Don Pietro Cantoni, esposizione del documento sulla Vocazione Ecclesiale del Teologo.
[Tratto da: http://www.alleanzacattolica.org/indici/articoli/cantonip186.htm ]
La vocazione del teologo
I presupposti culturali
“La contrapposizione con la cultura moderna non potrebbe essere più netta: offerta invece di ricerca, ricezione invece di conquista, libertà e verità come dono” (1): così qualcuno ha “letto” l’Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo, emanata il 24 maggio 1990 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede con l’approvazione del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II (2). Questa “lettura”, nel suo semplicismo un po’ rozzo, riflette abbastanza bene il tono e gli orientamenti dell’accoglienza che i mass media hanno riservato, in generale, al documento (3), e tuttavia ha il merito di mettere in luce un aspetto nodale della questione, quello costituito dai presupposti filosofici e soprattutto culturali che orientano in profondità tutto il dibattito. Un teologo canadese, André Naud, in una pubblicazione presentata come “la risposta” al documento firmato dal card. Joseph Ratzinger, ha parlato, richiamando il titolo di una nota opera di Alain Peyrefitte (4), di “male cattolico” (5), che consisterebbe in un’insistenza eccessiva sul valore e sull’estensione dell’autorità nella riflessione teologica e nella vita della Chiesa in generale. Secondo il documento vaticano invece si dovrebbe parlare con più fondamento del “male liberale”, che affetta tutto il fronte, non solo teologico, del “dissenso”: “Tra i fattori che possono esercitare la loro influenza in maniera remota o indiretta, occorre ricordare l’ideologia del liberalismo filosofico che impregna anche la mentalità della nostra epoca. Di qui proviene la tendenza a considerare che un giudizio ha tanto più valore quanto più procede dall’individuo che si appoggia sulle sue proprie forze. Così si oppone la libertà di pensiero all’autorità della tradizione, considerata causa di schiavitù. Una dottrina trasmessa e generalmente recepita è a priori sospetta e il suo valore veritativo contestato. Al limite, la libertà di giudizio così intesa è più importante della verità stessa” (n. 32). Naturalmente, per tornare alla provocatoria, ma per qualche verso esemplare, “lettura”, se ne deve rilevare l’eccessivo semplicismo che misconosce quella che può essere considerata quasi come una caratteristica strutturale del cattolicesimo, dell’”anima cattolica”, quella cioè di risolvere le contrapposizioni radicali, gli aut aut, del protestantesimo, ma anche di tutta la modernità, in altrettanti et et non all’insegna del compromesso, ma di una superiore sintesi di sapienza: così, non “grazia o libertà”, ma “grazia e libertà”; e ancora, non “offerta o ricerca”, ma “offerta innanzitutto e, a partire di lì, in dipendenza costante da quella gratuita offerta di luce che è la fede, ricerca dell’uomo credente”. La verità divina della fede è un dono, ma, proprio perché dono e non intrusione violenta di qualcosa di estraneo, esige accoglienza libera e responsabile da parte di tutto l’uomo, e anzitutto del suo spirito che è intelligenza e volontà. Proprio nell’accoglienza intelligente abbiamo il luogo specifico della teologia. A partire da sant’Anselmo — considerato il padre della Scolastica — è infatti diventata classica la definizione della teologia come “intellectus fidei” (6), e di questa definizione fa ampio uso l’Istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Un documento “teologico” sulla teologia
Il documento, pur avendo un obbiettivo concreto ben preciso, il “dissenso teologico”, svolge una riflessione molto densa e costruita toccando un po’ tutti i punti più caldi della discussione in materia di teologia e di Magistero, ma lo fa con un procedimento teologico, cioè preoccupato di inserire i punti dibattuti nel quadro più vasto dei grandi princìpi che scaturiscono dalla Parola di Dio affidata alla Chiesa. Si ha perfino l’impressione che un procedimento del genere, nel contesto di un dibattito piuttosto scadente per toni e per contenuti, sia poco adatto. Può lasciare l’impressione, in chi è abituato allo stile dei “manifesti” di protesta, di essere troppo “astratto” e di eludere i problemi indugiando eccessivamente in questioni di principio a prima vista così lontane dai “punti caldi”. Ma forse è proprio questo l’unico modo proporzionato di affrontare un discorso sulla teologia, che non è una scienza accanto alle altre, ma la sapienza suprema, “quaedam impressio divinae scientiae”, come un sigillo della scienza di Dio in noi, secondo le solenni e impegnative parole di san Tommaso d’Aquino (7). Si può infatti essere certi che, quando la verità è in causa “[…] essa finirà necessariamente per imporsi” (n. 31).
Il punto di partenza è la verità in quanto costituisce il principale oggetto della teologia (cfr. n. 8). Così un’introduzione riporta il discorso al suo fondamento: “La verità che rende liberi è un dono di Gesù Cristo (cf. Gv 8, 32). La ricerca della verità è insita nella natura dell’uomo, mentre l’ignoranza lo mantiene in una condizione di schiavitù” (n. 1). Qui sta in sintesi tutto il nocciolo del problema: l’assoluto non è la libertà, ma la verità, perché la libertà può realizzarsi solo a partire dalla verità donata da Cristo e nella verità. Questa verità è un dono che ha come destinatario tutta la Chiesa (nn. 2-5). Tutti sono responsabili di questo prezioso dono divino, ma non tutti allo stesso modo. La Chiesa è un corpo e, per ciò stesso, organicamente costruita, dotata di funzioni diversificate e gerarchizzate. Per cui si parla innanzitutto separatamente della vocazione del teologo (nn. 6-12) e del Magistero dei Pastori (nn. 13-20), quindi si affronta il problema dei rapporti reciproci, nella loro normalità (nn. 21-31) e nella loro “patologia” (nn. 32-41). La conclusione ricorda che la Vergine Maria è, anche per questo ordine di problemi, “un modello ed un sostegno”: in quanto “modello” ci “[…] mostra […] la via dell’accoglienza e del servizio della Parola, ed insieme il fine ultimo da non perdere mai di vista: l’annuncio a tutti gli uomini e la realizzazione della salvezza portata al mondo dal suo Figlio Gesù Cristo” (n. 42) e in quanto “sostegno” aiuta efficacemente tutti coloro che, in qualche modo, si trovano coinvolti nella ricerca di una migliore intelligenza della fede e l’invocano con affetto e con devozione. Infatti, “[…] il teologo è chiamato ad intensificare la sua vita di fede e ad unire sempre ricerca scientifica e preghiera” (n. 8).
