La fede: sacrificio ragionevole
Rm 12, 1: “Obsecro itaque vos, fratres, per misericordiam Dei, ut exhibeatis corpora vestra hostiam viventem, sanctam, Deo placentem, rationabile obsequium vestrum…“
di P. Tomas Tyn O.P.
La vita secondo la fede è un sacrificio a Dio e più ancora la fede stessa è sacrificio concernente addirittura la parte più nobile dell’uomo, la sua intellettualità. Eppure, se è vero che, nel credere, la ragione umana si piega all’infinita, divina, Verità compiendo un ossequio che scaturisce dalla ragione e, realizzandosi sotto la sua guida, merita di essere chiamato “ragionevole”, tale ossequio non comporta per nulla l’annientamento dell’umano intelletto, ma ben al contrario la sua somma e nobilissima elevazione. La ragione, aderendo alla Rivelazione, non diventa meno, ma più che mai ragionevole. Pensare che, per acquistare la fede, occorre rinunciare alla ragione, è cattiva teologia ‘ sebbene molto diffusa nella modernità segnata dal programma kantiano di “limitare la ragione per far spazio alla fede”. Queste parole che leggiamo senza battere un ciglio, con ingenua noncuranza, allarmerebbero i nostri antenati medievali come vere e proprie “bestemmie ereticali”. La fede è obbedienza, non annullamento dell’intelletto (cf. Rm 1,5) e la sottomissione non è certo abbrutimento a meno che non si parta dal presupposto alquanto pessimistico che il mondo alla pari della società è governato dal puro arbitrio e da vicendevoli sopraffazioni. La fede può essere, si, “distruzione di ragionamenti” (cf. 2 Co 10, 5), ma solo di ragionamenti sragionanti, quelli “che si levano contro la conoscenza di Dio” e per conseguenza non sono veri. Il vero non contraddice il vero, il vero soprannaturale della fede non può essere smentito da quello naturale della ragione.
Tuttora, sebbene non vada certo per la maggiore essere apertamente cattolici, è ancora un po’ di cattivo gusto essere francamente atei. Si sente allora dire “io sono credente, ma a modo mio”. Se già la religione, ch’è connaturale all’uomo, può essere plurima solo secondo le umane opinioni, mentre è unica nella sua obiettiva verità, quanto più sarà sottratta all’arbitrio delle scelte umane, la fede, ch’è religione divina, connaturale a Dio solo, soprannaturale riguardo ad ogni creatura! I pagani avevano qualche sano istinto naturale e perciò erano (spesso fin troppo) religiosi, ma non avevano ancora la fede. La religione è una dimensione naturale dell’anima, la fede è dono gratuito di Dio. Gli atei moderni ci provano, con strani contorcimenti di animo, ad essere “indifferenti” rispetto a Dio senza mai riuscirci, perché la natura è più forte delle loro velleità. Per non credere invece basta deliberatamente resistere alla divina grazia.
La fede è una conoscenza intellettiva e precisamente una conoscenza di Dio nella Sua Essenza inaccessibile ad ogni intelletto creato o creabile. Credere significa conoscere Dio come Dio solo si conosce, è un entrare nel segreto intimo della Mente divina. Infatti, “per alcuni effetti della Divinità l’uomo è aiutato a tendere nel godimento divino” (S. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, 11-11, 1, c.). Dio ci vuole beati non solo della nostra, ma della Sua, divina ed infinita, beatitudine e il primo passo che facciamo in quella direzione è appunto quello della fede.
Ciò che si crede in ogni proposizione di fede è l’Unico Dio, Prima Verità, e tutto ciò che di non divino entra nella fede ne fa parte solo in ordine a Dio. Con tutto ciò le formule dogmatiche (tanto deprecate in ogni salotto che si rispetti) rimangono indispensabili, perché solo tramite esse avviciniamo il mistero. Dato poi che il falso non può far parte del vero né il male del bene, nella fede tutto è vero, perché essa tutto vede alla luce dell’infinito Essere e dell’infinito Intelligibile.
L’oggetto della fede non è però “visto” né “saputo” dall’intelletto umano. La verità divina non è adeguatamente afferrabile dalla concettualità umana. L’eccesso della divina intelligibilità acceca gli occhi deboli della mente creata, un effetto, questo, che i mistici descrivono come “caligine” o “tenebra” della fede.
L’atto interiore del credere consiste in un “riflettere con assenso” (cum assensione cogitare). La fede implica da un lato una ferma adesione alla verità e così differisce dall’opinione (timore che il contrario sia vero), sospetto (beve probabilità) e dubbio (indecisione della ragione). Essa differisce però anche della scienza, perché la sua certezza, pur essendo dalla ragione, non è però solo intellettualmente fondata, ma deriva dalla volontà mossa a sua volta dalla divina grazia.
La fede si presenta allora come una certezza che tuttavia non giunge alla chiara visione del suo oggetto. Affermare che il credente deve rinunciare ad ogni certezza per metterla in questione nell’ambito di un fraterno dialogo, dire che non si deve bloccare il dinamismo della continua ricerca con verità fisse ed acquisite una volta per sempre ed altri discorsi simili porta a dei luoghi comuni non solo oltremodo banali, ma che hanno altresì il gravissimo torto di non essere per nulla veri. Sarà anche intolleranza, ma S. Tommaso, come ogni buon cattolico, è convinto che la fede è una certezza e il credere un dovere morale indispensabile per l’eterna salvezza. La fede non poggia su motivi personali del tipo “mi butto nel buio, perché me n’è venuta la voglia” – né tradizionali sullo stile “sono credente, perché lo è la mia famiglia” né infine folcloristici – “credere è un valore positivo, perché fa parte del patrimonio culturale del nostro popolo” – come per dire che, alla fine dei conti, anche i musei hanno il loro posto nella vita. Per giungere alla visione di Dio l’uomo non può fare a meno di lasciarsi condurre come un discente da Dio Docente per le vie della rivelazione e della fede.
