La Quaresima

Non ci si deve meravigliare se un tempo così sacro come quello della Quaresima sia così pieno di misteri. La Chiesa, che la considera come la preparazione alla più gloriosa delle sue feste, ha voluto che questo periodo di raccoglimento e di penitenza fosse caratterizzato dalle circostanze più idonee a risvegliare la fede dei cristiani ed a sostenere la loro costanza nell’opera dell’espiazione annuale. Nel Tempo della Settuagesima riscontrammo il numero settuagenario, che ci richiamava i settant’anni della cattività in Babilonia, dopo i quali il popolo di Dio, purificato dalla sua idolatria, doveva rivedere Gerusalemme e celebrarvi la Pasqua. Ora è il numero quaranta che la santa Chiesa presenta alla nostra religiosa attenzione, il numero che, al dire di S. Girolamo, è sempre quello della pena e dell’afflizione (Comm. a Ezechiele, c. 29).


Storia, mistica e pratica della Quaresima*
dagli scritti di Dom Prosper Guérager O.S.B, Abate di Solesmes (1805-1875)

STORIA DELLA QUARESIMA


Chiamiamo Quaresima quel periodo di preghiera e di penitenza, durante il quale la Chiesa prepara le anime a celebrare degnamente il mistero della Redenzione.

La preghiera.

A tutti i fedeli, anche i più ferventi, essa offre questo tempo come ritiro annuale, che loro offre l’occasione di riparare le negligenze
passate e ravvivare la fiamma del loro zelo. Offre ai catecumeni, come nei primi secoli, l’istruzione e la preparazione alla fede battesimale; richiama ai penitenti la gravità del peccato, per eccitarli al pentimento ed ai buoni propositi, e promettere loro il perdono del Cuore di Nostro Signore.
Nel 49° capitolo della sua Regola, S. Benedetto raccomanda ai suoi monaci che si applichino, durante questo santo tempo, ad una preghiera “accompagnata da lacrime”, siano esse del pentimento o dell’amore.
Nella Messa di ciascun giorno il cristiano, a qualsiasi stato appartenga, troverà le più belle formule di preghiere, con le quali si rivolgerà a Dio. Antiche spesso di quindici e più secoli, s’adattano sempre alle aspirazioni d’ognuno ed ai bisogni di tutti i tempi.

La penitenza.

Le penitenza s’esercita, o meglio s’esercitava, principalmente mediante la pratica del digiuno. Le temporanee dispense concesse dal Sovrano Pontefice alcuni anni fa non costituiscono -per noi una ragione sufficiente di sottacere un dovere così importante, al quale fanno incessante allusione le Orazioni d’ogni Messa di Quaresima, e di cui tutti devono almeno conservare lo spirito, qualora la durezza dei tempi che si attraversano o la gracilità della salute non ne permetterà l’osservanza in tutta la sua estensione e il suo rigore.
Essa risale ai primi tempi del cristianesimo, ed è anche anteriore. La pratica del digiuno fu osservata dai Profeti Mosè ed Elia, i cui esempi ci saranno esposti il mercoledì della prima settimana di Quaresima; per quaranta giorni e quaranta notti fu osservata da Nostro Signore in modo assoluto, senza prendere il minimo alimento; e sebbene egli non abbia voluto farne un precetto, che non sarebbe stato più suscettibile di dispense, pure tenne a dichiarare che il digiuno, spesso comandato da Dio nell’Antica Legge, sarebbe stato anche osservato dai figli della Nuova Legge.
Un giorno i discepoli di Giovanni s’avvicinarono a Gesù e gli dissero: “Per qual motivo, mentre noi e i Farisei digiuniamo spesso, i tuoi discepoli non digiunano? E Gesù rispose loro: Com’è possibile che gli amici dello sposo possano fare lutto finché lo sposo è con loro? Verranno poi i giorni in cui lo sposo sarà loro tolto, ed allora digiuneranno” (Mt. 9, 14-15)
I primi cristiani si ricordarono di quelle parole di Gesù, e cominciarono molto presto a passare nel digiuno assoluto i tre giorni (che per loro era uno solo) del mistero della Redenzione, cioè dal giovedì Santo al mattino di Pasqua.
Fin dal II e III secolo abbiamo la prova che in parecchie Chiese si digiunava il Venerdì e il Sabato Santo e S. Ireneo, nella Lettera al Papa S. Vittore, afferma che molte Chiese d’Oriente facevano la stessa cosa durante l’intera Settimana Santa. Il digiuno pasquale si estese poi nel IV secolo, fino a che la preparazione alla festa di Pasqua, attraverso un periodo di crescente aumento, divenne di quaranta giorni, cioè Quadragesima o Quaresima.
La più antica menzione della “Quarantena”, in Oriente, si riscontra nel V can. del Concilio di Nicea (325). Il Vescovo di Tmuis, Serapione, attesta a sua volta, nel 331, che la “Quaresima” era al suo tempo una pratica universale, sia in Oriente che in Occidente. I Padri, come S. Agostino (Sermone 210) dicono antichissima tale pratica; e S. Leone (Sermone 6) arriva a pensare, però a torto, che risaliva ai tempi apostolici. I primi a parlarci del digiuno quaresimale furono i Padri, e tra loro S. Ambrogio e S. Girolamo.
I Sermoni di S. Agostino dimostrano che la Quaresima cominciava sei domeniche prima di Pasqua. Siccome la domenica non si digiunava, non rimanevano che 34 giorni, 36 col Venerdì e il Sabato Santo; tuttavia la Quaresima restava sempre una “quarantena” di preparazione alla solennità della Pasqua. Difatti anche allora, e come adesso, non era il digiuno l’unico mezzo per prepararsi alla Pasqua. S. Agostino insiste che al digiuno vada aggiunto: il fervore della preghiera, l’umiltà, la rinuncia dei desideri meno buoni, la generosità nell’elemosina, il perdono delle offese e la pratica d’ogni opera di pietà e di carità.
Della medesima durata consta in Spagna nel VII secolo, nella Gallia e a Milano. Per S. Ambrogio il Venerdì Santo è la grande solennità del mondo: la stessa festa di Pasqua comprende il triduo della morte, della sepoltura e della Risurrezione di Cristo (Lettera 23.ª). La domenica s’interrompeva il digiuno, ma non s’abbandonava mai, grazie alla Liturgia, il colore penitenziale.
Anche S. Leone afferma che la Quaresima è un periodo di quaranta giorni che termina il Giovedì Santo sera; e, come S. Agostino, dopo aver insistito sui vantaggi del digiuno corporale, raccomanda energicamente l’esercizio della mortificazione e della penitenza, e sopra tutto l’aborrimento del peccato e la pratica fervente delle opere buone e di tutte le virtù.

Necessità della penitenza.

La necessità della penitenza è sempre attuale. Nell’epoca nostra di sensualità, in cui sembra caduta in disuso la mortificazione corporale, non crediamo sia inutile spiegare ai cristiani l’importanza e l’utilità del digiuno. A favore di questa santa pratica stanno le divine Scritture, sia del Vecchio che del Nuovo Testamento; anzi si può dire che vi si raggiunge la testimonianza della tradizione di tutti i popoli; infatti, l’idea che l’uomo possa placare la divinità con opere di espiazione del suo corpo, è costante presso tutti i popoli della terra e la troviamo in tutte le religioni, anche le più lontane dalla purezza delle tradizioni patriarcali.

Il precetto dell’astinenza.

Il precetto cui furono sottoposti i nostri progenitori nel paradiso terrestre, osservano S. Basilio, S. Giovanni Crisostomo, S. Girolamo e S. Gregorio Magno, era un precetto di astinenza, e per non aver essi rispettata questa virtù precipitarono nell’abisso del male, trascinando seco tutta la discendenza. La vita di privazioni, alla quale il re decaduto della creazione si vide condannato sulla terra, che doveva produrgli solo triboli e spine, giorno per giorno giustificò tale legge d’espiazione, che il Creatore impose alle membra ribelli dell’uomo peccatore.
Fino all’epoca del diluvio i nostri antenati si sostentarono unicamente dei frutti della terra, che ricavavano con sudato lavoro. In seguito, per supplire in qualche maniera all’indebolimento delle forze della natura, Dio permise che si nutrissero della carne degli aniinali. Ugualmente Noè, forse per ispirazione di Dio, cominciò a spremere il succo della vite; e così un altro alimento venne a soccorrere la debolezza dell’uomo.

Astinenza dalla carne e dal vino.

