…Don Pietro Cantoni, esposizione della Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica su alcuni aspetti della meditazione cristiana …
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PIETRO CANTONI, Cristianità n. 178 (1990)
“Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica su alcuni aspetti della meditazione cristiana”
La lettura del documento della Congregazione per la Dottrina della Fede Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica su alcuni aspetti della meditazione cristiana (1) richiama il famoso assioma lex orandi lex credendi che — abbreviazione di un passo dell’Indiculus de gratia Dei — ha espresso per secoli una consapevolezza definitiva della Chiesa, quella di un legame profondo fra la fede, intesa non solo come insieme di contenuti normativi — la fides quae, quanto si deve credere —, ma anche come struttura dell’atto di fede — fides qua, la fede con cui si crede —, e la preghiera nella sua globalità, quindi non solo quella liturgica, ma anche quella personale, che, in un contesto cristiano, non è mai preghiera puramente individuale. Si tratta di una lettera molto articolata e tanto densa che un commento inteso a passarne in rassegna in modo esauriente tutti i contenuti sfocerebbe inevitabilmente in un trattato teologico sulla preghiera. Dopo l’introduzione, che mette a fuoco l’occasione e la finalità dell’intervento del Magistero (nn. 1-3), in sei parti vengono enucleate in positivo l’essenza della preghiera cristiana alla luce della Rivelazione (nn. 4-7), in negativo gli errori che l’hanno deformata nella sua storia e conservano ancora un loro valore “tipico” (nn. 8-12); quindi si passa al fine a cui conduce l’itinerario della preghiera cristiana (nn. 13-15) e, alla sua luce, si esaminano alcune questioni di metodo (nn. 16-25), in particolare i metodi psicofisici-corporei (nn. 26-28), quindi si conclude riaffermando l’unicità della via che è Cristo (nn. 29-31). L’occasione del documento è duplice: da un lato, il crescente interesse per la preghiera nella Chiesa e nella società; dall’altro, il diffondersi, anche nella Chiesa, di metodi e di tecniche orientali di meditazione come yoga, zen, “meditazione trascendentale”, e così via. In ultima analisi, la domanda a cui il testo intende rispondere si può formulare in questi termini: “Come far fronte a questo bisogno in modo corretto e teologico — ossia alla luce di una ragione integralmente e profondamente illuminata dalla fede — e non sentimentale o empirico? Quale atteggiamento assumere in presenza di proposte molteplici e, almeno apparentemente, allettanti, provenienti da altre religioni, proposte che non si possono più ignorare perché ormai ci interpellano, letteralmente, in casa?”. L’esigenza di interiorità è un dato empiricamente rilevabile e non soltanto il frutto di un esame incorreggibilmente ottimistico, anche perché, appunto, si tratta di un fenomeno globalmente ambiguo. Basta entrare in una libreria per constatare quanto “tiri” il mercato di pubblicazioni orientaleggianti, o comunque genericamente e vagamente “spiritualistiche”, a volte con modalità perfino morbose (2). E non è indispensabile entrare in librerie “laiche” per incontrare copertine che recano il volto sorridente di qualche guru, perché anche l’editoria cattolica è ampiamente interessata dal fenomeno. Basta poi soffermarsi con attenzione sul ramificato e silenzioso diffondersi di “gruppi di preghiera”, spesso ispirati da rivelazioni private, per cogliere i sintomi certamente interessanti di qualcosa di assolutamente reale. In sintesi, la risposta offerta dal documento suona così: “La preghiera autentica, nei suoi tratti fondamentali ed essenziali, non è da inventare e neppure da cercare altrove: essa è consegnata nella Scrittura, nella Tradizione della Chiesa e nelle indicazioni del suo Magistero, cioè in quel tesoro immenso spesso non solo sconosciuto ai suoi