Di chi, senza colpa, non poté udire la predicazione del Vangelo si incaricherà Dio stesso. Certo, nemmeno costoro si salvano senza la fede, almeno implicita e misteriosamente comunicata dall’alto. Epperò, più che pensare a come Dio salvi l’umanità, i Cristiani dei paesi largamente evangelizzati dovrebbero meditare piuttosto sulla loro parte del dovere. Che ne sarà di noi, se rifiutiamo la fede così facilmente accessibile? Quali responsabilità abbiamo dinanzi ad una società più pagana che ci sia, ovvero pagana dopo essere stata una volta cristiana? Basta che ci compiacciamo di essere “pochi, ma buoni” o dobbiamo fare nostro il mandato di “andare ed ammaestrare tutte le genti”? Dio vuole che siamo democratici non in cose da poco come la politica, ma in ciò, che veramente conta qual è la salvezza dell’anima. Questa sì che è una possibilità, anzi, un dovere, uguale per tutti.
Dato l’intervento della volontà, e per conseguenza della libertà, nell’atto di fede, questo risulta certamente meritorio a condizione di rivestirsi della carità. La fede si compie nel conoscere il mistero di Dio, il che può verificarsi anche senza amare Dio al di sopra di tutto. Anche un peccatore può e deve credere, ma la carità c’è solo nei giusti. Spesso i semplici con fede meno esplicita, ma più “affettuosa”, guadagnano più meriti dei dotti che con freddezza di cuore allontanano l’intelletto troppo compiaciuto dì sé dalla sottomissione alla Rivelazione. Se infatti la ragìone pretendesse di sostituirsi alla volontà di credere, ne sminuirebbe il merito, se essa al contrario esplora il mistero della fede cui la volontà ha già prestato la sua ubbidiente ed amorosa adesione, ciò diventa segno di una scelta più determinata e quindi anche di un merito più grande.
“La fede è fondamento (sostanza) delle cose che si sperano e prova (argomento) di quelle che non si vedono” [Eb, 11, 1 ]. Quel che si spera non si possiede ancora, ma in qualche misura può già essere iniziato in chi ha speranza, Così la volontà del credente è già protesa alla divina promessa dì cui non si ha ancora il pieno adempimento, ma la si possiede nel suo inizio, dato che la fede è il primo passo che conduce all’eterna beatitudine. L’intelletto credente non vede ancora il suo oggetto, ma vi aderisce con certezza convinto, più ancora che se si trattasse di una prova rigorosa, dall’autorità di Dio che ci svela il Suo mistero.
Nella fede l’intelletto aderisce alla verità rivelata mosso dalla volontà che già ama il mistero del Dio che si rivela, cosicché la virtù della fede suppone una buona disposizione sia nell’intelletto che nella volontà. Eppure immediatamente la fede trova il suo soggetto proprio nella facoltà intellettiva, perché il suo oggetto non è un bene, ma piuttosto un vero. L’atto di fede è dunque ordinabile, al di là del suo oggetto proprio, ch’è il vero divino, a quel bene soprannaturale che è ancora Dio, ma questa volta Dio-Sommo Bene in sé, oggetto della carità. Così la carità risulta “forma” della fede e la virtù che, ispirando la fede, la connette con il fine ultimo della vita umana. Da sola, checché ne dica Lutero, la fede non giustifica. Anche il peccatore che non ama Dio può e deve credere ed otterrà il perdono solo quando la sua fede si rivestirà di nuovo del soprannaturale amore.
Quanto spesso si sente dire “non ha importanza quel che uno crede, importante è solo che gli uomini sì amino tra loro”. L’amore senza fede e senza verità – ecco, secondo san Pio X che in quella materia era un intenditore, là quintessenza del modernismo. Dì fatto non è possibile amare il bene soprannaturale, se non si ha la previa conoscenza, altrettanto soprannaturale, del bene suddetto. In altre parole, se è vero che la carità oltrepassa la fede, sempre rimane che, senza la fede, almeno rudimentale, ma vera e divinamente rivelata, si ha semmai una presunzione di carità, ma non la carità secundum veritatem. Inutile aggiungere che la filantropia naturale, anche se per assurdo fosse spinta fino all’eroismo, a nulla gioverebbe, perché non sarebbe all’altezza del soprannaturale e quindi non meriterebbe davanti a Dio, sebbene sia per il resto umanamente lodevolissima. E’ facile allora capire che cosa pensa la dottrina autenticamente cattolica di altri luoghi comuni come “è un ateo, sì, ma anche una gran brava persona” (sarà, certo, brava persona, in tutto, ma disgraziatamente non proprio nel suo ateismo) o meglio ancora, perché più personale, “io in Chiesa non ci vado, ma con tutto ciò sono molto più onesto di tanti bigotti” (prova inconfondibile che la razza dei farisei è difficile a morire), oppure “non sono un praticante, ma ho una mia onestà” (e c’è infatti da temere che quella “onestà” sia un po’ troppo a misura delle vedute personali dell’ego stimatissimo).