La natura del digiuno fu quindi determinata in base ai diversi elementi che servivano al sostentamento dell’uomo. A principio dovette solo consistere nell’astinenza dalla carne degli animali, essendo meno indispensabile alla vita tale alimento, dono dell’accondiscendenza di Dio. Per molti secoli, come anche oggi nelle Chiese d’Oriente, erano proibite le uova e tutti i latticini, per essere sostanze ricavate dagli animali; ed anche nelle Chiese latine non erano permesse, fino al XIX secolo, se non in virtù di un’annuale dispensa più o meno generale. Il rigore dell’astinenza dalla carne era tale, che a principio non veniva sospesa neppure la domenica di Quaresima, quando invece s’interrompeva il digiuno; e quelli che erano dispensati dal digiunare durante la settimana, rimanevano sempre tenuti a detta astinenza, salvo una dispensa particolare.
Nei primi secoli del cristianesimo il digiuno comprendeva anche l’astinenza dal vino: lo afferma S. Cirillo di Gerusalemme (IV Catechesi), S. Basilio (I Omelia sul Digiuno), S. Giovanni Crisostomo (IV Omelia al popolo d’Antiochia), Teofilo d’Alessandria, ecc. Ma questo rigore scomparve ben presto fra gli Occidentali, mentre durò più a lungo fra i cristiani d’Oriente.

Unico pasto.

Da ultimo, per essere completo, il digiuno doveva limitare anche la misura dei cibi, fino alla privazione dell’alimentazione ordinaria: in tal senso non tollera che un solo pasto quotidiano. Ciò si deduce e risulta da tutta la pratica della Chiesa, sebbene molteplici modifiche vennero a prodursi, di secolo in secolo, nella disciplina della Quaresima.

Il pasto dopo i Vespri.

La costumanza giudaica, che nel Vecchio Testamento era di posticipare al tramonto del sole l’unico pasto consentito nei giorni di digiuno, passò nella Chiesa cristiana e fu seguita anche dai paesi occidentali, ove venne conservata a lungo immutabile. Però dal IX secolo essa cominciò a mitigarsi lentamente nella Chiesa latina, come risulta, a quell’epoca, da un Capitolare di Teodolfo, Vescovo d’Orléans, nel quale il prelato protesta contro coloro che si credono in diritto di pranzare all’ora di Nona, cioè tre ore dopo mezzogiorno.
Ma il rilassamento, a poco a poco, insensibilmente, si estese; infatti nel secolo successivo abbiamo la testimonianza dei celebre Rathier, Vescovo di Verona, il quale, in un Discorso sulla Quaresima, riconosceva ai fedeli la facoltà di rompere il digiuno dopo Nona. Si trovano ancora tracce di richiami e contestazioni del XI secolo, in un Concilio di Rouen, che proibiva ai fedeli di pranzare prima che non fosse cominciato in chiesa l’Ufficio dei Vespri, terminata l’Ora di Nona: ma si trova qui già l’uso di anticipare l’ora dei Vespri, per dar modo ai fedeli di consumare prima i loro pasti.
Fino quasi a quest’epoca era infatti rimasta in vigore la costumanza di non celebrare la Messa, nei giorni di digiuno, se non dopo aver cantato l’Ufficio di Nona, che aveva inizio alle tre pomeridiane, e di non cantare i Vespri se non dopo il tramonto del sole. Ma se andava sempre più mitigandosi la disciplina del digiuno, mai la Chiesa credette giusto d’invertire l’ordine delle Ore, che risaliva alla più remota antichità. Successivamente, essa anticipò prima i Vespri, poi la Messa, infine Nona, per far sì che i Vespri terminassero prima di mezzogiorno, dato che l’uso aveva autorizzati i fedeli a fare i loro pasti a metà del giorno.

Il pasto dopo Nona.

Sappiamo da un passo di Ugo di S. Vittore che, nel XII secolo l’uso di rompere il digiuno all’ora di Nona era divenuto generale (Della Regola di S. Agostino, c. 3); pratica che fu consacrata nel XII secolo dall’insegnamento dei teologi scolastici. Alessandro di Ales, nella sua Somma, lo insegna formalmente (P. 4, Quest. 28, art. 2), e S. Tommaso d’Aquino non è meno esplicito (S. Theol., II II, 147, 7).

Il pasto a mezzogiorno.

Ma questa mitigazione doveva ancora allargarsi, perché sappiamo che alla fine del medesimo XII secolo il teologo Riccardo di Middleton, celebre francescano, insegnava non doversi considerare violatore del digiuno chi pranzava all’ora di Sesta, cioè a mezzogiorno, perché, dice, quest’uso è ormai prevalso in moltissimi luoghi, e l’ora nella quale si può mangiare non è così essenziale al digiuno quanto l’unicità del pasto (In IV., dist 15, art. 3, q. 8).
Il XIV secolo sancì con una pratica ed un insegnamento formale l’opinione di Riccardo di Middleton. Citeremo a testimonianza il famoso teologo Durando di Saint-Pourcain, domenicano e Vescovo di Meaux, il quale senz’alcuna difficoltà fissa all’ora di mezzogiorno il pasto dei giorni di digiuno; perché questa è, dice, la pratica del Papa, dei Cardinali e anche dei Religiosi (In IV, dist. 15, quest. 9, art. 7). Non ci sorprenderà più, quindi, di vedere tale insegnamento sostenuto nel XV secolo dai più gravi autori, come S. Antonino, Stefano Poncher, Vescovo di Parigi, il Card. Gaetano, ecc. Invano Alessandro di Ales e S. Tommaso cercarono di riportare all’ora di Nona la cessazione del digiuno; furono gli ultimi scogli da superare; poi l’attuale disciplina s’impose, per così dire, fin dai loro tempi.

La “colazione”.

A causa d’essere stata anticipata l’ora del pranzo, il digiuno, che consiste essenzialmente nel mangiare un unico pasto, era divenuto difficile a praticarsi, a motivo del lungo intervallo di tempo fra un mezzogiorno e l’altro. Per cui bisognò venire incontro ancora una volta alla umana debolezza, autorizzando la cosiddetta “colazione”. L’origine di questo uso è pure antichissima e deriva dalle costumanze monastiche. La Regola di S. Benedetto prescriveva una quantità di altri digiuni, oltre a quello della Quaresima ecclesiastica; ma ne temperava il rigore permettendo un pasto all’ora di Nona: il che rendeva quei digiuni meno penosi di quello della Quaresima, perché a questo erano tenuti tutti i fedeli, secolari e religiosi, fino al tramonto del sole. Per altro, siccome i monaci dovevano sostenere le dure fatiche dei campi, nell’estate e nell’autunno, quando i digiuni fino all’ora di Nona erano così frequenti da diventare giornalieri, a partire dal 14 settembre, gli Abati, usando d’una facoltà contemplata nella Regola, permisero ai religiosi di bere verso sera un bicchiere di vino prima di Compieta, per ristorare le forze stanche delle fatiche del giorno. Tale ristoro si prendeva in comune, mentre si faceva la lettura della sera chiamataConferenza, in latino Collatio, e che consisteva per lo più nel leggere le famose Conferenze (Collationes) di Cassiano: da qui derivò la parola colazione data a quel piccolo sollievo del digiuno monastico.
Nel IX secolo l’Assemblea d’Aquisgrana (817 – Labbe, Conciles t. 7) estende ugualmente tale facoltà al digiuno della Quaresima, per la straordinaria fatica che sostenevano i monaci nell’assolvere ai divini Uffici di questo sacro tempo. Ma in seguito si accorsero che il solo uso di quella bevanda poteva nuocere alla salute, se non vi aggiungeva qualche cosa di solido; e dal XIV al XV secolo s’introdusse la consuetudine di distribuire ai religiosi un pezzettino di pane, che mangiavano nella “colazione” della sera quando bevevano quel bicchiere di vino.
Naturalmente, introdottesi nei chiostri mitigazioni del genere sul digiuno primitivo, si estesero naturalmente ben presto anche a vantaggio dei secolari; il che avvenne a poco a poco, con la facoltà di bere fuori dell’unico pasto; e nel XIII secolo S. Tommaso stesso, studiando il caso se il bere rompesse il digiuno, concluse negativamente (II II, 147, 6); ma continuò ad ammettere che invece lo rompeva l’aggiunta di qualsiasi nutrimento solido. Quando alla fine del XIII secolo e durante il XIV fu, definitivamente, anticipato il pranzo a mezzogiorno, non poteva più bastare, alla sera, una semplice bevuta di vino, a reggere le forze del corpo; di conseguenza s’introdusse, prima nei chiostri, e poi fuori, la consuetudine di prendere, oltre quella bevanda, pane, verdura e frutta, sempre a condizione d’usare di quegli alimenti con tale moderazione da non trasformare mai la “colazione” in un secondo pasto.