Diverse forme dell’obbedienza al Magistero
L’Istruzione, come lo scriba del Vangelo, “estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (8). Nuovo è il quadro complessivo, in un documento del Magistero, della vocazione del teologo e dei suoi rapporti con l’insegnamento autentico dei Pastori: infatti, il tema è toccato solo marginalmente dal Concilio Vaticano II. Relativamente nuova è anche la tipologia delle diverse forme di adesione che i testi magisteriali richiedono (cfr. n. 23): si tratta di una riattualizzazione, opportunamente semplificata e rinnovata, della dottrina classica sulle qualificazioni o note teologiche. Vale la pena indugiare un po’ su questo punto, anche per la sua evidente portata pratica, dal momento che nessun cattolico colto e impegnato dovrebbe ignorare questi princìpi ermeneutici.
1. Innanzitutto vi è l’adesione di fede teologale dovuta non soltanto ai pronunciamenti solenni o definizioni, ma anche al Magistero ordinario e universale: si tratta di una dottrina definita solennemente nel Concilio Ecumenico Vaticano I e ripresa dal Concilio Vaticano II. Questa riaffermazione è particolarmente importante perché è diventato usuale nella letteratura teologica restringere l’adesione di fede al Magistero straordinario, identificando infallibilità con definizione (9). Questo è l’ambito dei dogmi definiti: per esempio, i decreti e i canoni dottrinali del Concilio di Trento e del Concilio Vaticano I, i dogmi dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione corporea della Beata Vergine Maria, e le dottrine che, pur non essendo mai state oggetto di promulgazione solenne, costituiscono tuttavia un patrimonio irrinunciabile per la fede come, per esempio, il Simbolo Apostolico e quello Niceno-Costantinopolitano, la dottrina sull’infallibilità della Chiesa, e così via.
2. A questi pronunciamenti definitivi — siano essi definizioni in senso stretto o dottrine insegnate in modo definitivo — bisogna aderire con fermezza anche se non riguardano direttamente verità di fede: “Quando esso [il Magistero] propone “in modo definitivo” delle verità riguardanti la fede ed i costumi, che, anche se non divinamente rivelate, sono tuttavia strettamente e intimamente connesse con la Rivelazione, queste devono essere fermamente accettate e ritenute” (n. 23). Anche questo è un punto di dottrina particolarmente contestato: secondo certi teologi, il Magistero si dovrebbe limitare strettamente al dato rivelato; rimarrebbero così escluse materie come la filosofia in generale e tutto l’ambito della morale, soprattutto in quanto includente le norme di diritto naturale. In realtà non è difficile capire che il ruolo dei Pastori non è quello di garantire una permanenza puramente accademica e astratta delle verità rivelate, ma deve poterne efficacemente difendere il contenuto e promuoverne l’inserimento nel tessuto della vita. Così esistono presupposti filosofici e conseguenze razionali solidalmente uniti ai dati rivelati considerati in concreto, in modo tale che l’impossibilità di gettare luce su questi punti comprometterebbe la finalità stessa del Magistero: “Il compito di custodire santamente e di esporre fedelmente il deposito della divina Rivelazione implica, di sua natura, che il Magistero possa proporre “in modo definitivo” enunciati che, anche se non sono contenuti nelle verità di fede, sono ad esse tuttavia intimamente connessi, così che il carattere definitivo di tali affermazioni deriva, in ultima analisi, dalla Rivelazione stessa.
“Ciò che concerne la morale può essere oggetto di magistero autentico, perché il Vangelo, che è Parola di vita, ispira e dirige tutto l’ambito dell’agire umano. Il Magistero ha dunque il compito di discernere, mediante giudizi normativi per la coscienza dei fedeli, gli atti che sono in se stessi conformi alle esigenze della fede e ne promuovono l’espressione nella vita, e quelli che al contrario, per la loro malizia intrinseca, sono incompatibili con queste esigenze. A motivo del legame che esiste fra l’ordine della creazione e l’ordine della redenzione, e a motivo della necessità di conoscere e di osservare tutta la legge morale in vista della salvezza, la competenza del Magistero si estende anche a ciò che riguarda la legge naturale.
“D’altra parte la Rivelazione contiene insegnamenti morali che di per sé potrebbero essere conosciuti dalla ragione naturale, ma a cui la condizione dell’uomo peccatore rende difficile l’accesso. È dottrina di fede che queste norme morali possono essere infallibilmente insegnate dal Magistero” (n. 16).
