Fabro, Livi, Mondin. Nella filosofia contemporanea varie direzioni di pensiero che si qualificano come “filosofie della esistenza” hanno fatto dell’esistenza il pilastro della opposizione al monismo panteistico e dialettico: in esse, tuttavia, l’esistenza è intesa come la realtà primaria della “persona” singola isolata nella sua propria situazione nel mondo ed impegnata nei suoi compiti. Tutta la filosofia moderna pare sia rimasta all’oscuro di queste due nozioni della metafisica tomista
Essenza – Esistenza
ESSENZA
(P. Cornelio Fabro) I. Indica la natura di una cosa come tale e quindi di ciò che è significato nella sua definizione. Se l’“ente” (vedi) è il concreto sussistente che esiste o che ha l’atto di essere, l’essenza è la speciale “natura” che quest’atto fa esistere. L’essenza esprime nel suo contenuto una “partecipazione” della infinita perfezione della divina natura; essa determina ad ogni essere il proprio posto nella gerarchia degli esseri; ne fonda, dirige e attua le rispettive possibilità di sviluppo. Espressione della eterogeneità fondamentale del reale, le essenze sono fisse e immutabili tanto nel tempo come nello spazio: si succedono perciò in modo discontinuo, per scarti che sono gradi distinti di perfezione nell’àmbito dell’essere: come piombo, quercia, cavallo, uomo… Aristotele accettava, con opportune rettifiche, la tradizione dell’intellettualismo platonico ‑ pitagoreo “essere le essenze in qualche modo come numeri” (Met., IX, 3, 1043 b 32 sgg.). Così le essenze fondano ad un tempo la stabilità dell’essere e l’oggettività del conoscere di qui il termine neolatino di “quiddità” (quidditas “quid sit aliquid”). E. si dice tanto della sostanza come dell’accidente, ma della sostanza in senso principale e dell’accidente in senso secondario e secondo analogia, poiché come l’accidente che è non tanto “ens” quanto “ens entis” partecipa dalla sostanza la ragione di essere, parimenti la sua e. dipende da quella della propria sostanza così che nella sua definizione l’accidente include la sostanza così come soggetto e fondamento nonché principio attivo radicale (s. Tommaso, In VII Met., lect. 4a, n. 1334). Dio propriamente non ha essenza ma è Atto puro di essere al di là di ogni definizione.
II. Nel suo doppio aspetto, ontologico e logico, l’essenza ammette vari gradi di considerazione. C’è anzitutto l’essenza singolare e individuale, la umanità di Pietro o di Paolo. Nel realismo aristotelico essa è la sola ad esistere veramente nella realtà ed è quindi su di essa che devono fondarsi le ulteriori determinazioni della considerazione scientifica. Poiché nelle sostanze singolari l’essenza si trova moltiplicata e individualizzata, Aristotele non ha potuto fermarsi alla sola “forma” come Platone, ma ha dovuto introdurre quale con‑principio dell’essenza la materia.
Perciò le cose sensibili hanno un’essenza composta di materia e forma, l’unione delle quali dà la specie completa: l’uomo, come tale, non è anima soltanto, ma la sintesi di anima e di corpo (Met., VI, 1, 1025 b 31 sgg., e VIII, 4‑6, 1045 b 3 sgg.). La singolarità tuttavia (l’“umanità” come si trova in Pietro, realizzata con “questa” anima quale atto di “questo” corpo) non può essere un attributo dell’essenza come tale ma va riferita a principi extraessenziali (PRINCIPIO DI INDIVIDUAZIONE).
Sul piano rigorosamente metafisico, l’essenza è propriamente definita “forma” di essere, e non esige come tale la presenza della materia: infatti al culmine della scala degli esseri stanno le “forme” del tutto immateriali (puri spiriti). E nello stesso mondo sensibile l’essenza è determinata dalla forma; l’uomo è tale e. e non altra, per via dell’anima spirituale che è la sua forma; che anche il corpo abbia una natura speciale, ciò è a sua volta un’esigenza ed un effetto della stessa anima a cui è destinato poiché ciò che determina è l’atto e non la potenza. Cosicché per Aristotele l’essenza, nella sua assolutezza metafisica, è da dire “senza materia” (Met., VIII, 7, 1032 b 14). L’anima (forma partis) è l’atto di un’essenza composta, atto della materia: la “humanitas” invece dice la realtà dei tutto (forma totius) che abbraccia e materia e forma in sintesi che è grado, modo e forma di essere fra le altre forme espresse dalle altre essenze (s. Tommaso, In VI Met., lect. 9, n. 1469).