Astinenza dai latticini.

Tali furono le conquiste che ottennero sull’antica osservanza del digiuno, sia il rilassamento del primitivo fervore, sia l’indebolimento generale delle forze fisiche, presso i popoli occidentali. Ma non sono questi gli unici temperamenti che dobbiamo rilevare. Per molti secoli l’astinenza dalla carne comprendeva la proibizione di tutto ciò che proveniva dal regno animale, escluso il pesce, per diverse misteriose ragioni fondate sulle sacre Scritture. I latticini d’ogni sorta furono per molto tempo proibiti; a Roma fino a pochi anni fa erano proibiti il cacio e il burro tutti i giorni nei quali non si poteva mangiar carne.
L’uso dei latticini in Quaresima si andò affermando dal IX secolo in poi nell’Europa occidentale, specialmente in Germania e nelle regioni settentrionali. Invano cercò di eliminarlo, nel XI secolo, il Concilio di Kedlimbourg, (Labbe, Conciles, t. X) di modo che, dopo aver legittimata la pratica mediante dispense temporanee che ottenevano dai Sommi Pontefici, quelle Chiese finirono per usufruirne pacificamente per l’inveterata consuetudine. Le Chiese di Francia mantennero l’antico rigore fino al XVI secolo, anzi sembrò non cedere del tutto fino al XVII secolo; tanto che, per riparare alla breccia fatta all’antica disciplina, e quasi a compensare con un atto pio e solenne il rilassamento circa l’articolo dei latticini, d’allora in poi tutte le parrocchie di Parigi, alle quali si univano i Domenicani, i Francescani, i Carmelitani e gli Agostiniani, si recavano in processione alla Chiesa di Nótre-Dame la Domenica di Quinquagesima; nello stesso giorno il Capitolo Metropolitano, col clero delle quattro parrocchie dipendenti, andava a fare una stazione nel cortile della Curia e a cantare un’Antifona davanti alla Reliquia della vera Croce, che si esponeva nella Cappella Santa. Queste belle tradizioni, aventi lo scopo di tenere impressa nella memoria l’antica disciplina, durarono fino alla Rivoluzione.

Astinenza dalle uova.

La facoltà di usare dei latticini non comprendeva l’uso delle uova in Quaresima. Su questo punto rimase per molto tempo in vigore l’antica norma di concedere questo cibo solo se compreso nella dispensa che si soleva dare annualmente. Fino al XIX secolo a Roma non si potevano mangiare le uova nei giorni in cui non era stata concessa la dispensa dell’uso della carne; altrove, le uova in certi giorni erano permesse, in altri no, specie durante la Settimana Santa; mentre l’attuale disciplina non conosce più tali restrizioni.
Se non che la Chiesa, sempre preoccupata del bene spirituale dei suoi figli, e nel loro interesse, ha cercato di mantenere in vigore tutto ciò che è stato possibile delle osservanze salutari che li devono aiutare a soddisfare la giustizia divina. In virtù di questo principio Benedetto XIV, allarmato fin dal suo tempo dell’estrema facilità con cui si moltiplicavano da per tutto le dispense circa l’astinenza, con una solenne Costituzione, in data io giugno 1745, rinnovò la proibizione, oggi nuovamente abolita, di mangiare nello stesso pasto pesce e carne nei giorni di digiuno.

Enciclica di Benedetto XIV.

Fin dal primo anno del suo pontificato, il 30 maggio 1741, 10 stesso Pontefice indirizzò una Lettera Enciclica a tutti i Vescovi del mondo Cattolico, esprimendo il suo vivo dolore nel costatare il rilassamento che s’introduceva ovunque con indiscrete e ingiustificate dispense.
“L’osservanza della Quaresima, diceva il Pontefice, è il vincolo della nostra milizia; con quella ci distinguiamo dai nemici della Croce di Gesù Cristo; con quella allontaniamo i flagelli dell’ira divina; con quella, protetti dal soccorso celeste durante il giorno, ci fortifichiamo contro i prìncipi delle tenebre. Se ci abbandoniamo a tale rilassamento, è tutto a detrimento della gloria di Dio, a disonore della religione cattolica, a pericolo per le anime cristiane; né si deve dubitare che tale negligenza non possa divenire sorgente di sventure per i popoli, di rovine nei pubblici affari e di disgrazie nelle cose private” (Costituzione “Non ambigimus”).
Sono passati due secoli dal solenne monito del Pontefice, ma purtroppo quel rilassamento che egli volle frenare andò sempre più crescendo. Nelle nostre città, quanti cristiani si possono contare fedeli all’osservanza quaresimale? Ora dove ci condurrà questa mollezza che aumenta senza limiti, se non al decadimento universale dei costumi e perciò allo sconvolgimento della società? Già le dolorose predizioni di Benedetto XIV si sono visibilmente avverate. Le nazioni che conobbero l’idea della espiazione sfidano la collera di Dio; per loro non resta altra sorte che la dissoluzione o la conquista. Per ristabilire l’osservanza domenicale in seno alle popolazioni cristiane asservite all’amore del danaro e degli affari sono stati compiuti coraggiosi sforzi, coronati da insperati successi. Chissà che il braccio del Signore, alzato a percuoterci, non s’arresti alla vista d’un popolo che comincia a ricordarsi della casa di Dio e del suo culto! Dobbiamo sperarlo: ma questa speranza sarà più solida, quando vedremo i cristiani della nostra società rammollita e degenerata rientrare, come gli abitanti di Ninive, nella via da tempo abbandonata dell’espiazione e della penitenza.

Le prime dispense.

Riprendiamo ora la narrazione storica e segnaliamo ancora alcuni tratti della fedeltà degli antichi cristiani alle sante osservanze della Quaresima. Non sarà qui fuori proposito richiamare la formalità delle prime dispense il cui ricordo è conservato negli Annali della Chiesa; vi si attingerà un salutare insegnamento.

Ai fedeli di Braga (Portogallo).

Nel XIII secolo l’Arcivescovo di Braga fece ricorso al Romano Pontefice, allora Innocenzo III, per fargli presente che la maggior parte del suo popolo era stato costretto a mangiar carne durante la Quaresima a causa d’una carestia che aveva privata la provincia di tutte le ordinarie provvigioni; il prelato chiedeva al Papa quale riparazione poteva imporre ai fedeli per questa violazione forzata dell’astinenza quaresimale. Inoltre consultava il Pontefice sulla condotta da tenere riguardo ai malati, che chiedevano la dispensa per l’uso degli alimenti grassi. La risposta d’Innocenzo III, ch’è inserita nel Corpo del Diritto (Decretali, 1. 3 sul digiuno, tit. 46), è piena di moderazione e di carità, com’era da attendersi. Ma da questo fatto noi apprendiamo ch’era tale allora il rispetto della legge generale della Quaresima, da riconoscere che solo l’autorità del Sommo Pontefice poteva scioglierne i fedeli. I secoli successivi non intesero diversamente il caso delle dispense.

Al re Venceslao.

Venceslao, re di Boemia, colpito da un’infermità che gli rendeva nociva alla salute l’alimentazione quaresimale, si rivolse nel 1297 a Bonifacio VIII, per ottenere il permesso di mangiare carne. Il Papa incaricò due Abati dell’Ordine dei Cistercensi per informarlo sullo stato reale della salute del monarca; e dietro loro favorevole rapporto, accordò la dispensa richiesta, ma ingiungendo le seguenti condizioni: si sincerassero che il re non si fosse imposto con voto di digiunare a vita durante la Quaresima; i venerdì, i sabati e la vigilia di S. Mattia erano esclusi dalla dispensa; finalmente il re doveva prender cibo privatamente, e farlo con sobrietà.

Ai re di Francia.

Nel secolo XIV abbiamo due Brevi di dispensa, indirizzati da Clemente VI, nel 1351, a Giovanni re di Francia ed alla regina sua sposa. Nel primo il Papa, avuto riguardo al fatto che il re, durante le guerre di cui si occupa, si trova spesso in luoghi dov’è raro il pesce, concede al suo confessore il potere di permettere a lui ed al suo seguito l’uso della carne, fatta riserva, però, dell’intera Quaresima, dei venerdì e di certe Vigilie dell’anno; assodato inoltre, che nè il re nè i suoi si fossero legati con voto all’astinenza per tutta la vita (D’Achery, Spicilegium, t. 4). Col secondo Breve Clemente VI, rispondendo alla domanda che gli era stata presentata dal re Giovanni per essere esentato dal digiuno, incarica ancora il confessore dei monarca e coloro che gli succederanno in quell’ufficio, di dispensarlo insieme alla regina dall’obbligo del digiuno, dopo aver consultato i medici (lbid.).
Alcuni anni più tardi, nel 1376, Gregorio XI emanava un altro Breve in favore del re di Francia Carlo V e della regina Giovanna sua sposa, col quale delegava al loro confessore il potere d’accordare l’uso delle uova e dei latticini durante la Quaresima, sentito il parere dei medici e gravatane la loro coscienza, come anche quella del confessore che ne avrebbe risposto davanti a Dio. Il permesso si estendeva ai cuochi ed ai camerieri, ma solo per assaggiare le vivande.