3. Quindi vi è il “religioso ossequio della volontà e dell’intelligenza” (n. 23) dovuto a tutti quegli interventi di carattere dottrinale, che non rientrano però nell’ambito sia delle definizioni solenni del Papa e dei concili che degli insegnamenti proposti come da tenersi in modo definitivo da parte del Magistero ordinario e universale. Ciò avviene “quando il Magistero, anche senza l’intenzione di porre un atto “definitivo”, insegna una dottrina per aiutare ad un’intelligenza più profonda della Rivelazione e di ciò che ne esplicita il contenuto, ovvero per richiamare la conformità di una dottrina con le verità di fede, o infine per mettere in guardia contro concezioni incompatibili con queste stesse verità” (n. 23). “Religioso ossequio” significa che non è sufficiente una qualunque presunzione di verità, come si ritrova comunemente nei rapporti umani, per cui si presume che la persona competente — il medico, l’avvocato, e così via — dica il vero nella sua materia, ma un atteggiamento che si radica nella fede teologale, cioè nella persuasione che il depositario della funzione magisteriale è divinamente assistito nell’adempimento del suo compito: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni […] Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (10). L’”essere con” di Cristo è un dato di fede, ed è quindi “[…] nella logica e sotto la spinta dell’obbedienza della fede” che deve collocarsi il “religioso ossequio della volontà e dell’intelligenza”. Fra la presunzione di verità della vita corrente e l’obbedienza al Magistero vi è una comunanza solo analogica. “Ossequio della volontà e dell’intelligenza” implica che non ci si può accontentare di un atteggiamento esterno, ma vi deve essere lo sforzo sincero di conformarvisi interiormente, appunto perché si tratta di un atto radicato nella fede. Insegnamenti di questo tipo si ritrovano per esempio nei documenti del Concilio Vaticano II, nelle encicliche e nei pronunciamenti più significativi del Magistero ordinario del Papa e dei vescovi sparsi per il mondo. Ma molto spesso si trovano accanto, in modo non sempre facilmente discernibile, a dottrine già altrove definite o definitivamente proposte, e questo fatto deve essere tenuto in adeguata considerazione (11).
4. Infine, come ultimo grado di assenso, il documento parla di una “volontà di ossequio leale” (n. 24) a proposito di “interventi di ordine prudenziale” (n. 24). Si danno quando “[…] il Magistero, allo scopo di servire nel miglior modo possibile il Popolo di Dio, e in particolare per metterlo in guardia nei confronti di opinioni pericolose che possono portare all’errore, può intervenire su questioni dibattute nelle quali sono implicati, insieme ai principi fermi, elementi congetturali e contingenti” (n. 24). In questo campo, per la natura stessa della cosa, “[…] spesso è solo a distanza di un certo tempo che diviene possibile operare una distinzione fra ciò che è necessario e ciò che è contingente” (n. 24). Non ci si deve quindi meravigliare se talora “[…] è accaduto che dei documenti magisteriali non fossero privi di carenze” (n. 24) e che “i Pastori non hanno sempre colto subito tutti gli aspetti o tutta la complessità di una questione” (n. 24). A proposito di questo punto sono stati in molti a gridare allo scandalo: un giornalista ha addirittura accusato il card. Joseph Ratzinger di storicismo (12). Insomma, da una parte ci si straccia le vesti perché la Chiesa non sa adattarsi al mutare dei tempi e rimane ancorata a formulazioni e dottrine ormai superate, dall’altra ci si lamenta che la lettura del passato del Magistero non tiene conto dell’immutabilità della verità: “È venuto Giovanni, che non mangia e non beve, e hanno detto: Ha un demonio. È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori” (13). Un esempio di intervento magisteriale di questo tipo è costituito da tutta la seconda parte della Costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II (14). In generale è l’ambito della “pastorale”, intesa in senso stretto, della “politica” del Magistero, di tutti quei giudizi che si appoggiano su dati di fatto e dipendono dall’esattezza della loro lettura. Quanto più la materia si allontana dalla finalità propria del Magistero, che è essenzialmente religiosa, tanto più tenue si fa l’autorità di questi interventi e, quindi, tanto più possibile e legittimo un motivato e rispettoso dissenso. Anche a questo proposito, tenendo conto che la radice ultima dell’assenso è pur sempre la fede, benché in modo più remoto, “la volontà di ossequio leale a questo insegnamento del Magistero in materia per sé non irreformabile deve essere la regola” (n. 24). Paradossalmente — ma non troppo (15) —, da parte di certe correnti teologiche si tende a dare più valore a certi indirizzi pastorali che all’insegnamento dottrinale o, addirittura, alle definizioni dogmatiche.
Viene spontaneo chiedersi, in tema di autorità dei testi del Magistero, che ne è dei documenti delle Conferenze Episcopali. L’Istruzione si limita a ricordare che, “a seguito della seconda Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei Vescovi, il Santo Padre ha affidato alla Congregazione per i Vescovi l’incarico di approfondire lo “Status teologico-giuridico delle Conferenze Episcopali”” (n. 19, nota 19). Per ora vi è solo un documento non definitivo, che non riconosce alle Conferenze Episcopali in quanto tali una competenza “per stabilire contenuti dogmatici e morali” (16).