Nell’ordine logico l’essenza è data dalla definizione (v.). Come l’essenza ha parti reali, la materia e la forma, così la definizione ha parti logiche che sono il genere e la differenza di cui risulta la specie che è l’essenza completa (Met., VIII, 9, 1034 b 20 S99.). Si noti però che genere e differenza sono “parti formali” dell’essere di cui l’uno esprime l’elemento determinabile, l’altra l’elemento determinante, e sotto questo aspetto soltanto, cioè indirettamente, corrispondono alla composizione di materia e forma. Fra gli Scolastici, coloro che con Avicebron tengono una corrispondenza diretta fra l’ordine logico e l’ordine ontologico, ammettono la composizione di materia e di forma anche negli spiriti puri. Secondo s. Tommaso, invece, le sostanze intellettuali sono assolutamente semplici nell’ordine dell’essenza, non però nell’ordine dell’essere nel quale sono composte realmente di essenza e di atto di essere e quindi di sostanza e di facoltà, a differenza di Dio che è semplice sotto tutti gli aspetti (Sum. Theol., I, q. 54, a. 1‑3).
Nella filosofia cristiana, che non accetta la creazione “ab aeterno”, tale perennità ha significato puramente ideale perché di fatto il mondo è cominciato ed in esso ogni creatura: e perciò ogni essenza, sotto l’aspetto della durata esistenziale, ha il valore corrispondente alla propria natura: di durata finita sotto ogni aspetto, se la natura è contingente (essenze materiali corruttibili), di durata infinita (essenze immortali) a parte Post, se la natura è spirituale (angeli e anime umane).
BIBLIOGRAFIA:
H. Bonitz, Index Arist., Berlino 1870, 221 a 34 s99.; 544 a 39 sgg. A. Schwegler, Die Metaph. d. Arist., IV, Tubinga 1848, P. 369 sgg.; A. F. Trendelenburg, Arist. De anima, 21 ed. (C Belger), Berlino 1877; L. Schutz, s. v. in Thomas‑Lexikon, 21 ed., Paderborn 189z; W. D. Ross, Aristotle’s Metaphysics, Oxford 1924 (specialm. t. I, p. xciv sgg.), M.‑D. Roland‑Gosselin. Le “De Ente et Essentia” de st Thomas d’Aquin, Kain 1926. Cornelio Fabro
(Mons. Antonio Livi) è sinonimo di natura. Ed è conosciuta mediante il concetto o universale. L’essenza è l’elemento formale costitutivo di una cosa, ossia ciò che la assegna a una determinata specie, e allo stesso tempo la separa da tutte le altre cose e la limita (perché è quello e non altro: donna e non uomo). L’essenza non basta da sola a formare l’essere di un ente: essa presuppone l’atto di essere. I due principi, nell’esistente concreto, appaiono fisicamente uniti, ma si distinguono metafisicamente. Secondo san Tommaso, essenza ed essere si trovano nel rapporto di potenza e atto, perché solo l’essere conferisce attualità ad un ente possibile. Essenza ed essere si identificano solo in Dio, nel senso che Dio è atto puro, senza un’essenza che lo delimiti e lo circoscriva.
Esistenza
(P. Cornelio Fabro) E’ l’atto, il fatto o la ragione per cui si può dire che qualcosa “c’è ”, e si risponde alla domanda “se c’è ” (se c’è stata o ci sarà).
Nel significato generico di “ragione”, l’esistenza è l’appartenenza del predicato al soggetto in una proposizione e quindi ciò che sta “a fondamento” di quel movimento dello spirito che li unisce (o li separa) nella affermazione (o negazione): l’esistenza è allora intesa come semplice rapporto concettuale astratto proprio della logica ed anche della matematica pura, della filosofia dei valori (cf. W. Burkamp, Begriff und Beziehung, Lipsia 1927, § 49 sgg.). Ha per suo contrario la non esistenza, che è la “ripugnanza”, ovvero la contraddizione fra i concetti.
L’esistenza come fatto è data dalla constatazione sperimentale onde qualcosa può essere indicato e individuato come una realtà singolare nella storia e nell’esperienza. E’ il significato più corrente di e. usato spesso nella forma concreta (l’esistente, le e.) e accentua le caratteristiche di individualità (circostanze, fatti, situazioni … ) di qualcosa o di qualcuno su cui si possa fondare il diritto di rivendicazione, di accusa o di difesa. Il suo contrario è la non e. come “possibilità” non ancora realizzata.
A questo senso di “realizzazione del possibile” si fermò la maggior parte delle filosofie tradizionali benché non tutte l’abbiano concepita allo stesso modo. Così per alcuni è la singolarità reale in opposizione all’essenza astratta; per altri è la realtà contingente della creatura in quanto dice relazione alla causalità divina; per altri ancora è una modificazione dell’essenza singolare onde questa è tratta “fuori” della possibilità: ex‑sistentia, etimologia rimessa in onore dagli esistenzialisti. E come ora fanno questi (cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, 5a ed., Halle sulla Saale 1941, §9, p. 42 seg.) si arrivò a distinguere lo esse essentiae dallo esse exsistentiae (F. Suarez, Disput Met., disp. 31, sect. VI), distinzione che rese ancora più intricata la controversia medievale sulla distinzione fra essenza ed e.