A Giacomo III re di Scozia.

Il XV secolo continua a fornirci esempi di simili ricorsi alla Sede Apostolica per la dispensa dalle osservanze quaresimali. Citiamo particolarmente il Breve che Sisto IV, nel 1483, indirizzò a Giacomo re di Scozia, col quale permette a questo principe di fare uso della carne nei giorni d’astinenza, sempre col consiglio del confessore. Nel XVII secolo vediamo Giulio Il accordare una simile facoltà a Giovanni, re di Danimarca, ed alla regina Cristina sua consorte; e qualche anno più tardi, Clemente VII elargiva il medesimo privilegio all’imperatore Carlo V, e poi in seguito anche ad Enrico II di Navarra ed alla regina Margherita sua sposa.
Tale era la gravità, con la quale si procedeva, ancora qualche secolo fa, a sciogliere gli stessi prìncipi da un obbligo, che è quanto di più universale e di più sacro ha il cristianesimo. Da questo si può giudicare il cammino seguito dalla moderna società nella via del rilassamento e della indifferenza. Si paragonino quelle popolazioni, che per il timore di Dio e la nobile idea dell’espiazione si imponevano tutti gli anni così lunghe e rigide privazioni, con la nostra tiepida e rammollita generazione, il cui sensualismo della vita va sempre più estinguendo il senso del male, che si commette così facilmente, che così prontamente viene perdonato e così debolmente riparato.
Dove sono ora le gioie dei nostri padri nella festa di Pasqua, quando, dopo una privazione di quaranta giorni, riprendevano i cibi più nutrienti e graditi che s’erano interdetti durante questo lungo periodo? Con quale attrattiva e con quale serenità di coscienza essi tornavano alle abitudini d’una vita più facile, che avevano sospesa per affliggere l’anima nel raccoglimento, nella separazione dal mondo e nella penitenza! Ciò c’induce ad aggiungere ancora una parola, con l’intento d’aiutare il lettore cattolico a ben rilevare l’aspetto della cristianità nei periodi della fede, durante il tempo della Quaresima.

Vacanza dei tribunali.

Immaginiamoci dunque un tempo in cui, non solo erano interdetti dalle pubbliche autorità (Secondo Fozio, Giustiniano aveva introdotto una simile legge (Normocanone, tit. VII. e. 1)) i divertimenti e gli spettacoli, ma rimanevano vacanti anche i tribunali, affinché non fosse turbata quella pace e quel silenzio delle passioni così favorevoli al peccatore per approfondire le piaghe della sua anima e prepararla a riconciliarsi con Dio. Fin dal 380, Graziano e Teodosio avevano dettata una legge che ordinava ai giudici di soprassedere a tutte le procedure ed istanze quaranta giorni prima Pasqua di (Cod. Teodos. I. IX, tit. XXXV, l. 4). Il Codice Teodosiano contiene parecchie altre disposizioni analoghe; e sappiamo che i Concili di Francia, ancora nel IX secolo, si rivolsero ai re Carolingi per reclamare l’applicazione di quella misura che era stata sanzionata dai canoni e raccomandata dai Padri della Chiesa (Concilio di Meaux, dell’845. Labbe, I Concili, t. VII. Concilio di Tribur, dell’895, Ivi, t. IX). La legislazione d’Occidente ha lasciato cadere da molto tempo quelle cristianissime tradizioni; mentre constatiamo, a nostra umiliazione, che esse sono tuttora rispettate dai Turchi, i quali sospendono ogni azione giudiziaria durante trenta giorni del Ramadan.

Divieto della caccia.

La Quaresima fu per molto tempo considerata incompatibile con l’esercizio della caccia, a motivo della dissipazione e del tumulto che porta con sé. Nel IX secolo, durante questo sacro tempo, fu interdetta dal Papa S. Nicolò I ai Bulgari (Ad consultat. Bulgarorum Ivi. t. VIII,), che s’erano riconvertiti al cristianesimo. E anche nel XII secolo S. Raimondo di Pennafort, nella sua Somma dei casi penitenziali, insegna che non si può durante la Quaresima, senza commettere peccato, esercitare la caccia rumorosa e coi concorso dei cani e dei falchi (Summ. cas. Poenit., l. III, tit. XXIX, De laps. et disp. 51). Tale ordinanza è fra quelle cadute in disuso; ma S. Carlo la riportò in vigore nella provincia di Milano in uno dei suoi concili.
Del resto non avremo più da meravigliarci nel vedere interdetta la caccia durante la Quaresima, quando sappiamo che nei secoli passati del cristianesimo anche la guerra cessava le sue ostilità, s’era necessaria al sollievo ed al legittimo interesse delle nazioni. Nel IV secolo Costantino aveva ordinato la cessazione delle operazioni militari i venerdì e le domeniche, in segno di omaggio a Gesù Cristo, che in tali giorni patì e risuscitò, e per non distogliere i cristiani dal raccoglimento che si richiede per celebrare quei misteri. Nel IX secolo la disciplina ecclesiastica d’Occidente esigeva universalmente la sospensione delle armi durante l’intera Quaresima, eccetto il caso di necessità, come risulta dagli atti dell’assemblea di Compiègne, nell’833, e dai concili di Meaux e d’Aquisgrana, della stessa epoca. Le istruzioni del Papa S. Nicolò I ai Bulgari esprimono lo stesso pensiero; e da una lettera di S. Gregorio VII a Desiderio, Abate di Montecassino, consta che tale norma era ancora rispettata nel XI secolo (Labbe, I Concili, t. VIII, VIII e x). La vediamo ancora osservata fino al XII secolo in Inghilterra, come c’informa Guglielmo di Malmesbury, da due armate schierate di fronte: l’una dell’imperatrice Matilde, contessa d’Angiò, figlia del re Enrico; e l’altra dei re Stefano conte di Boulogne, che nel 143 stavano per cozzare a causa della successione alla corona.

La Tregua di Dio.

È nota a tutti i nostri lettori la mirabile istituzione della Tregua di Dio, per mezzo della quale la Chiesa, nell’ XI secolo, riuscì ad arrestare in tutta l’Europa lo spargimento del sangue col sospendere l’uso delle armi quattro giorni ogni settimana, dal mercoledì sera fino al lunedì mattina, per tutta la durata dell’anno. Tale regolamento, sanzionato dall’autorità dei Papi e dei Concili col concorso di tutti i principi cristiani, non era che l’estensione ad ogni settimana dell’anno di quella disciplina, in virtù della quale rimaneva sospesa in Quaresima ogni azione militare. Il santo re d’Inghilterra Edoardo il Confessore migliorò ancora questa sì preziosa istituzione, emanando una legge che fu confermata dal suo successore Guglielmo il Conquistatore, e in merito alla quale la Tregua di Dio doveva essere inviolabilmente osservata dall’apertura dell’Avvento fino all’ottava dell’Epifania, dalla Settuagesima fino all’ottava di Pasqua e dall’Ascensione fino all’ottava di Pentecoste; in più, tutti i giorni delle Quattro Tempora, le Vigilie di tutte le Feste, e finalmente ogni settimana nell’intervallo fra il sabato dopo Nona e il lunedì mattina (Labbe, I Concili, t. IX).
Urbano II, nel Concilio di Clermont (1095), dopo aver regolato tutto ciò che concerneva la spedizione della Crociata, intervenne anche con la sua apostolica autorità ad estendere la Tregua di Dio, prendendo a base la sospensione delle armi osservata durante la Quaresima, e stabilì, con un decreto che fu rinnovato nel Concilio tenuto a Rouen l’anno appresso, che dovevano rimanere interdette tutte le azioni di guerra dal mercoledì delle Ceneri fino al lunedì successivo all’ottava di Pentecoste, e in tutte le Vigilie e Feste della S. Vergine e degli Apostoli: tutto senza pregiudicare quanto stabilito in precedenza per ogni settimana, cioè dal mercoledì sera fino al lunedì mattina (Orderico Vitale, Storia della Chiesa, t. IX).