La fede è più certa della prudenza e dell’arte, perché conosce l’eterno e l’assolutamente necessario, non il fattibile contingente. Per la causa della sua certezza, ch’è Dio, essa è più certa anche della stessa scienza. Per la debolezza dell’intelletto umano invece avviene che essa sia troppo elevata e quindi meno connaturale rispetto alla mente creata e persino legata all’esperienza sensibile qual è la mente umana. La Santa Chiesa, convinta della ragionevolezza e nel contempo della soprannaturale mistericità della fede, insegna che, se la ragione non può certo dimostrare i dogmi nei loro rispettivi contenuti, essa però può e deve accertarsi della loro credibilità. Tra le proposizioni della morale lassista condannate dal papa Innocenzo XI (1679) leggiamo anche questa: “L’assenso della fede soprannaturale e salutare può aver luogo assieme alla nozione solo probabile della rivelazione, anzi, assieme al timore che Dio non abbia parlato” [DS 2121].
Il Magistero del Concilio ecumenico Vaticano I (cf. DS 3009 ss.) sottolinea la dipendenza della ragione creata dall’uomo da quella increata e creatrice di Dio e per conseguenza H dovere di prestare l’ossequio dell’intelletto e della volontà a Dio che si rivela. La fede, inizio dell’umana salvezza, costituisce una virtù essenzialmente soprannaturale, per mezzo della quale, con l’aiuto della divina grazia, crediamo essere veri i misteri rivelati da Dio. Questo non per la intrinseca verità delle cose intelligibile alla luce naturale della ragione, ma per l’autorità del Dio rivelante che non può né ingannarsi né ingannare. Epperò, per rendere ragionevole l’ossequio della nostra fede, Iddio volle aggiungere all’ispirazione interiore dello Spirito Santo degli argomenti convincenti della sua rivelazione, dei fatti divini, anzitutto i miracoli e le profezie, che dimostrano abbondantemente (luculenter) l’onnipotenza e l’infinita scienza di Dio, così da costituire segni certi della rivelazione divina, adatti all’intelligenza di ogni uomo.
E cosa risaputa che dinanzi ai prodigi del Signore Gesù la folla si spaccava in due: alcuni dicevano che un grande profeta era in mezzo a loro e che Dio ha visitato il suo popolo, altri invece bestemmiavano accusando il Salvatore di scacciare i demòni a nome di Beelzebub, il capo dei demòni. Vi sono alcune cose, prodigiose e nel contempo buone e sante, che solo Dio può fare e che il demònio, benché possa mimare delle meschine imitazioni di segni soprannaturali (ì maghi del faraone riescono a produrre dei serpenti, ma il serpente di Mosè se li mangia tutti), non farebbe mai a meno di contraddire se stesso e quella triste intelligenza non è capace di nessuna incoerenza logica. Nella natura appaiono dunque dei segni di una potenza che oltrepassa la natura e che, essendo infinita e inoltre moralmente retta, non può che derivare da Dio. Tutto ciò può anche andare bene, si dirà, ma come c’entriamo noi che dei miracoli non ne abbiamo visti? Ebbene, beati coloro che, pur non avendo visto, crederanno. La loro fede non sarà senza ragionevole appoggio, perché ogni mente priva di pregiudizi farà la giustizia accordando ai Vangeli un’assoluta attendibilità storica. Così, quando san Giovanni ci racconta della risurrezione di Lazzaro, siamo noi stessi che lo vediamo uscire dal sepolcro e quando ci dice che entrò nella tomba vuota di Gesù e vide e credette, anche noi crediamo, ma prima ancora assieme a lui vediamo le bende per terra e il sudario piegato messo in disparte. Il fatto della risurrezione è un fatto storicamente e perciò razionalmente accertabile, sempre misterioso invece ne rimane il profondo significato nell’economia della salvezza.
Ma non si raccontano dei miracoli anche in altre religioni? Sì e come, ma l’intelligenza umana è in grado di discernere tra il vero e il falso, tra la realtà obiettiva e le invenzioni fantastiche. D’altronde un potente motivo di credibilità è la stessa connessione dei misteri cristiani tra loro, lo splendore razionale che sprigiona da sé l’analogia della fede e che non si trova in nessun’altra religione puramente naturale ed umana. Questi segni e prodigi però andavano forse bene per quei sempliciotti che erano i nostri rozzi antenati, noi uomini critici possiamo ancora ritenerli attendibili? Possiamo e dobbiamo, essi infatti sono argomenti che dimostrano il fatto della rivelazione abbondantemente adattandosi ad ogni umano intelletto senza differenze (dovute a quel razzismo diacronico che condanna il passato a nome del magico progresso) tra intelletti più o meno aggiornati. L’incredulità ha trovato un nuovo mito, quello della demitizzazione. I farisei accusavano Gesù di essere preda di Beelzebùb, il criticismo bultmanniano lo accusa di essere preda di un mito. Le due invettive in fondo si equivalgono, solo che quella moderna, più sofisticata, è per ciò stesso anche più diabolica.