stessi depositari — per pigrizia, per ignoranza, per “prurito di novità” e per altre ragioni storiche —, ma che non può essere esaurito neppure dall’attenzione più generosa proprio per la sua indicibile ricchezza, e al quale si deve continuamente ricorrere, magari sotto la spinta di esigenze storiche impellenti e di sfide di dimensioni mondiali. Gli apporti di altre tradizioni religiose non possono essere rifiutati a priori, perché questo significherebbe semplicemente misconoscere la natura umana e il suo intrinseco bisogno di Dio, e dimenticare che è natura ferita ma non distrutta dal peccato. Tuttavia, nell’eventuale integrazione, deve esser salvo il punto di vista della fede, anzi, esso deve costituire l’elemento determinante e trasformante“. Il legame inscindibile tra fede e preghiera è stato espresso in modo molto sintetico ed efficace dal card. Joseph Ratzinger nella conferenza di presentazione del documento: “[…] la preghiera è fede in atto: la preghiera senza fede diviene cieca, la fede senza preghiera si disgrega” (3). Di qui la preoccupazione del testo di fornire ai vescovi — e, quindi, ai fedeli — i dati essenziali per un giudizio di fede su preghiera e su metodi di preghiera e, nello stesso tempo, di incoraggiare, con la forza della verità, la preghiera cristiana ovunque essa si manifesti (4). Infatti, non si può pensare che la restaurazione-riforma di cui oggi la Chiesa ha tanto bisogno possa trovare diversamente e altrove la sua forza propulsiva. Proprio il legame stretto con la struttura della fede, e quindi della Rivelazione, fa della preghiera cristiana essenzialmente un dialogo, un colloquio (5): “È necessario a tale scopo formulare una decisiva premessa. La preghiera cristiana è sempre determinata dalla struttura della fede cristiana, nella quale risplende la verità stessa di Dio e della creatura. Per questo essa si configura, propriamente parlando, come un dialogo personale, intimo e profondo, tra l’uomo e Dio. Essa esprime quindi la comunione delle creature redente con la vita intima delle Persone trinitarie” (n. 3). È importante soffermarsi brevemente su questa “decisiva premessa”, perché vi si coglie il fondamento di tutto il discorso. La fede è strutturalmente la risposta alla rivelazione di Dio. Quindi non si può cogliere pienamente il significato della fede senza prima comprendere cosa si intende per rivelazione. Perciò il documento indica la Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei verbum, del Concilio Ecumenico Vaticano II, come il riferimento dogmatico più recente e fondamentale su questo tema (cfr. n. 6, nota 4). Dio si rivela in due modi: attraverso la creazione, le “cose”, ed è la Rivelazione naturale, e attraverso la parola, cioè attraverso i profeti e, ultimamente, attraverso la sua Parola eterna fatta carne, ed è la Rivelazione soprannaturale (6). Nel primo modo di rivelazione Dio è colto con il lume naturale della ragione per mezzo delle cose create e quindi, soprattutto, per mezzo di quella realtà creata, di cui l’uomo può fare esperienza, perché più di tutte riflette la realtà di Dio: l’uomo stesso e, in particolare, l’anima umana, il suo “sé” profondo. Ma in questo modo Dio può essere conosciuto solo come causa prima del cosmo e del proprio io. Nel secondo modo, che è quello della rivelazione profetica, Dio si rivela parlando “agli uomini come ad amici” (7), per mezzo della parola, dunque nella sua realtà personale, che è trinitaria, e il rapporto che gratuitamente intrattiene è un rapporto dialogico. Allora emergono differenze strutturali: da una parte, un rapporto con Dio frutto integralmente dello sforzo personale, che perviene, di per sé, non direttamente a una Persona, quanto piuttosto a un Principio ultimo del cosmo e di sé stessi; dall’altra, un rapporto che si fonda su un dono — cioè sulla grazia — e sfocia in una comunione personale e trinitaria. Quindi, se si deve