, prima ancora di ricavare la statua dal blocco marmoreo, già viveva la presenza del fine per il quale doveva scolpire la statua.
«È dunque evidente – insegna Aristotele – che a noi occorre acquistare la scienza delle cause prime. Di ogni cosa noi diciamo di saperla quando pensiamo di conoscerne la prima causa. Ora, di cause si parla in quattro modi: in uno di essi diciamo causa la sostanza e la pura essenza; infatti il perché si riduce da ultimo al concetto, ed essendo il primo perché, è la causa principale; in un altro [modo], diciamo causa la materia e il sostrato; in terzo [modo], quello donde è il principio del movimento [cioè la causa efficiente], in quarto [modo]… lo scopo e il bene, ché questo è il fine di ogni generazione».
Ora è necessario notare come un ente (*) sia diverso dall’altro, in quanto è una sostanza superiore o inferiore alle altre sostanze, e come questa superiorità o inferiorità consista nel maggiore o minore grado di perfezione o di perfettibilità che la natura di ciascun essere possiede. Da qui si spiega la scala gerarchica degli enti, da quelli infimi a quelli superiori; in questa varietà le sostanze inferiori, nell’attuazione delle loro potenzialità, sono sollecitate accidentalmente da quelle superiori; queste, a loro volta, sono effetti di altre cause o sostanze superiori ad esse.
Questa catena della causalità spiega l’attuazione di tutte le perfettibilità degli esseri molteplici; sicché le sostanze molteplici, pur avendo in sé la ragion d’essere (essenza) e di esistere (esistenza) hanno bisogno di cause efficienti, di cause cioè che operino al di fuori e al di sopra di esse, per l’attuazione del loro stesso divenire. Appare chiaro perciò come l’atto sia superiore alla potenza e la causa efficiente sia anteriore ad esso; l’atto dunque è effetto di cause superiori che lo determinano per mezzo del movimento.
Siamo così giunti all’oggetto puro della filosofia, intesa come studio dei princìpi e delle cause prime del reale. Il blocco di marmo diventa statua in virtù dello scultore che ne è causa efficiente; lo scultore, a sua volta, postula una causa efficiente, a lui superiore, che attui la potenza che egli ha di scolpire la statua.
Come si vede, tutto il divenire, sia cosmico che umano, risulta di una serie complessa di potenze (*) e di attuazioni delle medesime, cioè di effetti e cause di essi per mezzo del movimento; il movimento, come s’è visto, implica il mosso come effetto e il movente come causa: il mosso-effetto rimanda sempre al suo movente-causa. Ma è evidente che non si può procedere all’infinito, giacché la ragione esige necessariamente un motore primo che muova e sia immobile, una causa prima che non sia effetto di cause anteriori, ma che renda possibili tutte quelle inferiori come suoi effetti; questa causa-motore non può contenere alcuna potenzialità, poiché se fosse in potenza avrebbe bisogno di una causa efficiente superiore per la sua attuazione; perciò deve essere atto purissimo, perfezione piena, completezza in sé, primo movente di tutto il fuori di sé. Questa causa incausata, questo motore immobile, atto purissimo, inesteso, eterno, che tutto muove, attua e trascende costituisce per Aristotele la suprema Entelechia, Dio (*), causa efficiente-finale, da cui procede tutto l’ordine perfettivo e a cui tutti gli esseri tendono.
Aristotele raggiunge così la visione unitaria e scientificamente armonica del reale, anche se comunemente si afferma che non sia riuscito a eliminare completamente il dualismo (*) platonico. Più che dualismo, nel pensiero aristotelico riscontriamo una dualità, la dualità di materia e spirito: infatti il motore immobile vive nel mondo sopralunare, la cui natura è costituita dalla «quinta essenza», cioè dall’«etere» (*) che, a differenza dei quattro elementi cosmici, è incorruttibile, impassibile ed eterno. Ivi risiedono le cause efficienti: gli astri, di natura eterea, che per influsso del motore immobile compiono un movimento circolare (perfetto), uniforme ed eterno, con cui sono cause efficienti del movimento del mondo sublunare, cioè del cosmo, la cui natura generale e imperfetta consiste appunto nel quadruplice elemento (terra, acqua, fuoco e aria) già enunciato dai presocratici.
Tutti gli esseri cosmici, dunque, sono sollecitati dal mondo della «quinta essenza», tutti tendono verso di essa e, per essa, verso il motore immobile che ne è principio e causa prima; rimarrebbe perciò una dualità tra il mondo perfetto della quinta essenza e quello imperfetto dei quattro elementi.
Ma questa dualità è ben diversa dal dualismo platonico: qui non si tratta di immagini sensibili che rimandano ad essenze intelligibili, iperuranie; ci troviamo di fronte all’intuizione metafisica del mondo reale, inteso come mondo di forme, essenze, sostanze individue che in esso realizzano la loro perfezione.