La ragione non dimostra allora la fede il cui atto rimane sempre libero, tant’è vero che persino testimoni oculari dei prodigi di Cristo ne rifiutavano la missione divina, ma essa è in grado di accertarsi che credere è molto ragionevole, perché la fede è molto credibile. Per credere basta sottomettere la ragione a Dio, per non credere bisogna farle violenza piegandola su se stessa. La ragione dei credenti è certo più ubbidiente, ma quella degli increduli è infinitamente più sacrificata e lo è per giunta sull’altare più profano che ci sia – quello dell’adorazione che l’uomo dà a se stesso.
LE DIFFICILI VIE DELL’ETICA.
Nei risultati del Convegno sull’intolleranza (che riguardano anzitutto la tolleranza in quanto la negazione risulta pienamente conoscibile solo alla luce dell’affermazione) è sorprendente notare che accenni etici, di principio, non mancano, certo, eppure sono ben lontani dal ricevere quel primato che spetta loro di diritto dinanzi alla. preponderanza di trattati per così dire “applicativi”. Tutto ciò sarà probabilmente da addebitare a quello spirito pragmatico che, da Galileo in poi, non ama “tentare le essenze”, eppure quella della tolleranza è una questione soprattutto di principio, una problematica squisitamente etica, anzi, metafisica, in quanto riguarda l’agire umano e le sue motivazioni. Ci sia permesso dunque di supplire un po’ a tale mancanza osando sollevare anzitutto la domanda del “che cosa è” prima di giungere a quelle altre del “come si usa” e “dove si applica”. In latino il verbo “tolerare”, suscettibile di molte sfumature, può essere globalmente tradotto con il termine “sopportare”. Sembra fuori dubbio che ognuno di noi abbia molte occasioni di sopportare nella sua vita certe circostanze generalmente dovute ad altre persone con cui viviamo, che incontriamo, ecc. Portare pazienza appartiene alle esigenze della vita di tutti i giorni e, se per convincersene non bastasse il buon senso. l’autorità delle stesse divine Scritture è assai abbondante a questo riguardo.
La pazienza inoltre, quella virtù che per eccellenza consiste nel sopportare, viene indicata come effetto spontaneo della carità, della comunione dell’uomo con Dio stesso. Detto ciò, subito si suole elevare l’accusa dettata da superficialità se viene da ambienti che si vantano del proprio laicismo, ma ulteriormente arricchita di autolesionismo se proviene da chi continua a definirsi cristiano pur battendo il petto non già a se stesso, ma preferibilmente alla Santa Chiesa di Dio: “Ecco la purezza della dottrina evangelica che la Chiesa-istituzione ha rinnegato assumendo atteggiamenti intolleranti lungo il corso della sua storia!”. Tali sempliciotti dimenticano che lo stesso apostolo che canta l’inno alla carità, che è paziente, prorompe in condanne decisamente “inquisitoriali” davanti ai pericoli di eresia o di immoralità nella comunità cristiana. Dato poi che, nonostante un carattere decisamente energico, l’irrazionalità rientra nelle caratteristiche di San Paolo, forse sarebbe il caso di astenersi da accuse affrettate concedendosi prima una salutare pausa di riflessione.
Come mai la tolleranza può tollerare accanto a sé l’intolleranza? A parte l’autorità scritturistica, la risposta starà forse nella natura della tolleranza stessa. Dato che l’agire umano riceve la sua determinazione dall’oggetto (fine), occorre chiedersi quale sia la materia in cui si esercita la suddetta sopportazione. Ciò che si tollera non è un bene, un valore autentico, bensì un male, un qualcosa di pesante e di insopportabile in sé. Elevare alle stelle la tolleranza e condannare altrettanto perentoriamente la intolleranza suppone l’oblio dell’oggetto, spiegabile, certo, nell’attuale clima soggettivistico, ma imperdonabile in chiunque voglia affrontare la questione con spirito autenticamente critico.
Proviamo anzitutto ad esaminare l’atteggiamento, la forma mentis, dell’uomo tollerante a livello individuale. Come abbiamo visto, si tratta di pazienza e la pazienza è “la virtù dei forti”, perché appartiene alla virtù cardinale della fortezza. Essere moralmente forti significa non abbandonare il bene onesto a causa di un timore riguardante qualche danno nell’ambito dei beni utili. Tra l’altro si tratta anche di conservare la pace d’animo dinanzi a dispiaceri di ogni tipo il che richiede una certa grandezza spirituale (magnanimità) che non bada alle piccole faccende più o meno piacevoli dell’esistenza, ma le supera largamente attendendo unicamente a qualche grande e nobile scopo che un uomo si propone di realizzare nella sua vita. Non sorprende allora l’aggancio paolino della pazienza alla carità se si pensa che quest’ultima unisce l’anima a Dio, fine ultimo soprannaturale della vita umana. Similmente è agevole scorgere nell'”anima paziente o tollerante” un certo distacco da desideri e piaceri più immediati, una certa disposizione “liberale” dell’anima che conferisce all’uomo che la possiede un’indefinibile, ma spiritualmente intuibile, grandezza e sublimità interiore. Ma il tollerante non è solo libero in se stesso, riesce anche a circondare di un clima di libertà H suo prossimo, è disposto alla benevolenza, perché possiede il senso della libertà altrui il che altro non è se non H rispetto, condizione e compimento di ogni buona amicizia.