Il precetto della continenza.

Così la società cristiana testimoniava il suo rispetto verso le salite osservanze della Quaresima e prendeva dall’anno liturgico le sue stagioni e le sue feste per inserirvi le sue più preziose istitutuzioni. Anche la vita privata ne risentiva la salutare influenza, e l’uomo v’attingeva ogni anno un rinnovamento di forze per combattere gl’istinti sensuali e risollevare la dignità della propria anima mettendo a freno l’attrattiva del piacere. Per molti secoli si richiese dagli sposi la continenza in tutto il corso della santa Quarantena; e la Chiesa, nel Messale (Missa pro sponso et sponsa), ha conservato la raccomandazione di questa salutare pratica.

Usanza delle Chiese d’Oriente,

Interrompiamo qui l’esposizione storica della disciplina quaresimale, col dispiacere d’avere appena sfiorata una materia così interessante. Avremmo voluto fra l’altro dilungarci sulle usanze delle Chiese d’Oriente, che meglio di noi hanno conservato il rigore dei primi secoli del cristianesimo; ma ce ne manca assolutamente lo spazio. Ci limiteremo, perciò, ad alcuni sommari dettagli.
In altra parte della nostra opera il lettore ha potuto osservare, che la Domenica che noi chiamiamo di Settuagesima, presso i Greci è chiamata Prosfonesima, per annunciare imminente l’apertura del digiuno quaresimale. Il lunedì appresso viene contato per il primo giorno della seguente settimana, chiamata Apocreos, dal nome della Domenica con la quale essa termina e che corrisponde alla nostra di Sessagesima; la parola Apocreos è un avvertimento per la Chiesa greca, che fra poco si dovrà sospendere l’uso della carne. Il lunedì seguente apre la settimana chiamata Tirofagia, la quale termina con la Domenica che ha questo nome, cioè la nostra Quinquagesima; durante questa intera settimana sono ancora permessi i latticini. Finalmente, il lunedì che segue è il primo giorno della prima settimana di Quaresima, il cui digiuno comincia fin da questo lunedì in tutto il suo rigore, a differenza dei Latini che lo aprono il mercoledì.
Durante tutto il periodo della Quaresima propriamente detta, i latticini, le uova e anche il pesce sono proibiti; l’unico nutrimento possibile col pane sono i legumi, il miele e, per chi abita vicino al mare, le diverse conchiglie ch’esso fornisce loro. L’uso dei vini, per tanto tempo proibito nei giorni di digiuno, ha finito per introdursi anche in Oriente, come pure la dispensa di mangiare il pesce il giorno dell’Annunciazione e la Domenica delle Palme.
Oltre poi la Quaresima di preparazione alla festa di Pasqua, i Greci ne celebrano ancora altre tre nel resto dell’anno: quella che chiamano degli Apostoli che va dall’ottava di Pentecoste fino alla festa dei SS. Pietro e Paolo; quella detta della Vergine Maria, che comincia col primo agosto e finisce con la vigilia dell’Assunta; e finalmente la Quaresima di preparazione al Natale, che dura quaranta giorni interi. Le privazioni che i Greci osservano durante queste tre Quaresime sono simili a quelle della grande Quaresima, però non così rigorose.
Le altre nazioni cristiane dell’Oriente pure celebrano diverse Quaresime e con una austerità anche maggiore di quella osservata dai Greci. Ma tutti questi particolari ci porterebbero troppo lontani. Perciò concludiamo qui tutto quello che dovevamo dire della Quaresima dal punto di vista storico, per passare ad esporre i misteri che questo sacro tempo contiene.


MISTICA DELLA QUARESIMA


Non ci si deve meravigliare se un tempo così sacro come quello della Quaresima sia così pieno di misteri. La Chiesa, che la considera come la preparazione alla più gloriosa delle sue feste, ha voluto che questo periodo di raccoglimento e di penitenza fosse caratterizzato dalle circostanze più idonee a risvegliare la fede dei cristiani ed a sostenere la loro costanza nell’opera dell’espiazione annuale.
Nel Tempo della Settuagesima riscontrammo il numero settuagenario, che ci richiamava i settant’anni della cattività in Babilonia, dopo i quali il popolo di Dio, purificato dalla sua idolatria, doveva rivedere Gerusalemme e celebrarvi la Pasqua. Ora è il numero quaranta che la santa Chiesa presenta alla nostra religiosa attenzione, il numero che, al dire di S. Girolamo, è sempre quello della pena e dell’afflizione (Comm. a Ezechiele, c. 29).

Il numero 40 e il suo significato.

Ricordiamo la pioggia dei quaranta giorni e dei le quaranta notti, causata dai tesori della collera di Dio, quando si pentì d’aver creato l’uomo (Gen. 7, 12) e sommerse nei flutti il genere umano, ad eccezione d’una sola famiglia. Pensiamo al popolo ebreo che errò quarant’anni nel deserto, in punizione della sua ingratitudine, prima di poter entrare nella terra promessa (Num. 14, 33). Ascoltiamo il Signore, che ordina al profeta Ezechiele (4, 6) di starsene coricato quaranta giorni sul suo lato destro, per indicare la durata d’un regno al quale doveva seguire la rovina di Gerusalemme.
Due uomini, nell’Antico Testamento, hanno la missione di raffigurare nella propria persona le due manifestazioni di Dio: Mosè, che rappresenta la Legge, ed Elia, nel quale è simboleggiata la profezia. L’uno e l’altro s’avvicinano a Dio; il primo sul Sinai (Es 24, 18), il secondo sull’Oreb (1 Re 19, 8); ma sia l’uno che l’altro non possono accostarsi alla divinità, se non dopo essersi purificati con l’espiazione in un digiuno di quaranta giorni.
Rifacendoci a questi grandi avvenimenti, riusciremo a capire perché mai il Figlio di Dio incarnato per la salvezza degli uomini, avendo deciso di sottoporre la sua divina carne ai rigori del digiuno, volle scegliere il numero di quaranta giorni per questo atto solenne. L’istituzione della Quaresima ci apparirà allora in tutta la sua maestosa severità, e quale mezzo efficace per placare la collera di Dio e purificare le nostre anime. Eleviamo dunque i nostri pensieri al di sopra dello stretto orizzonte che ci circonda, e vedremo lo spettacolo di tutte le nazioni cristiane del mondo, offrire in questi giorni al Signore sdegnato quest’immenso quadragenario dell’espiazione; e nutriamo la speranza che, come al tempo di Giona, egli si degnerà anche quest’anno fare misericordia al suo popolo.

L’esercito di Dio.

Dopo queste considerazioni relative alla durata del tempo che dobbiamo passare, apprendiamo ora dalla Chiesa sotto quale simbolo essa considera i suoi figli durante la santa Quarantena. La Chiesa vede in essi un immenso esercito, che combatte giorno e notte contro il nemico di Dio. Per questa ragione il Mercoledì delle Ceneri essa ha chiamato la Quaresima la carriera della milizia cristiana. Per ottenere infatti quella rigenerazione che ci farà degni di ritrovare le sante allegrezze dell’Alleluia, noi dobbiamo aver trionfato dei nostri tre nemici: il demonio, la carne e il mondo. Insieme al Redentore che lotta sulla montagna contro la triplice tentazione e lo stesso Satana, dobbiamo essere armati e vegliare senza stancarci. Per sostenerci con la speranza della vittoria ed animarci a confidare nel divino soccorso, la Chiesa ci presenta il Salmo 90, che colloca fra le preghiere della Messa nella prima Domenica di Quaresima, e del quale attinge quotidianamente molti versetti per le diverse Ore dell’Ufficio. Con la meditazione di quel Salmo vuole che contiamo sulla protezione che Dio stende sopra di noi come uno scudo; che attendiamo all’ombra delle sue ali; che abbiamo fiducia in lui, perché egli ci strapperà dal laccio del cacciatore infernale, che ci aveva rapita la santa libertà dei figli di Dio; che siamo assicurati del soccorso dei santi Angeli, nostri fratelli, ai quali il Signore ha dato ordine di custodirci in tutte le nostre vie, e che, testimoni riverenti della lotta sostenuta dal Salvatore contro Satana, s’avvicinarono a lui dopo la vittoria per servirlo e rendere i loro omaggi. Entriamo nei sentimenti che la santa Chiesa ci vuole ispirare, e durante questi giorni che dovremo lottare ricorriamo spesso al bel canto che essa ci indica come l’espressione più completa dei sentimenti che devono animare, in questa santa campagna, i soldati della milizia cristiana.