Nel tomismo l’esistenza è lo esse come “actus essendi” della essenza individua singolare; è quindi una partecipazione dell’attualità divina ricevuta nella essenza con la quale forma una composizione reale come di atto e potenza (Contra Gent., II, 52‑54). La e. come fatto, come realizzazione di esperienza o di storia è una risultanza, una conseguenza fenomenologica di tale unione ontologica. Perciò per s. Tommaso, lo esse è ciò che vi è di più profondo in ogni cosa: “Esse est illud quod est magis intimum cuilibet et profundius inest, cum sit formale respectu omnium quae in re sunt” (Sum. Theol., I, q. 8, a. 1).
La filosofia moderna pare sia rimasta all’oscuro della nozione tomista. Fondamentale, per la filosofia posteriore, è la nozione leibniziana, che prende la e. come modo o posizione della cosa: “Exsistentia a nobis concipitur tanquam res nihil habens cum essentia commune, quod tamen fieri nequit, quia oportet plus inesse in conceptu exsistentis quam non exsistentis, seu exsistentiam esse perfectionem; cum revera nihil aliud sit explicabile in exsistentia, quam perfectissimarn seriem rerum ingredi; ita eodem modo concipimus positionem ut quiddam extrinsecum, quod nihil addat rei positae, cum tamen addat modum quo afficitur ab aliis rebus” (L. Couturat, Opuscules et fragments de Leibniz, Parigi 1903, P. 9). A questa nozione “estrinsecista” si avvicina la nozione che della e. ebbe Kant nel periodo precritico. La e. è ciò che in una cosa non può essere ridotto a concetto, ad elemento della essenza, ciò quindi “che non può mai essere un predicato”. La e. è “la posizione assoluta di una cosa”; e per Kant, che qui s’accosta inconsciamente alla posizione tomista, la e. è ciò che alla fine fonda la possibilità per modo che “la possibilità intrinseca di cose presuppone una qualche e.” (L’unico argomento possibile per una dimostrazione della esistenza di Dio, in Scritti minori, trad. it. di P. Carabellese, Bari 1928, P. 44). Nozione del tutto realista alla quale Kant rimase sempre fedele come ne fa fede l’esempio dei 100 talleri e la sua critica all’argomento ontologico: il difetto di Kant fu di essersi accontentato di questa cruda positività senza indagare oltre i rapporti fra la essenza e la esistenza onde arrivò a tacciare di argomento ontologico anche le prove a posteriori della e. di Dio di s. Tommaso.
La distinzione fra l’ordine logico e ontologico, che comunque era conservata nelle filosofie dualiste, scompare nel monismo razionalista di Spinoza prima e poi di Hegel. Per Spinoza la e. è un predicato della sola “Sostanza” a cui appartiene come esigenza necessaria (Ethica, parte I, prop. VII). Nella filosofia hegeliana si separarono la e. e la realtà: la e. è il particolare, il fenomeno esterno che è reale solo in quanto è sussunto nella Idea, come elemento del tutto che è lo Spirito nello sviluppo della sua storicità (Scienza della logica, II, sez. 2, cap. I). La e. quindi per Hegel caratterizza l’“apparire” della essenza, è la immediatezza che sorge dalla essenza, per cui nella e. si realizza la “unità indistinta” della essenza con la sua immediatezza.
Nella filosofia contemporanea varie direzioni di pensiero che si qualificano come “filosofie della e.” hanno fatto della e. il pilastro della opposizione al monismo panteistico e dialettico: la e. vi è intesa come la realtà primaria della “persona” singola isolata nella sua propria situazione nel mondo ed impegnata nei suoi compiti: “ ec‑sistere ”, cioè il mettersi fuori con l’atto della decisione personale.
BIBLIOGRAFIA:
A. Dyroff, Uber den Existenzia1begriff, Friburgo in Br. 1902; C. Fabro, Neotomismo e suarezismo, Piacenza 1941.
(Don Battista Mondin) Nel linguaggio più comune il termine esistenza denota semplicemente il fatto che qualche cosa è. In filosofia ha acquisito valenze semantiche più precise soprattutto nel pensiero di san Tommaso e di Heidegger. Per san Tommaso l’esistenza (più esattamente l’actus essendi, l’atto di essere) è ciò che conferisce attualità ad una essenza e, in tal modo, dà origine all’ente, il quale ha proprio nell’essenza e nell’esistenza i suoi due principi costitutivi metafisici supremi e la sua composizione estrema (che precede la stessa composizione aristotelica della materia e della forma). Per Heidegger l’esistenza è la proprietà dell’uomo di non essere chiuso dentro la sua essenza, ma di trovarsi fuori di sé (ex-sistere), incamminato verso le proprie possibilità.