riconoscere una preghiera e anche una mistica autentiche al di fuori dell’ambito della Chiesa e dello stesso cristianesimo, bisogna però porle, di per sé, nel contesto della Rivelazione naturale o cosmica, tenendo presenti due aspetti: a. la legittimità di un “rientrare in sé stessi”, alla ricerca dell’immagine di Dio che portiamo in noi; e b. il rischio di scambiare l’immagine per la realtà, deviando nel panteismo, e quello di rimanere in sé stessi, risolvendo la preghiera non nell’amore, che è “esodo” da sé, ma nell’egoismo. E si tratta di un egoismo tanto più pericoloso, quanto più è spiritualmente sublimato e tecnicamente raffinato. Così, di fatto, il discorso sulla religiosità naturale deve sempre tenere presente la realtà del peccato originale e attuale, con il conseguente indebolimento dell’intelletto, proclive perciò alla confusione e all’errore, nonché l’azione del mysterium iniquitatis all’opera nella storia (8). Anche in questo caso si tratta di un mistero a dimensione personale, perché è il mistero di come persone — Satana e gli angeli malvagi —, anche se in un’attribuzione analogica di questo termine, inducono al male altre persone freddamente e consapevolmente, con suggerimenti che possono essere anche “geniali” (9). Queste considerazioni potrebbero forse aiutare a concepire l’”uomo naturale” non più sul modello del deista settecentesco, ma piuttosto su quello dell’uomo religioso e metafisico dell’Occidente ellenico e del mondo orientale. Certamente, il valore dell’intellettualità umana tornerebbe allora a rivestirsi di una dignità diversa rispetto a quella assai pallida della “ragione” — si chiami essa raison oppure Vernunft, sia essa cartesiana oppure kantiana —, a cui ci avevano abituato le elucubrazioni astratte e i baloccamenti sistematici della modernità. Certamente, ancora, le tecniche orientali di meditazione affascinano per il livello di perfezione e di sofisticazione a cui sono giunte (10), ma la preghiera cristiana rappresenta, rispetto a esse, insieme un’alternativa e un superamento: un’alternativa, perché il suo orientamento è in qualche modo opposto, dal momento che essa spinge all’esodo da sé, e soprattutto perché si fonda sulla gratuita iniziativa di Dio; un superamento, perché anch’essa conosce il “rientrare in sé stessi”, ma come tappa e non come termine dell’itinerario spirituale. “Sant’Agostino è, su questo punto, un maestro insigne: se vuoi trovare Dio, dice, abbandona il mondo esteriore e rientra in te stesso. Tuttavia, prosegue, non rimanere in te stesso, ma oltrepassa te stesso, perché tu non sei Dio: egli è più profondo e più grande di te. “Cerco la sua sostanza nella mia anima e non la trovo; ho meditato tuttavia sulla ricerca di Dio e, proteso verso di lui, attraverso le cose create, ho cercato di conoscere le ’perfezioni invisibili di Dio’ (Rm 1, 20)”. “Restare in se stessi”: ecco il vero pericolo. Il grande dottore della chiesa raccomanda di concentrarsi in se stessi, ma anche di trascendere l’io che non è Dio, ma solo una creatura. Dio è “interior intimo meo, et superior summo meo”. Dio infatti è in noi e con noi, ma ci trascende nel suo mistero” (n. 19). La via cristiana rifugge dall’isolamento nel proprio io e “[…] rinvia continuamente all’amore del prossimo, all’azione e alla passione, e proprio così avvicina maggiormente a Dio” (n. 13). Infatti, anche il contemplativo più solitario non è mai isolato, ma collegato profondamente a tutta la Chiesa nel vincolo dell’amore. Allo stesso modo, la via cristiana è pure consapevole di non poter evitare il passaggio obbligato della Croce. La preghiera cristiana non si riduce mai a un metodo per liberarsi dal dolore, o addirittura per “star bene” fisicamente (11), ma è un’apertura all’amore di Dio, a quell’amore che non ha esitato davanti alla morte, e alla morte di Croce. È significativo come questo costituisca ancor oggi una “follia per i