La pedagogia della Chiesa.

Ma la Chiesa non si limita a darci una semplice parola d’ordine contro le sorprese del nemico; per occupare tutta la nostra mente ci mette davanti tre grandi spettacoli, che si svolgeranno giorno per giorno fino alla festa di Pasqua, e ciascuno dei quali ci procurerà delle pie emozioni insieme alla più solida istruzione.

Gesù Cristo perseguitato e mandato a morte.

Prima assisteremo alla fine della congiura dei Giudei contro il Redentore: congiura che si inizia ora per esplodere il Venerdì Santo, quando vedremo il Figlio di Dio inchiodato sull’albero della Croce. Le passioni che si agitano in seno alla Sinagoga si manifesteranno di settimana in settimana, e noi le potremo seguire in tutto il loro svolgersi. La dignità, la sapienza e la mansuetudine dell’augusta vittima ci appariranno sempre più sublimi e più degne di un Dio. Il dramma divino che vedemmo aprirsi nella grotta di Betlem continuerà fino al Calvario; e per seguirlo, non abbiamo che da meditare le letture del Vangelo che la Chiesa ci presenterà giorno per giorno.

La preparazione al Battesimo.

In secondo luogo, ricordandoci che la festa di Pasqua è per i Catecumeni il giorno della nuova nascita, riandremo col pensiero a quei primi secoli del Cristianesimo, quando la Quaresima era l’ultima preparazione dei candidati al Battesimo. La sacra Liturgia ha conservata la traccia di quell’antica disciplina, di modo che, mentre ascolteremo le splendide letture dei due Testamenti, con le quali terminava l’ultima iniziazione, ringrazieremo Dio, che si degnò di farci nascere in tempi, nei quali il bambino non deve più attendere l’età dell’uomo per esperimentare le divine misericordie. Penseremo pure a quei nuovi Catecumeni che, anche ai nostri giorni, nei paesi evangelizzati dai nostri moderni apostoli, aspettano, come nei tempi antichi, la grande solennità del Salvatore che vince la morte, per discendere nella sacra piscina ed attingervi un nuovo essere.

La pubblica penitenza.

Finalmente durante la Quaresima dobbiamo richiamare alla memoria quei pubblici Penitenti che, espulsi solennemente dall’assemblea dei fedeli il Mercoledì delle Ceneri, formavano in tutto il corso della santa Quarantena un oggetto di materna preoccupazione per la Chiesa, che doveva ammetterli, se lo meritavano, alla riconciliazione, il Giovedì Santo. Una serie ammirabile di letture destinata alla loro istruzione e ad interessare i fedeli a loro favore, scorrerà sotto ai nostri occhi; poiché la Liturgia non ha perduto niente di quelle solide tradizioni. Ci ricorderemo allora con quale facilità sono state a noi perdonate le iniquità, che forse nei secoli passati non ci sarebbero state rimesse, se non dopo dure e solenni espiazioni; e, pensando alla giustizia del Signore, che non muta mai, qualunque siano i cambiamenti che l’accondiscendenza della Chiesa introdusse nella sacra disciplina, ci sentiremo tanto più portati ad offrire a Dio il sacrificio d’un cuore veramente contrito e ad animare con un sincero spirito di penitenza, le piccole soddisfazioni che presenteremo alla sua divina Maestà.

Riti e Usanze Liturgiche.

Per conservare al sacro tempo della Quaresima il carattere di austerità che gli conviene la Chiesa, per moltissimi secoli, si mostrò molto riservata nell’ammettere feste in questo periodo dell’anno, perché esse recano sempre con sé dei motivi di gioia. Nel IV secolo, il Concilio di Laodicea già mostrava tale disposizione nel suo 51° Canone, là dove permetteva di celebrare la festa dei Santi solo i sabati e le domeniche. La Chiesa greca si mantenne in questo rigore, e solo parecchi secoli dopo il Concilio di Laodicea permise, per il 25 marzo, la festa dell’Annunciazione.
La Chiesa Romana conservò per lungo tempo questa disciplina, almeno all’inizio; però ammise molto presto la festa dell’Annunciazione, ed in seguito quella dell’Apostolo S. Mattia, il 24 febbraio e in questi ultimi secoli aprì il suo calendario a diverse altre feste nella parte corrispondente alla Quaresima, ma sempre però con limitata misura, per rispettare lo spirito dell’antichità.
La ragione per cui la Chiesa Romana ammise più facilmente le feste dei Santi nella Quaresima è che gli Occidentali non ritengono la celebrazione delle feste incompatibile col digiuno; mentre i Greci sono persuasi del contrario, tanto che il sabato, considerato sempre dagli Orientali un giorno solenne, non è mai per loro, giorno di digiuno, a meno che sia il Sabato Santo. Per lo stesso motivo essi non digiunano il giorno dell’Annunciazione, per riguardo alla solennità di tale festa.
Questo modo di pensare degli Orientali diede origine, verso il VII secolo, ad un’istituzione che è loro particolare, chiamata da essi la Messa dei Presantificati, cioè delle cose consacrate in un Sacrificio precedente. Ogni domenica di Quaresima il celebrante consacra sei ostie, di cui una la consuma nel Sacrificio, le altre cinque sono riservate per una semplice comunione da farsi in ciascuno dei cinque giorni seguenti, senza Sacrificio. La Chiesa latina pratica questo rito una sola volta l’anno, il Venerdì Santo, e per una ragione profonda che spiegheremo a suo tempo.
Il principio di tale usanza presso i Greci è scaturito evidentemente dal 49° Canone del Concilio di Laodicea, che prescrive di non offrire il pane del Sacrificio in Quaresima, se non il sabato e la domenica. Nei secoli seguenti i Greci conclusero da questo canone che la celebrazione del Sacrificio non si poteva conciliare col digiuno; e da una loro controversia avuta nel XI secolo col legato Umberto (Contro Niceta, t. iv), sappiamo, che la Messa dei Presantificati, che ha in suo favore un canone del famosissimo concilio chiamato in Trullo, tenuto nel 692, era giustificata dai Greci da ciò che in quel Canone si affermava e cioè che la comunione del corpo e del sangue del Signore rompeva il digiuno quaresimale.
I Greci celebrano detta cerimonia la sera, dopo l’Ufficio dei Vespri; in essa il solo celebrante si comunica, come da noi il Venerdì Santo. Però da molti secoli, fanno eccezione per il giorno dell’Annunciazione, nella quale solennità, siccome è sospeso il digiuno, celebrano il Sacrificio e i fedeli si comunicano. La norma del Concilio di Laodicea pare non sia stata mai accolta dalla Chiesa d’Occidente, e non troviamo, a Roma, nessuna traccia della sospensione del Sacrificio in Quaresima.
La mancanza di spazio ci obbliga a non accennare che leggermente a tutti i dettagli di questo capitolo. Se non che ci resta ancora da dire qualche cosa circa le consuetudini della Quaresima in Occidente. Già ne abbiamo fatte conoscere e spiegate parecchie nel Tempo della Settuagesima. La sospensione dell’Alleluia, l’uso del colore violaceo nei paramenti sacri, la soppressione della dalmatica del diacono e della tunica del suddiacono; i due inni gioiosi Gloria in excelsis e Te Deum laudamus, entrambi proibiti; il Tratto, che supplisce nella Messa il versetto alleluiatico; l’Ite Missa est, sostituito da un’altra formula; l’Oremus della penitenza che si recita sul popolo a fine Messa, nei giorni della settimana in cui non si celebra la festa d’un Santo; i Vespri sempre anticipati prima di mezzogiorno, eccetto le Domeniche: sono diversi riti già noti ai nostri lettori. Quanto alle cerimonie attualmente in uso, rimangono da notare le preghiere che si fanno in ginocchio alla fine d’ogni Ora dell’Ufficio, nei giorni feriali, ed anche la consuetudine in virtù della quale nei medesimi giorni, tutto il Coro rimane genuflesso durante l’intero Canone della Messa.
Ma le nostre Chiese d’Occidente praticavano ancora in Quaresima altri riti, che da parecchi secoli sono caduti in disuso, sebbene alcuni di essi si siano conservati, in talune località, fino ai nostri giorni. Il più imponente di tutti era quello di stendere un gran velo, ordinariamente di colore violaceo, chiamato cortina, fra il coro e l’altare, così che né il clero né il popolo potevano più vedere i santi Misteri che vi si celebravano dietro. Il velo simboleggiava il dolore della penitenza, al quale si deve sottoporre il peccatore, per meritare di contemplare di nuovo la maestà di Dio, il cui sguardo fu oltraggiato dalle sue iniquità. [“Sappiamo dall’antica disciplina della Chiesa, che i pubblici penitenti erano sottoposti, durante la santa Quarantena, ad un regime speciale di penitenza, che cominciava in Quaresima con l’imposizione delle ceneri e l’espulsione dalla chiesa, e terminava il Giovedì Santo con la pubblica riconciliazione. Ora, a mano a mano che lo stretto regime della penitenza pubblica andò scemando, l’idea della pubblica penitenza si estese alla generalità dei fedeli. Così noi vediamo Il clero e i fedeli chiedere ben presto spontaneamente l’imposizione delle ceneri e, con ciò stesso, riconoscersi, in qualche maniera, pubblici penitenti: è come se l’intera comunità dei fedeli passasse la Quaresima nella pubblica penitenza.
“Ma, benché considerati come peccatori e penitenti, non potevano evidentemente tutti i fedeli esser cacciati fuori dalla chiesa; si doveva, allora, assolutamente rinunciare a ricordar loro alcune grandi verità che la Liturgia inculcava ai pubblici penitenti? I peccatori meritavano d’essere esclusi dalla chiesa. come Adamo era stato cacciato dal paradiso a causa della sua colpa; senza penitenza non era possibile raggiungere il regno del cielo e la visione di Dio. Quindi. non ha forse cercato la Liturgia di ribadire questa verità in una maniera sensibile, nascondendo alla loro vista l’altare. il santuario, l’immagine di Dio e quella dei Santi uniti a lui nella gloria celeste? ” (C. Callewaert, Sacris erudiri, p. 699).]
Il velo significava anche le umiliazioni di Cristo, che furono scandalo alla superbia della Sinagoga, ma poi scomparvero tutto ad un tratto, come un velo che in un attimo si toglie, per dar luogo agli splendori della Risurrezione (Onorio d’Autun, Gemma animae, I. III, c. LXVI). La medesima usanza, fra gli altri luoghi, è rimasta anche nella Chiesa metropolitana di Parigi.
In molte Chiese c’era anche la consuetudine di velare la croce e le immagini dei santi fin dall’inizio della Quaresima, per ispirare una più viva compunzione ai fedeli, i quali si vedevano così privati della consolazione di posare lo sguardo sopra gli oggetti cari alla loro pietà. Però questa pratica, che s’è pure conservata in alcuni luoghi (come nel Rito Ambrosiano) è meno giustificata di quella della Chiesa Romana, la quale copre i crocifissi e le immagini solo nel tempo di Passione, come a suo luogo spiegheremo.
Apprendiamo dagli antichi cerimoniali del Medio Evo, che si solevano fare durante la Quaresima numerose processioni da una chiesa all’altra, particolarmente i mercoledì e i venerdì; nei monasteri queste processioni si facevano attraverso ì chiostri, ed a piedi nudi (Martène, De antiquis Ecclesia ritibus, t. III, c. XVIII). Erano un’imitazione delle stazioni di Roma, che in Quaresima sono giornaliere, e che, per molti secoli, cominciavano con una processione solenne alla chiesa stazionale.
Finalmente, la Chiesa ha sempre moltiplicato le sue preghiere durante la Quaresima. Fino a questi ultimi tempi la disciplina voleva che nelle chiese cattedrali e collegiali, purché non esenti da una consuetudine contraria, si doveva aggiungere alle Ore Canoniche: il lunedì l’Ufficio dei Morti, il mercoledì i Salmi Graduali, e il venerdì i Salmi Penitenziali. Nelle Chiese di Francia, nel Medio Evo, si doveva aggiungere un Salterio intero, ogni settimana, all’Ufficio ordinario (Martène, ivi, t. III, c. XVIII).