Intimo rapporto fra ragione e fede
Fra i princìpi teologici più fecondi richiamati dall’Istruzione dobbiamo certamente annoverare quello dell’intimo e armonico rapporto fra fede e ragione: “La verità donata nella rivelazione di Dio sorpassa evidentemente le capacità di conoscenza dell’uomo, ma non si oppone alla ragione umana. Essa piuttosto la penetra, la eleva e fa appello alla responsabilità di ciascuno” (n. 1); “Di sua natura la fede fa appello all’intelligenza, perché svela all’uomo la verità sul suo destino e la via per raggiungerlo. Anche se la verità rivelata è superiore ad ogni nostro dire ed i nostri concetti sono imperfetti di fronte alla sua grandezza ultimamente insondabile (cf. Ef 3, 19), essa invita tuttavia la ragione — dono di Dio fatto per cogliere la verità — ad entrare nella sua luce, diventando così capace di comprendere in una certa misura quanto ha creduto” (n. 6). È chiaro che la relazione corretta fra fede e ragione non deve essere intesa, soprattutto quando si parla della ragione teologica, come una pura armonia estrinseca, ma come una vera e propria assunzione della ratio nella luce della fede, in un rapporto intimo di compenetrazione (17). La teologia dipende allora strutturalmente dalla fede: essa non parte semplicemente dalla fede, per percorrere poi un cammino per conto suo, ma rimane costantemente nella sua luce. Ne consegue che il teologo non cessa mai di essere un credente e la sua non è una super-fede che lo pone a un livello superiore a quello dei semplici fedeli. La fede, poi, viene dalla predicazione, “fides ex auditu” (18), per cui, nella sua derivazione concreta, si trova in costante dipendenza da un magistero: “La funzione del Magistero non è quindi qualcosa di estrinseco alla verità cristiana né di sovrapposto alla fede; essa emerge direttamente dall’economia della fede stessa, in quanto il Magistero è, nel suo servizio alla Parola di Dio, una istituzione voluta positivamente da Cristo come elemento costitutivo della Chiesa” (n. 14). Ecco fondato teologicamente il rapporto tra teologia e Magistero. Anche a questo proposito il rapporto non è estrinseco e concorrenziale, ma si situa alla radice stessa della teologia. Allora il problema, ricondotto così ai suoi fondamenti, non sta più tanto nella maggiore o minore “docilità” o “obbedienza” del teologo, ma molto più radicalmente nel suo essere veramente teologo o no. La libertà di ricerca correttamente intesa non consiste nel procedere come si vuole, ma nel poter rimanere fedeli al metodo che corrisponde all’oggetto studiato, senza che intervenga nulla di estraneo alle sue esigenze (cfr. n. 12). Nessun fisico di buon senso si lamenta di dover tener conto dei fatti sperimentali e della logica delle formule matematiche, ma eventualmente delle pressioni che, per esempio, un potere politico ideologizzato può esercitare sulla sua ricerca. Ora l’ossequio religioso nei confronti del Magistero è un’esigenza che scaturisce dalla natura stessa della teologia, che è “[…] un sapere razionale il cui oggetto è dato dalla Rivelazione, trasmessa ed interpretata nella Chiesa sotto l’autorità del Magistero, ed accolta dalla fede” (n. 12). Perciò, quando si esige dal teologo una docilità di principio nei confronti del Magistero, non si indulge al moralismo che distingue il “bravo” dal “cattivo” teologo, ma si avanza innanzitutto un’esigenza di scientificità: quindi non “teologo moderato” o “teologo contestatore”, ma “teologo” o un’altra cosa. Padronissimo qualcuno di considerare anche le realtà della fede cristiana da un punto di vista altro rispetto a quello della fede: in questo modo farà storia o psicologia o sociologia della religione cristiana o altro ancora. Si tratta di procedimenti legittimi, purché vi sia la consapevolezza del diverso statuto epistemologico e la lealtà nell’evitare confusioni con la teologia e nell’ammettere che non può trattarsi dell’ultima parola sul fenomeno religioso.
Magistero e teologia
Rispetto alla fede, che è il fondamento, Magistero e teologia intrattengono rapporti diversi. Anche qui occorre “distinguere per unire”: distinguere per evitare ogni confusione che sfocia inevitabilmente in un rapporto di concorrenza, unire per evitare di intendere Magistero e teologia come mondi isolati e autosufficienti. Infatti, entrambi sono inseriti come funzioni differenziate nel tutto che è la Chiesa e condividono la stessa finalità, cioè “[…] conservare il Popolo di Dio nella verità che libera e farne così la “luce delle nazioni”” (n. 21). Qual’è, dunque, la funzione del Magistero? Il Magistero “[…] insegna autenticamente la dottrina degli Apostoli e, traendo vantaggio dal lavoro teologico, respinge le obiezioni e le deformazioni della fede, proponendo inoltre con l’autorità ricevuta da Gesù Cristo nuovi approfondimenti, esplicitazioni e applicazioni della dottrina rivelata” (n. 21). Quale quella della teologia? “La teologia invece acquisisce, in modo riflesso, un’intelligenza sempre più profonda della Parola di Dio, contenuta nella Scrittura e trasmessa fedelmente dalla Tradizione viva della Chiesa sotto la guida del Magistero, cerca di chiarire l’insegnamento della Rivelazione di fronte alle istanze della ragione, ed infine gli dà una forma organica e sistematica” (n. 21). Gli elementi chiave sono: insegnamento autentico — cioè con l’autorità di Cristo — per il Magistero, e intelligenza della fede per la teologia. In ciò risiede la loro differenza formale. Può capitare che il Magistero faccia teologia, ma in questo caso non sono le argomentazioni svolte che contano, ma le conclusioni. Così come può capitare che un teologo “parli con autorità”, ma questa autorità o viene da un mandato del Magistero e allora è una partecipazione alla funzione del Magistero stesso, oppure essa viene dalla sua scienza e competenza, ma è questa una autorità essenzialmente diversa da quella magisteriale e, per sua natura (19) a essa subordinata.
Qualcuno ha fatto leva su alcuni testi di san Tommaso per accreditare un “magistero dei dottori” da porre accanto a un “magistero dei Pastori” (cfr. n. 34, nota 27) (20), il famoso “magistero parallelo” (n. 34). Si tratta di un’interpretazione completamente infondata dei testi tomistici, che non tiene conto né del diverso significato che il termine magisterium aveva all’epoca dell’Aquinate, né del contesto prossimo e remoto in cui si trovano (21). In realtà proprio san Tommaso precisa molto bene la differenza sostanziale fra l’autorità del maestro e quella del Pastore: “Nessuno — dice l’Angelico — per quanto abbia una grande scienza o santità, può predicare se non è mandato da Dio: perché nessun agente può, per sua natura, agire se non su una materia che gli sia proporzionata; ora la predicazione e l’esortazione e la dottrina, se è pubblica e riguardante tutta la Chiesa e la cura pubblica della Chiesa è affidata ai prelati; per cui nessuno deve fare alcunché che richieda l’autorità pubblica, se non i prelati” (22) e ancora: “bisogna stare piuttosto con il giudizio del Papa, a cui appartiene il compito di determinare le cose della fede, che con l’opinione di qualsiasi esperto delle Scritture” (23). Così quando si legge, per esempio, che “l’affermazione di un duplice magistero è tradizionale: la troviamo già in san Tommaso d’Aquino” (24), sappiamo cosa pensare.