Sembra facile allora, basta essere tolleranti e il gioco è fatto. Ma, come generalmente accade, anche qui la via più ovvia e semplice conduce, se non alla perdizione, almeno all’inganno. Di fatto il magnanimo non insiste sulle piccolezze, cioè sulla maggior parte delle vicende umane, ma risulta inamovibile su quelle poche cose che sole contano per lui. Il benevolo rispetta certo l’amico, ma rispetta più ancora quel bene superiore che, se condiviso, si pone a fondamento dell’amicizia stessa. Paradossalmente si potrebbe dire che l’intolleranza riguardo ad alcune realtà basilari condiziona e rende possibile proprio la tolleranza autentica riguardo a tante altre realtà derivate e secondarie. Ciò risulta più chiaro se si fa attenzione all’essenza stessa della libertà che consiste nel dominio delle proprie scelte. Scegliere infatti equivale a disporre dei mezzi al fine e proprio perché chi sceglie vuole determinatamente un fine, è in grado di sottomettergli i mezzi che conducono al suo raggiungimento. Qualcosa di analogo si verifica anche nell’intelligenza: solo l’evidenza dei principi permette di raggiungere molteplici conclusioni. In entrambi i casi, quello intellettuale e quello morale, la cosiddetta “apertura mentale” poggia saldamente su una decisa adesione al vero e al bene. Al contrario menti “aperte” a livello di principi risultano alquanto ottuse, grette, litigiose ecc., sul piano di conseguenze pratiche. Porre poi il limite alla libertà, dopo aver “liberato” l’uomo da Dio, nella persona altrui, come ci si perita l’illuminismo francese, non dà nessuna garanzia che la libertà suddetta non si trasformi in “furia, distruttrice” in quanto non basta dichiarare che il prossimo è da rispettare, occorre anche farne valere il motivo e la norma morale regolatrice. Di fatto, di quale disposizione meschina e tirannica sia l’anima dei cosiddetti “libertini”, lo sa chiunque li abbia minimamente esaminati dal punto di vista psicologico. La libertà correttamente intesa, posta cioè nell’ambito dei mezzi e radicata nella adesione ai fini, non solo non esclude, ma richiede ed esige l’obbligo di migliorare se stessi: “Felix necessitas est quae in meliora compellit” (S. Agostino). Perciò non si vede quale utilità in vista della tolleranza vera potrebbe arrecare alla Chiesa l’abbandono “del concetto tradizionale agostiniano cosiddetto “positivo” della libertà”, del quale si vuole negare l’appartenenza al corpo dogmatico della Chiesa, mentre di fatto affonda le sue radici nelle stesse divine Scritture.
La tolleranza o sopportazione del male non può essere nulla di assoluto, dato che il male è talvolta, certo, da subire, ma altre volte è da aggredire e da togliere di mezzo. Eccessiva tolleranza diventa permissivismo, come un’esagerata intolleranza porta alla tirannide. Entrambi gli estremi poi sono più vicini tra loro di quanto comunemente non si pensi. La soluzione, attenta a salvare il mondo ossia la natura umana, dovrà dunque porsi non semplicemente al di là, ma al di sopra della alternativa “tolleranza-intolleranza”, impresa che sarà ben riuscita solo se si saprà relativizzare quest’ultimo binomio, cosa tuttavia tutt’altro che facile in una mentalità che, dimentica degli oggetti, bada solo ad atteggiamenti soggettivi. Di fatto la tolleranza si relativizza solo se la si restringe all’ambito che le spetta, quello cioè del soggetto, mentre l’intolleranza al contrario viene incontro alle leggi e alle esigenze dell’oggetto.
Ancora una volta occorre guardare al principio stesso dell’agire umano. Di nuovo appare il rapporto soggetto (azione libera) -oggetto (bene morale che le è dovuto). In ciò sta l’essenza stessa della moralità. In una simile relazione l’oggetto è (moralmente) dovuto e quindi crea attorno a sé come un’esigenza di intolleranza, al contrario l’azione procedente dal soggetto operante è (psicologicamente parlando) libera creando attorno a sé come un’atmosfera di postulata tolleranza.
Nell’etica dunque libertà e dovere si appartengono a vicenda e similmente la tolleranza richiesta dal soggetto e limitata ad esso non potrà togliere di mezzo quella lodevole intolleranza con cui il dover essere richiama perentoriamente i suoi diritti. Da ciò appare come neppure tra la relatività della tolleranza e quella dell’intolleranza vige perfetta parità, infatti l’oggetto si costituisce come misura e regola del soggetto il quale gli si sottomette, dimodoché l’intolleranza, a condizione che si eserciti attorno ad un oggetto buono, sarà a sua volta buona se ulteriormente moderata dalla prudenza, la tolleranza invece si fa avanti dalla parte di un soggetto libero che tuttavia non si è realizzato a dovere: se l’uomo liberamente aderisce al bene, è assurdo parlare di tolleranza, questa si esercita nei riguardi di uno che nell’espressione della sua libertà difetta dal realizzare il valore morale dovuto, così che “tolleranza” sensu stricto è due volte relativa, sia in quanto confinata alla sfera della libertà soggettiva, sia in quanto realmente urgente.
Dato che ogni seria etica sociale parte dal dato incontrovertibile che è l’individuo il fondamento della socialità, la quale dunque non è una specie di sostanza a se stante né tanto meno un mostruoso automaton la cui dialettica passa sopra le nostre teste e, se occorre, sopra i nostri cadaveri, era necessario esaminare l’essenza della tolleranza anzitutto sul piano della singola persona, soggetto di moralità. Ciò non toglie tuttavia che la prima e privilegiata applicazione della tolleranza (o intolleranza) si verifichi proprio sul piano dei complicati rapporti sociali non solo degli individui tra loro, ma anche e soprattutto nella relazione reciproca del singolo alla comunità e viceversa. Tale delicato ordine del singolo cittadino alla moltitudine politica non è dovuto al caso, né a circostanze storiche, né a iniziative contrattuali ma ancora una volta alla natura. immutabile in sé, il che non vuol dire inerte o inattiva, che nell’uomo è sociale in se stessa.