PRATICA DELLA QUARESIMA


Il timore salutare.

Dopo avere impiegato tre intere settimane a riconoscere le malattie della nostra anima e ad approfondire le ferite che ci ha fatte il peccato, ora dobbiamo sentirci preparati alla penitenza. Conosciamo meglio la giustizia e la santità di Dio ed i pericoli ai quali s’espone l’anima impenitente; per operare nella nostra anima un ritorno sincero e durevole, abbiamo abbandonato le vane gioie e le futilità del mondo; fu cosparsa di cenere la nostra testa, ed il nostro orgoglio si dovette umiliare sotto la sentenza di morte che si compirà in ciascuno di noi.
Ma nel corso della prova che durerà quaranta giorni, così lunghi alla nostra debolezza, non saremo privati della presenza del nostro Salvatore. Sembrava ch’egli si fosse nascosto ai nostri occhi durante queste settimane, che risuonavano delle maledizioni pronunciate contro l’uomo peccatore; ma la sua assenza ci era salutare: era bene, per noi, imparare a tremare al tuono delle vendette divine. “Principio della sapienza è il timor di Dio” (Sal 110,10); ed è perché siamo stati presi dal timore, che s’è risvegliato nelle nostre anime il sentimento della penitenza.

L’esempio affascinante di Cristo.

Ora, apriamo gli occhi e vediamo. È lo stesso Emmanuele che, raggiunta l’età dell’uomo, si mostra di nuovo a noi, non più sotto le sembianze del dolce bambino che adorammo nella culla, ma simile a un peccatore, tremante e umiliato dinanzi alla suprema maestà che noi abbiamo offesa, ed ai piedi della quale egli s’è offerto in nostra cauzione. Nell’amore fraterno che ci porta, è venuto ad incoraggiarci con la sua presenza ed i suoi esempi. Noi ci dedicheremo per lo spazio di quaranta giorni al digiuno ed all’astinenza: e lui, l’innocente, consacrerà lo stesso tempo ad affliggere il suo corpo. Ci allontaneremo per un po’ di tempo dai rumorosi piaceri e dalle riunioni mondane: ed egli si apparterà dalla compagnia e dalla vista degli uomini. Vorremo frequentare con più assiduità la casa di Dio e darci con più ardore alla preghiera: ed egli passerà quaranta giorni e quaranta notti a conversare col Padre, nell’atteggiamento d’un supplicante. Penseremo agli anni trascorsi, nell’amarezza del nostro cuore, e gemeremo a causa delle nostre iniquità: ed egli le espierà con la sofferenza e le piangerà nel silenzio del deserto, come se le avesse commesse lui.
È appena uscito dalle acque dei Giordano, or ora da lui santificate e rese feconde, e lo Spirito Santo lo conduce verso la solitudine. L giunta l’ora, per lui, di manifestarsi al mondo; ma prima ha un grande esempio da darci: sottraendosi alla vista del Precursore e della folla, che vide la divina Colomba posarsi sopra di lui e intese la voce del Padre celeste, si dirige là, verso il deserto. A breve distanza dal fiume s’eleva un’aspra e selvaggia montagna, chiamata in seguito dalle età cristiane la montagna della Quarantena. Dalla sua ripida cresta si domina la pianura di Gerico, il corso del Giordano e il Mar Morto, che ricorda la collera di Dio. Là, nel fondo d’una grotta naturale approfondita nella roccia, si viene a stabilire il Figlio dell’Eterno, senz’altra compagnia che le bestie, che hanno scelta in quei luoghi la loro tana. Gesù vi penetra senz’alcun alimento per sostenere le sue forze umane; in quello scosceso ridotto manca perfino l’acqua per dissetarlo; solo la nuda pietra si offre a dar riposo alle sue membra spossate. Non prima di quaranta giorni gli Angeli s’avvicineranno e verranno a porgergli il nutrimento.
È così che il Salvatore ci precede e sorpassa nella via della santa Quaresima: provandola e adempiendola prima di noi, per far tacere col suo esempio tutti i nostri pretesti, tutti i nostri ragionamenti e tutte le ripugnanze della nostra mollezza e della nostra superbia. Accettiamo quest’insegnamento in tutta la sua estensione e comprendiamo finalmente la legge dell’espiazione. Il Figlio di Dio, disceso da quell’austera montagna, apre la sua predicazione con questa sentenza, che indirizza a tutti gli uomini: “Fate penitenza, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 4, 17). Apriamo i nostri cuori a quest’invito del Redentore, affinché non sia obbligato a destarci dal nostro sonno con quella terribile minaccia che fece intendere in altra circostanza: “Se non farete penitenza, perirete tutti” (Lc 13, 3).

La vera penitenza.

Ora, la penitenza consiste nella contrizione del cuore e nella mortificazione del corpo: due parti che le sono essenziali. È stato il cuore dell’uomo a volere il male, e spesso il corpo l’ha aiutato a commetterlo. D’altra parte, essendo l’uomo composto dell’uno e dell’altra egli li deve unire entrambi nell’omaggio che rende a Dio. Il corpo avrà parte o alle delizie dell’eternità o ai tormenti dell’inferno; non c’è, dunque, vita cristiana completa, e neppure valida espiazione, se nell’una e nell’altra esso non si associa all’anima.