pagani” (12): “Se Cristo ha veramente sofferto, allora non può essere [il Salvatore]… Dov’è la salvezza se la gente soffre? Cristo non ha tolto il karma di tutto il popolo”, dice Maharishi Mahesh Yogi, il fondatore di Meditazione Trascendentale (13). Anche il tema della divinizzazione — caro ai Padri greci (cfr. n. 14) — non deve essere inteso come un’esaltazione egolatrica, ma come un ingresso nel circolo dell’amore trinitario. E proprio per questo implica sempre un’alterità. Perciò la creaturalità dell’uomo, che tutte le prospettive non-dualiste e pseudognostiche (14) tendono vanamente a oscurare o a rifiutare, lungi dall’essere un triste limite, si rivela un necessario presupposto della comunione divina: “[…]l’uomo è essenzialmente creatura e tale rimane in eterno, cosicché non sarà mai possibile un assorbimento dell’io umano nell’io divino, neanche nei più alti stati di grazia. Si deve però riconoscere che la persona umana è creata “a immagine e somiglianza” di Dio, e l’archetipo di questa immagine è il Figlio di Dio, nel quale e per il quale siamo stati creati (cf. Col 1, 16). Ora questo archetipo ci svela il più grande e il più bel mistero cristiano: il Figlio è dall’eternità “altro” rispetto al Padre e tuttavia, nello Spirito santo, è “della stessa sostanza”; di conseguenza, il fatto che ci sia un’alterità non è un male, ma piuttosto il massimo dei beni. C’è alterità in Dio stesso, che è una sola natura in tre persone, e c’è alterità tra Dio e la creatura, che sono per natura differenti” (n. 14). Il problema del rapporto fra metodo e contenuto è di particolare importanza, anche per i risvolti che può avere in altri campi. In sintesi, il documento afferma che il metodo non può essere staccato dal contenuto e concepito come neutrale rispetto a ciò che veicola e al contesto culturale in cui nasce (15). In proposito, sembra fare due esempi: quello di un legittimo suggerimento che ci viene dall’Oriente, ma che può essere soddisfatto riandando semplicemente alla nostra tradizione, relativo al ruolo indispensabile di una guida spirituale (cfr. n. 16); e quello di una dottrina che l’antichità cristiana aveva desunto dalla tarda classicità, trasformandola però intimamente, relativa ai tre stadi della vita spirituale (cfr. n. 17). Ne emerge un modello di rapporto fra metodo e contenuto che investe anche altre problematiche: l’inculturazione nelle terre di missione e, in definitiva, tutto il rapporto fra la Chiesa e la cultura moderna, che fu il problema del modernismo. I suggerimenti che vengono dall’esterno devono essere intesi come un rimando a quanto vi è già, anche se magari non se ne ha ancora una piena coscienza. L’assolutezza e la pienezza convengono costitutivamente alla Rivelazione cristiana, in modo tale che rinunciarvi o accettare compromessi su questo punto significa semplicemente staccarsi da essa. Nella Chiesa, intesa come realtà con una dimensione sovraempirica, vi è una tale pienezza derivante dal suo intimo legame con Cristo — “nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza” (16) —, che ogni apporto esterno non può essere inteso come un’addizione, ma piuttosto come un rimando alla propria ricchezza. Perciò l’integrazione ha come fermo presupposto l’identità della fede e la sua vitalità prorompente, capace di assimilare ciò con cui viene a contatto, senza porsi sincretisticamente “accanto” a esso o addirittura in un rapporto di subordinazione, che la ridurrebbe al ruolo di cornice “essoterica”. Chi ha avuto la grazia di una certa familiarità con gli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio di Loyola non può che constatare con gioia come il documento ricorra frequentemente a essi (cfr. nn. 18, 20, 26 e nota 31, e 27 e nota 33) nell’esemplificare le fonti della tradizione spirituale cristiana. Si tratta di una conferma di come il Magistero continui a considerarli una guida sicura della vita