Duplice è il fondamento della tendenza naturale alla vita sociale, uno è legato all’amore detto di concupiscenza e consiste nella necessità di lasciarci aiutare dai nostri simili, l’altro invece scaturisce dalla naturale benevolenza o amicizia che ogni essere umano prova, salvo eccezioni patologiche, per il suo prossimo, quella benevolenza che si compiace nel fare del bene agli altri e, si capisce, con la dovuta discrezione, lo desidera spontaneamente. In tal modo l’unione di molti individui diventa società in virtù di un ordine al fine sociale che è l’amicizia politica, un bene condiviso da tutti, ma anche superiore a tutti, perché mentre è di tutti insieme, non è, essenzialmente di nessuno in particolare, anche se, e ciò è di capitale importanza, per partecipazione torna a vantaggio di ciascuno: si tratta del noto “bonum commune omnium” di tomistica memoria. Siccome poi tale bene, com’è ovvio, supera ogni individuo, il singolo gli è organicamente sottomesso, il che potrebbe far pensare ad una concezione totalitaristica, senonché l’individuo, sottomesso al bene della società tutto, non lo è però totalmente, vi è insomma in lui una dimensione, quella del bene morale appunto, che, lungi dall’essere un mezzo rispetto alla società, è, anzi, il fine di quest’ultima. San Tommaso ama distinguere due tipi di bene comune, uno immanente che è la pace sociale intrinseca al corpo politico, l’altro, più alto ancora, trascendente, che è la piena realizzazione morale dell’uomo, il conseguimento della sua beatitudine, del fine ultimo della sua vita. E’ noto come l’etica sociale della Chiesa poggi sul duplice principio di solidarietà e di sussidiarietà: ebbene, il primo esprime appunto la sottomissione del singolo al bene comune, l’altro esprime invece il rispetto dovuto dalla parte della collettività alle entità minori, e, in ultima analisi, ai singoli individui che vivono in essa. Anche qui è agevole vedere come intolleranza (adesione al bene comune) e tolleranza (rispetto dell’individualità), lungi dall’escludersi a vicenda, si postulino l’un l’altro. E una verità facilmente constatabile che grandi società poggiano su grandi individualità e che grandi uomini trovano il loro ambiente connaturale in società idealmente affascinate che servono con amorevole dedizione.
Ciò che interessa in particolare è appunto quel bene, squisitamente appartenente al “bonum commune omnium”, che abbiamo chiamato con un termine a prima vista enigmatico “società idealmente affascinata”. Si tratta di una realtà delicatissima, che capita alle grandi nazioni in momenti fortunati della loro storia, e che comunemente viene detta “cultura”. L’inflazione attuale di tale parola costituisce un signum mali ominis, perché solo culture decadenti amano parlare troppo di cultura, quelle che l’hanno per così dire “nel sangue” la vivono quasi inavvertitamente. Una lettura anche superficiale di O. Spengler, dal quale si può dissentire su tanti punti, ma al quale non si può onestamente negare il merito di aver affrontato con profonda intuizione ciò che egli stesso chiama “morfologia delle culture”, convince subito d’un fatto basilare: non c’è cultura dove un popolo non condivide un patrimonio spirituale, ideale, e, in ultima analisi, religioso. Può dispiacere ai cosiddetti laici (o laicisti), ma le religioni sono levatrici e nutrici di tutti i popoli culturali. In tali epoche “di grazia” nella vita di una nazione è superfluo e fuorviante parlare in termini di tolleranza-intolleranza: tutti la pensano, in un certo senso ovviamente, intelligentibus pauca, allo stesso modo, ma tutti la pensano così, ed ecco la meraviglia, spontaneamente e senza costrizioni. Le nazioni culturali non sono quindi né intolleranti né tolleranti in se stesse, semmai lo sono rispetto a coloro che non ne fanno parte.
Il rapporto individuo-società è anzitutto questione di giustizia ossia di diritto-dovere. L’uomo è per natura soggetto di diritto, perché in virtù della sua dimensione spirituale emerge dal mondo circostante, non è posseduto, ma possiede. Nel contempo tuttavia il singolo, dominatore delle cose in particolare, è sottomesso, non già alle cose, ma al bene comune e globale della società di cui fa parte. Ciò si esprime chiaramente nel diritto fondamentale alla proprietà privata che San Tommaso concepisce come una facoltà di acquisire e di dispensare, mentre nota che l’uso dei beni è per natura comune, non certo nel senso che tutti usano indiscriminatamente di tutto, ma nel senso che il benessere del singolo deve ordinata a quello della collettività. Similmente il singolo gode in sé di diritti inalienabili che la società non può che approvare, ma nel contempo ha anche precisi doveri nei riguardi di quest’ultima. Ciò vuol dire che ogni società correttamente ordinata consiste in un regime di libertà o, meglio, per non equivocare su un termine assai compromesso, di rispetto dell’individuo, ma anche in un insieme di istituzioni che ordinano il singolo al bene di tutti e qui non c’è da pensare al fisco od altro, perché il bene comune più che nel reddito nazionale consiste in beni di altro genere e di altro livello, in quel patrimonio spirituale che il singolo si trova innanzi e nei riguardi del quale deve avvertire il preciso obbligo di amministrarlo con saggezza e non di sperperarlo con stolto disprezzo.