La conversione del cuore.

Ma il principio della vera penitenza sta nel cuore: lo impariamo dal Vangelo negli esempi del figliol prodigo, della peccatrice, di Zaccheo il pubblicano e di S. Pietro. Perciò bisogna che il cuore abbandoni per sempre il peccato, che se ne dolga amaramente, che lo detesti e ne fugga le occasioni. A significare tale disposizione la Sacra Scrittura si serve di un’espressione che è passata nel linguaggio cristiano, e ritrae mirabilmente lo stato dell’anima sinceramente ravveduta dal peccato: essa lo chiama Conversione. Il cristiano, durante la Quaresima, deve esercitarsi nella penitenza del cuore e considerarla come il fondamento essenziale di tutti gli atti propri di questo santo tempo. Ma sarebbe sempre illusoria, se non aggiungesse l’omaggio del corpo ai sentimenti interni che essa ispira. Il Salvatore, sulla montagna non s’accontenta di gemere e di piangere sui nostri peccati: li espia con la sofferenza del proprio corpo; e la Chiesa, che è la sua infallibile interprete, ci ammonisce che non sarà accolta la penitenza del nostro cuore, se non l’uniremo all’esatta osservanza dell’astinenza e del digiuno.

Necessità dell’espiazione.

Come s’illudono, dunque, tanti onesti cristiani che si credono irreprensibili, specialmente quando dimenticano il loro passato e si paragonano agli altri, e, pienamente soddisfatti di se stessi, non riflettono mai ai pericoli d’una vita comoda che essi contano di condurre fino all’ultimo momento! A volte essi credono di non dover più pensare ai loro peccati: non li hanno confessati sinceramente? La regolarità con la quale conducono ormai la vita non è prova della loro solida virtù? Che hanno ancora da fare con la giustizia di Dio? E li vediamo puntualmente sollecitare tutte le dispense possibili, nella Quaresima: perché l’astinenza sarebbe loro d’incomodo, e il digiuno non è più conciliabile con la salute, con le occupazioni e le abitudini di oggi. Non pretendono affatto di essere migliori di questi e quelli che non digiunano e non fanno astinenza; e siccome non sono neppure capaci di avere il pensiero di supplire con altre pratiche di penitenza, quelle prescritte dalla Chiesa, è chiaro che, senza accorgersi e insensibilmente, finiranno col non essere più cristiani.
La Chiesa, testimone di questa spaventevole decadenza del senso soprannaturale, temendo una resistenza che accelererebbe ancora di più le ultime pulsazioni d’una vita moribonda, continua ad allargare la via delle mitigazioni; nella speranza di conservare una scintilla di cristianesimo, in un avvenire migliore, essa preferisce affidare alla giustizia di Dio i figli che non l’ascoltano più, quando indica loro i mezzi di propiziarsi quella giustizia fin da questo mondo. E quei cristiani s’abbandonano alla massima sicurezza, senza darsi mai il pensiero di paragonare la loro vita con gli esempi di Gesù Cristo e dei Santi, e con le norme secolari della penitenza cristiana.

Dispense e tiepidezza.

Vi sono senza dubbio delle eccezioni ad un simile pericoloso rilassamento, ma quanto sono rare, specialmente nelle nostre città! Quali pregiudizi, quali vani pretesti e quali infausti esempi contribuiscono a guastare le anime! Quante volte, dalla bocca di quegli stessi che si gloriano della prerogativa di cattolici, si sente pronunciare l’ingenua scusa che non fanno astinenza e non digiunano, perché l’astinenza e il digiuno li mettono a disagio e li affaticano troppo! come se l’astinenza e il digiuno non avessero precisamente lo scopo d’imporre su questo corpo di peccato (Rom. 6, 6) un giogo penoso! Veramente costoro sembrano aver perduto il senno. Ma quanto sarà grande la loro meraviglia quando il Signore, nel giorno del suo giudizio li metterà a confronto con tanti poveri musulmani che, in seno ad una religione tanto sensuale e depravata, pure sanno trovare in sé ogni anno, il coraggio d’adempiere le dure privazioni dei trenta giorni del loro Ramadan!
Ma è proprio necessario confrontarli con altri quelli che si dicono incapaci di sopportare le astinenze e i digiuni così ridotti di una Quaresima, quando Dio li vede ogni giorno sovraccaricarsi di tante e ben più penose fatiche nella ricerca degli interessi e dei godimenti di questo mondo? Quanta salute sciupata nei piaceri, almeno frivoli, e sempre pericolosi! l’avessero invece mantenuta in tutto il suo vigore, e fosse stata la loro vita regolata e dominata dalla legge cristiana, piuttosto che dal desiderio di piacere al mondo! Ma la rilassatezza è tale, che non si concepisce nessun turbamento e nessun rimorso; si rimanda la Quaresima al Medio Evo, senza osservare che la remissività della Chiesa ha sempre proporzionato le osservanze alla nostra debolezza fisica e morale. S’è conservata o riconquistata, per la misericordia divina, la fede dei padri; e non ci si è ancora ricordati che la pratica della Quaresima è un indice essenziale di cattolicesimo, e che la Riforma protestante del XVI secolo ebbe come una delle sue principali finalità, scritta pure sulla sua bandiera, l’abolizione dell’astinenza e del digiuno.

Dispensa legittima e necessità del pentimento.

Ma, si dirà, non vi possono essere delle legittime dispense? Sicuramente ve ne sono, e, in questo secolo di svigorimento generale, ben di più che nei secoli precedenti. Però, stiamo bene attenti a non equivocare. Se tu hai forze per tollerare altre fatiche, perché non ne avrai per compiere il dovere dell’astinenza? Che se ti arresta il timore d’un lieve incomodo, hai dimenticato che i peccati non saranno rimessi senza espiazione? L’opinione dei medici che presagiscono un indebolimento delle tue forze, in seguito al digiuno, può avere una fondata ragione; ma la questione è di sapere, se questa mortificazione della carne, la Chiesa non te la prescrive appunto nell’interesse della tua anima. Ma ammettiamo pure che la dispensa sia legittima, che la tua salute incorrerebbe un vero pericolo, e che, se osservassi alla lettera le prescrizioni della Chiesa, ne soffrirebbero i tuoi doveri essenziali; in questo caso, pensi di sostituire con altre opere dì penitenza quelle che le tue forze non ti permettono di praticare? chiedi a Dio la grazia di potere, un altr’anno, partecipare ai meriti dei tuoi fratelli, adempiendo con essi quelle sante pratiche che devono essere il motivo della misericordia e del perdono? Se è così, la dispensa non ti nuocerà; e quando la festa di Pasqua inviterà i figli fedeli della Chiesa alle sue ineffabili gioie, anche tu potrai unirti fiducioso a quelli che avranno digiunato; perché, se la debolezza del tuo corpo non t’avrà permesso di seguirli esteriormente, il tuo cuore sarà rimasto fedele allo spirito della Quaresima.

Beneficio dell’istituzione del digiuno.

Scrivendo queste pagine, abbiamo di mira solo i lettori cristiani che ci hanno seguiti fino a questo punto; ma che sarebbe, se dovessimo considerare il risultato della sospensione delle sante leggi della Quaresima sopra la massa delle popolazioni, specialmente delle città? Perché i nostri scrittori cattolici, i quali hanno illustrate tante questioni, non hanno insistito sui tristi effetti che produce nella società la cessazione d’una pratica che, mentre ricorda ogni anno il bisogno dell’espiazione, conserverebbe più d’ogni altra istituzione il sentimento del bene e del male? Non occorre riflettere a lungo, per comprendere la superiorità di un popolo che s’impone, per quaranta giorni all’anno, una serie di privazioni, allo scopo di riparare le violazioni da esso commesse nell’ordine morale, sopra un altro che in nessun periodo dell’anno pensa alla riparazione ed all’emendamento.

Coraggio e confidenza.

Si rianimino di coraggio, dunque, i figli della Chiesa, ed aspirino a quella pace della coscienza ch’è solo assicurata all’anima veramente penitente. L’innocenza perduta si riacquista con l’umile confessione della colpa, quando è accompagnata dall’assoluzione del sacerdote; ma il fedele si guarderà bene dal pericoloso pregiudizio.
che non ha più niente da fare dopo il perdono. Ricordiamo l’avvertimento così grave dello Spirito Santo nella Scr