Un principio ermeneutico fondamentale
Come si è già capito, proprio in questa differenza fra insegnamento umano e insegnamento autentico sta la chiave di un principio ermeneutico fondamentale dei testi del Magistero: “Uno dei compiti del teologo è certamente quello di interpretare correttamente i testi del Magistero, e allo scopo egli dispone di regole ermeneutiche, tra le quali figura il principio secondo cui l’insegnamento del Magistero — grazie all’assistenza divina — vale al di là dell’argomentazione, talvolta desunta da una teologia particolare, di cui esso si serve” (n. 34). Rifiutare un insegnamento del Magistero perché è male argomentato, o perché è poco plausibile, o perché la dottrina opposta è più probabile, significa puramente e semplicemente espungere il principio stesso di autorità (25). Ed è questo infatti che si nota in molta teologia contemporanea, al riconoscimento puramente formale del principio di autorità si accompagna un suo pratico e sistematico disconoscimento. Le discussioni intorno all’infallibilità sono spesso falsate da un erroneo punto di partenza, che misconosce appunto questo principio. Infatti, si considera l’infallibilità come il motivo dell’assenso, mentre il vero motivo è l’autorità divinamente assistita — garantita dall’”essere con” di Cristo — e l’infallibilità una conseguenza. L’assistenza si estende a tutti gli atti del Magistero, mentre solo alcuni sono garantiti dall’infallibilità. L’infallibilità, in quanto conseguenza, viene colta in modo riflesso, mentre l’intenzione prima porta sull’autorità. A volte si obietta: ma anche il teologo, a suo modo, è assistito, perché anch’egli ha la sua “grazia di stato”. È vero: ma, appunto, è assistito a suo modo, diverso da quello del Magistero. Il Magistero è assistito in vista dell’insegnamento pubblico a tutta la Chiesa, il teologo nel suo personale sforzo di intelligenza della fede. Anche di qualsiasi semplice fedele si può dire che è assistito dallo Spirito Santo (26), ma non per guidare pubblicamente la Chiesa.
Il falso dilemma
L’incomprensione della natura della teologia e del Magistero nella loro diversità e specificità ha come fatale conseguenza di intendere i loro rapporti in modo concorrenziale e dialettico. Di lì il falso dilemma: o teologia conformista che si limita a ripetere l’insegnamento del Magistero (27), o teologia critica che si sente libera di contestarlo. In realtà il dilemma è sofistico, perché vi è un terzo corno: quello della teologia che lavora in modo originale e fecondo in organica subordinazione al Magistero. La subordinazione al Magistero non limita affatto gli spazi di ricerca, così come il dogma non “restringe” il mistero, ma è piuttosto un’introduzione alle sue profondità. A questo proposito bisogna osservare che è proprio una teologia che ha smarrito il senso metafisico della profondità a sentirsi a disagio e allo stretto a causa degli interventi del Magistero. Quando si ha una concezione troppo materiale del proprio oggetto, qualsiasi intervento viene percepito come una riduzione di “spazi”. Ma anche guardando solo all’oggetto materialmente inteso, oggi, nella prospettiva della “seconda evangelizzazione”, i compiti di una teologia fedele alla sua missione sono potenzialmente sterminati. Si pensi alla sfida rappresentata dai cosiddetti “nuovi movimenti religiosi” e dall’ambiguo revival dell’esoterismo e della gnosi (28).
Purtroppo questo dilemma, che gode dell’ampio favore dei mass media, non è solo falso, ma anche estremamente dannoso. La riduzione della teologia a “teologia del dissenso” oscura la dignità dell’autentica teologia e danneggia la sua credibilità presso la vera “base” del popolo di Dio; una “base” silenziosa che, da una parte, è attirata potentemente da tutte le esperienze “forti” di rinnovamento e di approfondimento spirituale — prova ne sono lo sviluppo dei movimenti, la crescita di gruppi di preghiera, l’interesse per le rivelazioni private, e così via — e, dall’altra, concepisce una sempre maggiore diffidenza nei confronti di una teologia accademica, che parla un gergo che le è estraneo e, soprattutto, è troppo arida, ipercritica e distaccata dalla viva Tradizione della Chiesa. Si dà così il rischio che tanti si perdano in uno spiritualismo solo sentimentale o ambiguo o francamente erroneo, per mancanza di supporto dottrinale e di autentico discernimento, mentre alta è la dignità di un vero servizio all’intelligenza della fede e grande la sua utilità per la Chiesa. Certamente non è necessario che tutti siano teologi — in senso stretto —, ma è certamente necessario che qualcuno lo sia. Vengono in mente le sorprendenti parole di santa Teresa d’Avila: “È sempre stata mia opinione e sempre lo sarà, che ogni cristiano deve cercare di frequentare chi è dotto e quanto più lo è, meglio è” (29).