T. Todorov propone una certa (e molto giusta) asimmetria tra tolleranza ed intolleranza, ma usa purtroppo i termini illuministici di libertà e di uguaglianza affermando la necessità di limitare la prima e di stabilire incondizionatamente la seconda. Non è la libertà da limitare, ma la tolleranza, in quanto libertà è scelta sovrana indirizzata al bene, mentre tolleranza è sopportazione del male ed è chiaro che il dominio del proprio agire è già in sé moderato dall’indirizzo finalistico buono (se così non è, la libertà si realizza psicologicamente, ma fallisce moralmente, e non è più libertà in senso pieno), la sopportazione del male invece ha, sì, dei precisi limiti dettati dalla prudenza politica ed esteriormente imposti. L’uguaglianza poi non è certo quel valore assoluto per il quale la si vorrebbe far passare 0, almeno, c’è bisogno di chiarimento: l’unica uguaglianza vera è quella di tipo metafisicoetico, in quanto la natura umana non ammette variazioni di grado, o c’è o non c’è, ma non c’è più o meno, la quale poi si esprime nell’uguaglianza davanti alla legge, ma la legge positiva, se è, saggia, sa già distinguere all’interno del suo ordinamento tra situazioni sociali diverse, poiché ed è qui il grande inganno dell’illuminismo – sul piano sociale l’uguaglianza è più un anti-valore che un valore, anzi, di essa vale proprio il detto summum jus, summa injuria. Pretendere che tutti siano ugualmente forti, sani, sensibili, intelligenti, raffinati nei gusti ecc. è contro natura e, se imposto per vie di “utopia realizzata”, genera violenza e per di più violenza ingiusta. A livello sociale-politico occorrerebbe piuttosto vedere la duplice linea ascendente di solidarietà del soggetto con il bene comune (valore di obbligo, dovere, fondato sulla giustizia legale) e quella discendente di sussidiarietà che collega la collettività all’individuo da rispettare e da proteggere nel contempo (valore di libertà, diritto, fondato sulla giustizia distributiva). Solo quando i due movimenti entrano in collisione (come accade in tempi di crisi culturale), entra in scena l’intolleranza che richiama il singolo a rispettare il patrimonio spirituale comune e la tolleranza proclamata dinanzi alle istituzioni dalla parte di privati cittadini che non ne condividono più l’impostazione.
I valori trascendentali sono in sé immutabili, eppure l’approccio dell’uomo e delle nazioni ad essi è storico dimodoché ogni cultura esprime temporalmente (e purtroppo anche temporaneamente) un riflesso stupendo dell’oggettivo ed eterno Vero, Bene e Bello. Tali Idee (per usare H linguaggio del grande Platone), senza le quali muoiono le anime e intere popolazioni, prive di veri profeti, periscono, hanno dei diritti che i loro opposti, anche se appoggiati da una massa ormai assiologicamente svincolata, non potranno mai reclamare; e su tali cose, inutile dirlo, non si decide in plebisciti, anzi, il solo tentativo di farlo è prova eloquente che se ne è persa la sensibilità.
Innanzitutto va accuratamente distinta la religione dalla fede: entrambe obbligano moralmente l’uomo nei riguardi di Dio, ma su piani ben diversi, in quanto la prima fa parte della stessa natura umana, l’altra invece è dono soprannaturale e gratuito, ma, si badi bene, comunemente obbligante (seppure in gradi diversi a seconda della consapevolezza più o meno esplicita del dato rivelato) perché universalmente proposto a tutti da Dio in Cristo, Signore e Salvatore nostro. Una società apostata dalla fede perde un bene più sublime, una collettività irreligiosa (empia) perde un bene più fondamentale. Eppure, al di là della doverosa distinzione, sta il fatto che la fede, proprio perché soprannaturale, suppone ed afferra la natura con la sua dimensione religiosa così che, nel nostro contesto culturale, perdere l’una significa perdere l’altra e viceversa. E si faccia ben attenzione – a chi molto è stato dato, sarà richiesto molto di più – un popolo con semplice religione può ancora trovare la fede, ma un popolo che assieme alla sua fede perde anche la sua religione si priva della sua anima stessa.