spirituale, tale da rispondere adeguatamente alle sfide del nostro tempo. Perché anche gli uomini del nostro tempo possano “sentire e gustare le cose internamente” (17) ed essere condotti, rispondendo generosamente alla “chiamata del Re” (18) e della sua santissima Madre, mai separabile da Lui, a realizzare quell’incontro della loro libertà finita con l’infinita libertà del Dio unitrino in cui risiede essenzialmente l’autentica preghiera (19). Pietro Cantoni *** (1) Congregatio pro Doctrina Fidei, Epistula ad totius Catholicae Ecclesiae Episcopos de quibusdam rationibus christianae meditationis, del 15-10-1989, in L’Osservatore Romano, 15-12-1989. La traduzione utilizzata è quella comparsa sul medesimo quotidiano, lo stesso giorno, in inserto tabloid, con il titolo Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della meditazione cristiana. I riferimenti al documento contenuti nel testo rimandano alla suddivisione in paragrafi. (2) Alla quantità, a detta di esperti, non corrisponde però sempre la qualità: per esempio, un missionario verbita — perito al Concilio Ecumenico Vaticano II e, per oltre trent’anni, professore di filosofia e scienza comparata delle religioni in Giappone — afferma che “più del novanta per cento della letteratura sul tema “Oriente” deve essere catalogata come giornalismo superficiale” (Henri van Straelen S.V.D., Selbstfindung oder Hingabe. Zen und das Licht der christlichen Mystik [Autorealizzazione oppure dono. Zen e la luce della mistica cristiana], Kral, Abensberg s. d., ma 1982, p. 7). (3) L’Osservatore Romano, cit. (4) Il card. Joseph Ratzinger fa esplicitamente menzione dei gruppi di preghiera: “[…] stava a cuore alla Congregazione anche offrire un aiuto ai numerosi gruppi di preghiera, che ovunque nel mondo si vanno formando” (ibidem). (5) Non a caso sant’Ignazio di Loyola pone, a conclusione dei metodi principali di preghiera proposti nei suoi Esercizi Spirituali, come culmine e frutto, appunto il colloquio: cfr. in particolare il n. 54. (6) Cfr. il mio La Chiesa cattolica e lo spiritismo, in Massimo Introvigne (a cura di), Lo spiritismo, Elle Di Ci, Leumann (TO) 1989, pp. 227-232. (7) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei verbum, n. 2. (8) Cfr. 2 Ts. 2, 7. (9) “Si può dire — osserva Hans Urs von Balthasar — che la religiosità orientale è l’ultima e più raffinata espressione del tentativo dell’uomo naturalmente religioso, per sfuggire alla prigione di questo mondo limitato e alla sua esistenza terrena nello spazio e nel tempo, che non ha evidentemente nulla di divino, al fine — come dice Paolo — “di cercare Dio se potessero, forse, avvicinarsi a lui e trovarlo” (At 17, 27). Questo desiderio naturale di evadere dal finito, nella speranza di raggiungere l’infinito, è così profondamente ancorato nel cuore umano, che esso è “inquieto finché non riposa in Te”, secondo sant’Agostino. Non si deve dunque — come fa Karl Barth — accusarlo subito di titanismo e di costruzione di torre di Babele, di impresa presuntuosa per prendere d’assalto il cielo con i propri mezzi e impadronirsi “dell’esperienza” del “divino” e dell’assoluto. Senza dubbio questo peccato originale e personale di titanismo verrà presto a sovrapporsi alla mistica scalata del trono di Dio e sarà molto difficile, in concreto, separare le due sfere: quello che in un tale metodo proviene dal semplice desiderio di Dio nella creatura e quello che è impazienza e presunzione di voler cogliere da sé il frutto dell’albero della vita. In queste invenzioni culturali dell’uomo nulla è, a priori, del tutto puro da questo eccesso di orgoglio (Hybris); anche la diffidenza dei Padri della Chiesa nei riguardi di tutta la cultura non cristiana era giustificata, in particolare quando si trattava di assumere alcuni elementi” (Una meditazione… piuttosto un tradimento, in AA. VV., Dalle sponde del Gange alle rive del Giordano, trad. it., Àncora, Milano 