Il falso dilemma favorisce anche un altro pericolo: quello che accanto a una Chiesa “auto-occupata”, cioè tutta presa dalle sue strutture e dai suoi problemi interni, tanto da non avere più tempo per l’evangelizzazione, si installi anche una teologia “auto-occupata”, in cui gli addetti ai lavori sono tutti presi dalle discussioni fra di loro e dalla contestazione del Magistero, tanto da non avere più tempo per l’oggetto della loro disciplina, che è Dio… E questo non manca di risvolti disastrosi per l’apostolato, perché proprio in un momento in cui, dopo il fallimento delle “gnosi di massa”, il rinnovato fascino delle vecchie “gnosi delle élite” (30) manifesta che nell’uomo l’innata sete di mistero e d’intelligenza non si è estinta, si corre il rischio che non vi sia più nessuno che sappia dischiudere, anche per gli uomini del nostro tempo, “l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità” (31) dell’insondabile mistero di Cristo.
Pietro Cantoni
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(1) Filippo Gentiloni, Il Concilio è lontano, in il manifesto, 30-6-1990.
(2) Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Instructio de ecclesiali theologi vocatione, del 24-5-1990, in L’Osservatore Romano, 27-6-1990. La traduzione utilizzata è quella comparsa sul medesimo quotidiano, lo stesso giorno, in inserto tabloid, con il titolo Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo. I riferimenti al documento contenuti nel testo rimandano alla suddivisione in paragrafi.
(3) Un tono “da linciaggio” come si può capire da una semplice scorsa ai titoli: Teologi, pensate poco e state zitti, in l’Unità, 27-6-1990; Teologi, dissentite in silenzio (E rivolgetevi al vescovo, non ai giornali), in La Stampa, 27-6-1990; La Chiesa è infallibile, i teologi le obbediscano (Ratzinger vuole zittire il dissenso), in la Repubblica, 27-6-1990; I teologi rispondono a Ratzinger “Continueremo a usare i media”, in Corriere della Sera, 28-6-1990; Il teologo non accetta il dialogo: deve lasciare la Chiesa, in Il Giorno, 29-6-1990; Non c’è posto per il popolo di Dio, in Il Secolo XIX, 1-7-1990. Naturalmente non poteva mancare l’ennesimo “manifesto” di protesta, datato 12 luglio 1990 e firmato da ventidue teologi tedeschi, olandesi e svizzeri (cfr. ADISTA, anno XXIV, n. 56, 30- 7/4-8-1990, pp. 2-3), a cui ha fatto eco in Italia un editoriale de Il Regno-Attualità (anno XXV, n. 14, 15-7-1990, pp. 400-401), Richiesta di speranza. Come ha osservato mons. Camillo Ruini, segretario della Conferenza Episcopale Italiana, in un’intervista: “La dichiarazione tedesca […] è dura e anche sprezzante. Diverso è il tono dell’editoriale del “Regno”. La presentazione iniziale delle idee fondanti dell’Istruzione, sebbene molto sintetica, è ben fatta e anche acuta. Genera così nel lettore un’impressione di pacatezza e di oggettività. Poi vengono le critiche, in un crescendo che, sul piano sostanziale, non è poi molto più benevolo della presa di posizione dei tedeschi. La forma rimane però meno direttamente aggressiva, e proprio per questo, senza paradossi, può essere più pericolosa” (ADISTA, anno XXIV, n. 56, cit., p. 5).
In tema di “manifesti”, cfr. il mio Il Magistero contestato, in Cristianità, anno XVII, n. 174, ottobre 1989.
(4) Cfr. Alain Peyrefitte, Le Mal français, Plon, Parigi 1976; trad. it. Il male latino. La Francia, i francesi e l’Europa, Società Editrice Internazionale, Torino 1978. All’aggressione anticattolica — dal momento che il “male francese” sarebbe appunto il cattolicesimo — ha risposto Jean Dumont, Erreurs sur le “Mal français”, ou le trompe-l’oeil de M. Peyrefitte, Vernoy, Ginevra 1979.
(5) Cfr. André Naud, Il Magistero incerto, trad. it., Queriniana, Brescia 1990, pp. 19-38; e la sua presentazione in ADISTA, anno XXIV, n. 52, 5/6/7-7-1990, p. 12.
(6) Sant’Anselmo d’Aosta, Proslogion, Proemium.
(7) San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 1, a. 3 ad 2.
(8) Mt. 13, 51.
(9) Il Concilio Vaticano I si esprime così: “Per fede divina e cattolica si devono credere tutte quelle cose, che sono contenute nella parola di Dio scritta o tramandata, e che vengono proposte a credere dalla Chiesa o con solenne definizione o con ordinario e universale Magistero come verità rivelate da Dio” (Costituzione dogmatica Dei Filius, c. 3, in DS 3011). La stessa dottrina è ripresa dal Concilio Vaticano II con queste parole: “Quantunque i singoli vescovi non godano della prerogativa dell’infallibilità, quando tuttavia, anche dispersi per il mondo, ma conservanti il vincolo della comunione fra di loro e con il successore di Pietro, nel loro insegnamento autentico circa materie di fede e di morale s’accordano su una dottrina da ritenersi come definitiva, propongono infallibilmente la dottrina di Cristo” (Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 25). Alcuni, facendo leva sulle formule “come rivelata da Dio” e “da ritenersi come definitiva”, vogliono ricondurre questa modalità di esercizio del Magistero alla modalità straordinaria della definizione, applicando anche qui le stesse condizioni della definizione ex cathedra del Sommo Pontefice. Ma è un’interpretazione insostenibile: infatti, il Concilio Vaticano I contrappone il modo straordinario della definizione all’esercizio ordinario del Magistero — “sive solemni iudicio sive ordinario et universali magisterio” — e il Concilio Vaticano II parla, nella frase seguente a quella citata, di “definizioni” come di qualcosa di distinto dall’insegnamento “da tenersi in modo definitivo”. Le definizioni, a parte quelle del Papa, si sono sempre avute in un concilio ecumenico, mentre, a tutt’oggi, non vi sarebbe mai stata nessuna “definizione” da parte del collegio dei vescovi disperso per il mondo. Si parla quindi di insegnamento “da tenersi in modo definitivo” solo per distinguerlo da quanto è proposto come opinione o come intervento contingente. Indica quell’insegnamento che i Pastori hanno l’obbligo di trasmettere e i fedeli di accogliere e costituisce il nucleo sostanziale della Tradizione in senso attivo. Quindi è evidente che l’esercizio del Magistero conosce due modalità irriducibili l’una all’altra: quella dell’insegnamento ordinario e quella della definizione straordinaria. Entrambe queste realtà sono garantite infallibilmente. L’una, quella straordinaria, sempre, ex ipsa natura rei. L’altra solo quando è espressione della fede di tutta la Chiesa, Magistero ordinario e universale. Altro problema è quello dei criteri con cui discernere con certezza quando si dà esercizio di Magistero ordinario infallibile. Mentre la dottrina sull’esistenza del Magistero ordinario infallibile è certa ed è definita, così come quella sui criteri del Magistero straordinario — sono le quattro condizioni enunciate nella Costituzione dogmatica Pastor Aeternus, c. 4, in DS 3074 —, altrettanto non si può dire per i criteri dell’infallibilità del Magistero ordinario. Certamente l’universalità e la definitività della proposizione sono condizioni sicure, tuttavia non è sempre facile discernerle, posto che il Magistero ordinario, di norma, è quello dei vescovi dispersi nel mondo. Qualcuno ha affermato, con solidi argomenti, che la continuità ininterrotta, per un certo periodo di tempo, di un insegnamento ordinario del Papa, in quanto principio e segno dell’unità cattolica, costituisce un criterio sicuro che tutta la Chiesa così crede o tiene fermamente. Queste sono però soltanto, per ora, delle opinioni teologiche: cfr. Paul Nau O.S.B., Le Magistère pontifical ordinaire, lieu théologique, in Revue Thomiste, anno LXIV, tomo LVI, n. 3, luglio-settembre 1956, pp. 389-412; e Fidelis M. Gallati O.P., Wenn die Päpste sprechen. Das ordentliche Lehramt des apostolischen Stuhles und die Zustimmung zu dessen Entscheidungen [Quando i Papi parlano. L’insegnamento ordinario della cattedra apostolica e l’assenso alle sue decisioni], Herder, Vienna 1960. Ma, allora, come si deve comportare concretamente un fedele — e quindi anche un teologo — di fronte ai pronunciamenti del Magistero ordinario? Appunto: deve aver chiaro che la ragione dell’obbedienza al Magistero non è la sua infallibilità, ma la sua autorità religiosa, cioè il fatto che è divinamente assistito. Davanti a un singolo pronunciamento sa che, accidentalmente, potrebbe anche essere erroneo, tuttavia sa anche che, di regola, la sua verità è soprannaturalmente garantita. In certi casi, poi, può disporre di criteri che gli fanno per lo meno dubitare che l’insegnamento sia infallibile.
(10) Mt. 28, 19-20.
(11) Il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede infatti qui restringe e precisa la portata del termine “religioso ossequio della volontà e dell’intelligenza” così come è usato nel Concilio Vaticano II. Il Concilio infatti dice: “Questo religioso ossequio della volontà e dell’intelligenza lo si deve in modo particolare prestare al Magistero autentico del romano Pontefice, anche quando non parla “ex cathedra”” (Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 25). Quindi esso ingloba anche l’assenso che deve essere prestato alle definizioni. Nel corso della discussione che ha preceduto la promulgazione del testo, qualcuno propose di precisare questa formulazione, dicendo che il religioso ossequio si doveva distinguere da un assenso assoluto e irreformabile. La Commissione Teologica rispose che “il Magistero ordinario spesso propone dottrine che appartengono già alla stessa fede cattolica” (Constitutionis Dogmaticae Lumen Gentium Synopsis Historica, a cura di Giuseppe Alberigo e Franca Magistretti, Istituto per le Scienze Religiose, Bologna 1975, p. 532).
(12) Cfr. Giancarlo Zizola, Caro Ratzinger, più rispetto per la libertà, in Il Giorno, 9-7-1990. Lo stesso giornalista, fra i clamorosi errori di cui si sarebbero macchiati i Papi, elenca anche “un lungo silenzio sulla tratta dei neri”. In realtà i Papi la condannarono ripetutamente, accompagnando alla condanna la scomunica dei colpevoli: Eugenio IV, nel 1434; Pio II, nel 1462; Sisto IV, nel 1476; Paolo III, nel 1537 e nel 1538; Pio V, nel 1567-1568; Urbano VIII, nel 1639; Innocenzo X, nel 1683; Benedetto XIV, nel 1741; e Gregorio XVI nel 1839, ma, purtroppo, anche allora non furono ascoltati anche da tanti cattolici, e un certo “dissenso”, sebbene con altri modi e sotto altre forme, fece sì che le loro parole restassero in gran parte lettera morta: cfr. J. Dutilleul, voce Esclavage, in Dictionnaire de Théologie Catholique, vol. V, Parigi 1939, coll. 457-520; e Alberto Placucci, Chiese bianche schiavi neri. Cristianesimo e schiavitù negra negli Stati Uniti d’America (1619-1865), Gribaudi, Torino 1990. Qualcosa di analogo accadde anche a proposito del comunismo. Oggi certamente comprendiamo meglio quanto sarebbe stato opportuno prestare maggiore attenzione alle ripetute e profetiche condanne con cui i Papi hanno denunciato questa “vergogna del nostro tempo”, a partire dal 1846, due anni prima della pubblicazione del Manifesto del Partito comunista: sul carattere profetico e sull’incomprensione che ha spesso circondato il Magistero nelle sue valutazioni circa la “mortale ambiguità” del moderno processo di liberazione, di cui il comunismo è momento rilevantissimo, cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione su libertà cristiana e liberazione “Libertatis conscientia”, del 22-3-1986, n. 20; sulla drastica qualificazione del mondo costruito dalla Rivoluzione comunista, cfr. Idem, Istruzione su alcuni aspetti della “teologia della liberazione” “Libertatis nuntius”, del 6-8-1984, XI, 10.