Dare il dovuto culto a Dio e, a rivelazione avvenuta e proclamata, credere il Suo mistero, costituiscono precisi doveri obiettivi, ma si tratta, com’è ovvio, di doveri di ordine morale, tali cioè che obblighino ad una adesione soggettivamente libera e convinta. E’ inutile voler togliere di mezzo tale imprescindibile diritto di Dio sull’uomo invocando, secondo la solita e per dir la verità un po’ noiosa antifona, i “tempi cambiati” (cambiati poi in che senso? Moralmente certo non in meglio!). E recente la chiara e precisa condanna del card. Ratzinger di quei tentativi che vorrebbero dividere la storia della Chiesa in fantomatiche epoche pre e post-conciliari. In questa luce (che ogni cristiano soprannaturalmente credente avverte col sensus fidei) è per dir poco allucinante (espressione di gergo giornalistico e di scarsa eleganza, ma che qui trova il suo posto giusto) parlare di “mutamenti” nella Chiesa riguardo a temi così basilari quali quelli della Rivelazione e di errori dottrinali invocando persino l’autorità di Giovanni XXIII, come fa G. Alberigo citando un brano del discorso inaugurale del Concilio Ecumenico Vaticano II che basta leggere per esteso (cf. Enchiridion Vaticanum, vol. 1, Bologna – ed. Dehoniane 1976/10, p. 45, n. 55) per accorgersi che il rimpianto Pontefice, mentre auspica formule pastorali, non solo non annulla (e come potrebbe?!) quelle dottrinali, ma esplicitamente esige l’adeguamento di quelle a queste, come pure rinuncia, sì, alle condanne, ma non perché non siano più valide, bensì per il motivo della loro superfluità data la maturità dottrinale dei cristiani (sicché ciò che cambia non è la dottrina, ma le circostanze storiche in cui essa viene annunciata, anche se, su quest’ultimo punto, l’ottimismo di Giovanni XXIII fu “crudelmente deluso” secondo l’espressione dello stesso card. Ratzinger). Lo stesso dicasi dell’esigenza espressa da L. Kolakowski di reinterpretare il principio “extra Ecclesiam nulla salus“, mentre di fatto, quando tale principio era ancora in via di dogmatica elaborazione e fissazione. San Tommaso conosce già l’espressione “Deus non alligavit misericordiam suam sacramentis“. L’obbligo di onorare Dio e di sottomettersi alla sua parola non cambia con il mutare dei tempi e non è dalla storia, bensì dall’essenza delle norme morali che ci si può e ci si deve aspettare un’equa soluzione del problema.
Abbiamo già avuto modo ci constatare che la cultura di un popolo è sempre piena di riferimenti a concezioni decisamente religiose. Così era anche per la Cristianità europea in cui la fede diede l’anima a interi popoli che si riconoscevano fratelli in Cristo formando tra loro una vera e propria res publica christiana. Le eresie sovvertitrici della fede e della cultura, nel contempo (basta pensare alla furia iconoelastica, dei vari settari di estrazione pauperistica) disturbavano, ma non potevano danneggiare tale unità religiosa ed istituzionale. Un mutamento decisivo, un crollo della suddetta coesione spirituale, avvenne solo all’epoca della Riforma dove non più movimenti più o meno esagitati, ma intere nazioni si allontanavano dall’unità cattolica. Ed è allora e solo allora che emerse da un lato l’intolleranza (il tentativo di dare alla società l’uno o l’altro indirizzo religioso), ma dall’altro si fece avanti anche la tolleranza (là dove una consistente minoranza non poteva essere né convertita né sottomessa, essa era appunto “sopportata”). E’ innegabile merito di A. Prosperi aver messo in luce questo stato di cose.
In tali circostanze che perdurano tuttora, anche se l’apostasia nel frattempo ha mietuto ben più vittime, assunto volti ben più mostruosi e il deserto (spirituale) si è accresciuto a dismisura, giova ricordare ancora una volta con N. Bobbio che se la tolleranza ha le sue ragioni, l’intolleranza non è priva delle sue. E infatti fuori dubbio che le istituzioni dello Stato devono educare i cittadini alla virtù (il fatto che vi abbiano rinunciato già da un bel po’ non cambia nulla alla verità di questa asserzione) il che comporta anche spronarli a mantenersi fedeli ai principi religiosi ereditati dai padri. E la Gaudium et spes che imperterrita insegna la necessità, eloquentemente ribadita dal regnante Pontefice nel suo recente discorso a Loreto, di iscrivere la legge di Cristo nelle istituzioni dello Stato. La distinzione del livello naturale da quello soprannaturale esige giustamente che la religione rispetti l’autonomia della vita politica (che appartiene all’ordine morale naturale), ma la decadenza dell’umanità in seguito al peccato originale vuole anche che la vita sociale si ispiri ai principi della religione rivelata che sola è in grado di elargire ai singoli e alle collettività la medicina della gratia sanans.
Ma che dire di coloro che non vogliono né credere né lodare Dio? Ebbene, costoro vanno anzitutto invitati a correggersi, se poi, data l’iniquitas temporum, non ci riescono, vanno tollerati, ma non elogiati, vanno rispettati, ma solo come persone che onestamente cercano la verità e non già in quanto non la trovano. D’altra parte è proprio così che si configura l’esigenza della carità secondo la dottrina tomistica: amare il prossimo in vista di Dio o perché è già in Dio o affinché, se sfortunatamente non lo è ancora, lo sia al più presto con una scelta libera, matura, convinta. Quanto poi alla tolleranza elevata a principio, assolutizzata, vantata come pluralismo e larghezza di vedute, è facile accorgersi in base all’esperienza stessa come essa educhi all’indifferentismo, al relativismo e, in ultima analisi, all’immoralità poiché infatti la moralità e l’integrità sono un tutt’uno: per essere buoni occorre essere integri, per essere cattivi basta il “pluralismo” di valori fabbricati ad hoc secondo il proprio comodo: bonum ex causa integra, malum ex quocumque defectu. E tale tolleranza assoluta, dove è possibile, andrebbe emendata, dove nemmeno ciò risulta sfortunatamente realizzabile va tollerata, ma tollerata proprio come uno dei mali più gravi che possano capitare ad un popolo ricco di tradizione e di cultura.
P. Thomas M. Tyn O.P.