1986, p. 179). Sugli aspetti “oscuri” della meditazione non cristiana, cfr. ibid., pp. 54-56, 210-212, 216-217, 227 e, soprattutto, la testimonianza di R. C. Zaehner — indologo, islamologo e iranologo di fama internazionale, approdato alla fede proprio attraverso i suoi studi di orientalistica — riportata da Louis Bouyer: “Quanto allo zen e alla sua diffusione, in particolare tra i cristiani, egli non esitava a denunciarlo nella maniera più formale, basandosi su esperienze studiate da vicino, come una vera impresa diabolica. […] “[…] Si verifica una specie di temibile magia interiore che si sforza, con abilità diabolica, di produrre delle illusioni di esperienze mistiche di ogni ordine, e che innegabilmente vi riesce. Ma la contropartita stessa di questi successi è lo sviluppo di un orgoglio dell’io, o piuttosto del super io, che rischia di farne, e frequentemente ne fa, la vittima senza difesa di ossessioni e poi di possessi in cui, egli mi diceva, la realtà di Satana sembrava affermarsi come non mai” (ibid., p. 175). (10) Ci si può chiedere se lo sforzo nella conoscenza del “sé” in vista di una autorealizzazione, che caratterizza la cultura orientale, non sia il corrispondente dello sforzo di conoscenza tecnica del mondo materiale per una sua trasformazione e un suo asservimento all’uomo, che costituisce, con il nome di progresso scientifico, l’orgoglio dell’Occidente moderno: cfr. Louis Gardet e Olivier Lacombe, L’esperienza del sé. Studio di mistica comparata, trad. it. Massimo, Milano 1988, pp. 6-7. (11) Anche se gli effetti terapeutici della preghiera sono innegabili: cfr. Benito Goya O.C.D., Importanza psicologica dell’ascolto integrale, in Rivista di vita spirituale, anno XLIII, n. 4-5, luglio-ottobre 1989, pp. 439-440. (12) 1 Cor. 1, 23. (13) Cit. in AA. VV., Dalle sponde del Gange alle rive del Giordano, cit., p. 217; sul movimento Meditazione Trascendentale, cfr. M. Introvigne, Le nuove Religioni, SugarCo, Milano 1989, pp. 314-315. (14) Da segnalare la comparsa — forse per la prima volta — in un documento del Magistero, del termine pseudognosi, evidentemente per sottolineare come la giusta esigenza di un sapere profondo ed “esperienziale” si trovi solo superficialmente soddisfatta in tutte quelle prospettive che vogliono basarsi in modo esclusivo sulla “conoscenza”, mentre lo è nella prospettiva della fede. Infatti, la fede è la vera gnosi. (15) Klaus M. Becker vede nella facilità di considerare il metodo come qualcosa di puramente “formale”, nel senso di contenutisticamente “vuoto”, un tributo indebitamente pagato alla filosofia kantiana: “Ritengo sia assai problematica l’assunzione di determinate tecniche psicosomatiche, come si ritrovano nel buddismo, nell’induismo e nel taoismo. […] Si obietterà forse che si tratta soltanto di un metodo, e non di un concreto contenuto spirituale, anche perché tali metodi cercano proprio il vuoto di contenuto. […] La dialettica di forma e contenuto potrà anche avere una funzione in determinati schemi mentali, come appunto nel pensiero di Kant. Io non condivido questo schema. E non so neppure perché un tale schema deve avere per noi un valore così straordinario e aprioristico. Già nel diciannovesimo secolo i Papi avevano definito la filosofia di Kant la radice di tutti gli errori moderni. Più verosimile, per lo meno, è la tesi secondo cui la forma, e quindi anche il metodo, è la realizzazione di un contenuto” (cit. in H. van Straelen S.V.D., op. cit., p. 39). (16) Col. 2, 3. (17) Sant’Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, n. 2. (18) Ibid., n. 91. (19) “Nella chiesa la legittima ricerca di nuovi metodi di meditazione dovrà sempre tener conto che a una preghiera autenticamente cristiana è essenziale l’incontro di due libertà, quella infinita di Dio con quella finita dell’uomo” (n. 3); cfr. sant’Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, n. 234. |