(13) Mt. 11, 18-19.
(14) Cfr. Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, nota al titolo.
(15) Il card. Joseph Ratzinger, in uno scritto di quindici anni fa, osservava acutamente come l’insistenza sul “pluralismo” teologico sfoci in definitiva in un totalitarismo della prassi: cfr. Commissione Teologica Internazionale, Pluralismo. Unità della fede e pluralismo teologico, Edizioni Dehoniane, Bologna 1974, p. 11. Così si può tranquillamente dissentire dal Magistero romano, ma non è ammesso criticare i catechismi nazionali; si può discutere sui dogmi, ma non celebrare secondo il Messale preconciliare, e così via.
(16) Congregazione per i Vescovi, Instrumentum laboris “Le conferenze episcopali” sullo “status” teologico e giuridico delle conferenze episcopali, 1-7-1987, in Enchiridion Vaticanum, vol. 10, 1888.
(17) San Tommaso d’Aquino ricorre, per descrivere questo rapporto, a una metafora ardita: “Si può dire che quando qualcosa passa sotto il dominio di qualcos’altro non è considerato misto, se non quando ciascuno viene alterato nella sua natura. Per cui quelli che si servono degli insegnamenti filosofici nel campo della sacra dottrina riconducendoli a servizio della fede, non mescolano l’acqua al vino, ma cambiano in vino l’acqua” (Expositio super librum Boethii De trinitate, q. 2, a. 3, ad 5).
(18) Rm. 10, 17.
(19) Secondo un terminologia inaugurata da padre Innocenty Maria Bochenski O.P. l’autorità del teologo è di tipo epistemico — autorità del “sapiente” —, mentre quella del Magistero è di tipo deontico — autorità del “capo”: cfr. Was ist Autorität? Einführung in die Logik der Autorität [Che cos’è l’autorità? Introduzione alla logica dell’autorità], Herder, Friburgo in Brisgovia 1974. Quest’ultima è radicata nella grazia — nel carisma dell’assistenza divina —, mentre la prima è radicata nello sforzo umano, anche se procedente dalla fede. Così come lo sforzo umano è subordinato alla grazia e la ragione alla fede, l’autorità dei teologi è subordinata a quella dei Pastori.
(20) San Tommaso d’Aquino distingue fra “magisterium cathedrae pastoralis” e “magisterium cathedrae magisterialis” (Contra impugnantes Dei cultum et religionem, c. 2; Quaestiones quodlibetales III, q. 4, a. 1 [9]; e Idem, Commentum in Libros Sententiarum magistri Petri Lombardi, IV, 19, 2, 2, q. 3, sol. 2 ad 4).
(21) Cfr. Étienne Ménard O.P., La Tradition. Révélation, Écriture, Église selon Saint Thomas d’Aquin, Desclée de Brouwer, Bruges-Parigi 1964, pp. 172-186. Per non parlare poi di chi lo ha inteso come distinzione fra “magistero della cattedra magisteriale”, che impegna alla fede e quello “della cattedra pastorale”, soggetto a correzioni successive, come l’enciclica Humanae vitae…: cfr. Il Risveglio popolare, il settimanale diocesano di Ivrea, 5-7-1990.
(22) San Tommaso d’Aquino, Quaestiones quodlibetales, XII, q. 18, a. 1 [27].
(23) Ibid., IX, q. 8, a. un. [16].
(24) A. Naud, op. cit., p. 165.
(25) Con ciò si crede di avere affermato senz’altro la propria libertà. Vale la pena invece di meditare queste sagge parole di un illustre logico contemporaneo: “Un filosofo americano di spicco ha detto una volta che la nostra epoca è l’epoca dell’analisi [nel senso aristotelico di logica formale (ndr)]. Io direi che viviamo proprio, in uguale misura, nell’epoca dell’autorità. Molti uomini lo sentono e vogliono liberarsi dall’autorità, dicono di essere anti-autoritari. Se però si osservano proprio i più radicali avversari dell’autorità, allora si trova quasi sempre che essi stessi obbediscono a un’autorità, certamente diversa da quella che combattono, ma pur sempre un’autorità. Che lo si voglia o no noi viviamo nell’epoca dell’autorità” (I. M. Bochenski O.P., op. cit., p. 9).
(26) Cfr. Rm. 6, 14.
(27) Juan José Tamayo, segretario dell’Associazione Teologica Giovanni XXIII, ha dichiarato al quotidiano El País (28-6-1990) che l’Istruzione “lascia ai teologi un unico compito, quello di essere la claque del magistero ecclesiastico” (ADISTA, anno XXIV, n. 52, cit., p. 3).
(28) Attira vigorosamente l’attenzione su questo punto mons. Kurt Krenn, vescovo ausiliare di Vienna: Zur Situation heutiger Theologie angesichts einer Neuevangelisierung Europas [Sulla situazione della teologia contemporanea di fronte a una nuova evangelizzazione dell’Europa], Verlag Zeitung “Der 13”, Kleinzell 1989, soprattutto pp. 15-17.
(29) Santa Teresa de Jesús, Libro de la Vida, cap. 13, 18, in Idem, Obras completas, Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 1974, p. 68.
(30) Cfr. Massimo Introvigne, Settemila volte sette, in Il Sabato, anno XIII, n. 37, 15-9-1990, pp. 44-47.
(31) Ef. 3, 18. Questo è il compito della teologia, come lo ha inteso uno dei suoi più grandi maestri: cfr. san Bonaventura da Bagnoregio, Breviloquium, Prologus.