S. FRANCESCO da PAOLA (1416-1507)

Questo straordinario taumaturgo, fondatore dell’Ordine dei Minimi, e patrono dei marittimi italiani dal 1943 per volere di Pio XII, nacque il 27-3-1416 a Paola (Cosenza) dal contadino Giacomo degli Alessi, che l’ottenne, per intercessione di S. Francesco d’Assisi, dopo parecchi anni di sterilità della moglie. Quando nacque, i paolani videro ardere un fuoco misterioso sulla casa di lui. Francesco era ancora in fasce quando fu affetto da un tumore ad un occhio. I genitori fecero voto che, se guariva, per un anno lo avrebbero posto al servizio di un convento francescano rivestito del saio. Il piccino guarì, crebbe innocente e incline alla preghiera, alla penitenza e al pianto.

Francesco non potè frequentare le scuole, ma la mamma gl’insegnò presto ad amare Dio e a praticare la virtù. Un giorno lo sorprese a recitare il rosario inginocchiato per terra con il capo scoperto. “Perché – gli disse – non ti copri quando preghi così a lungo?”. “Madre mia – le rispose il figlio – se io parlassi alla regina, tu mi comanderesti di restare a capo scoperto. Quando ci si rivolge alla regina del cielo non è troppa cosa parlarle in ginocchio e a testa scoperta”. Un’altra volta lo esortò ad andare a ricrearsi con i coetanei. “Madre mia – le rispose il figlio – vi andrò se me lo comanderai. Per parte mia trovo tutta la mia gioia nell’intrattenermi con Dio pregando”.


Quando Francesco compì 12 anni i genitori lo condussero al convento di San Marco Argentano (Cosenza). Colà egli, dato in aiuto al sacrestano, al cuoco, all’infermiere, non solo seguì tutte le prescrizioni della regola, ma soddisfece alla sete che sentiva di preghiera e di penitenza. Finché visse il suo cibo consistette d’ordinario in pane, acqua e verdure. Digiunò quasi quotidianamente e non mangiò mai carne o latticini. Dormì poche ore di notte disteso sovente per terra e con una pietra per guanciale. Il resto del tempo lo passò a pregare in ginocchio e con le braccia aperte. Si flagellò fino a cospargere di sangue le pareti della cella e della chiesa dove si rifugiava appena era libero dalle occupazioni.


Un giorno il P. Guardiano gli ordinò di far cuocere il cibo al posto del cuoco assente. Prima di accendere il fuoco Francesco volle andare a fare visita a Gesù sacramentato. Quando la campanella diede il segnale del pranzo egli era ancora in chiesa, rapito in estasi. Andò il P. Guardiano a richiamarlo alla triste realtà, ma il Santo, senza scomporsi, corse al fornello spento, fece un segno di croce e la refezione ordinaria fu pronta in un istante. I francescani avrebbero tenuto volentieri con sé quel giovanotto che si faceva trovare nello stesso tempo in chiesa e in refettorio, ma Dio altri disegni aveva sopra di lui.


Dopo un anno Francesco ritornò in famiglia, pellegrinò con i genitori a Roma e ad Assisi, visitò a Monteluco, presso Spoleto, gli eremiti di S. Isacco abate, e a Montecassino la tomba di S. Benedetto. Prima di far ritorno a Paola egli chiese e ottenne dai pii genitori il permesso di vivere in solitudine in una grotta lunga otto palmi, larga cinque e alta sette. Per sei anni il padre gli portò lo scarso nutrimento di cui aveva bisogno, e il demonio lo costrinse a lunghe e terribili lotte che egli vinse gettandosi nudo nell’acqua gelida di un torrente. Un giorno dinanzi alla sua grotta si arrestarono dei cani che inseguivano un capriolo. I cacciatori sopraggiunti rimasero meravigliati di trovarvi un giovane eremita, ne diedero notizia ai compaesani che subito accorsero a lui per esporgli i loro dubbi e raccomandarsi alle sue preghiere. Un miracolo contribuì a divulgarne per ogni dove la santità. Essendo il regno di Napoli sconvolto dalla peste, egli diede ad un visitatore il suo mantello perché lo gettasse in un fiume. Gli aveva assicurato che tutti coloro che avrebbero bevuto l’acqua di quel fiume sarebbero guariti o sarebbero stati preservati dal flagello. L’afflusso dei pellegrini all’eremitaggio aumentò. Al Santo accorsero pure giovani desiderosi di condividerne la vita penitente. Francesco chiese all’arcivescovo di Cosenza, Bernardino Caracciolo, il permesso di erigere a Paola una chiesetta con alcune celle. A lavori avanzati gli apparve San Francesco d’Assisi e gli ordinò di costruire un convento più grande perché, nonostante la sua povertà, Iddio non lo avrebbe abbandonato. Il giorno dopo infatti il barone di Belmonte, risanato da un doloroso ascesso alla coscia, gli portò una somma considerevole di denaro alla quale altre se ne aggiunsero da parte dei guariti.


Francesco dispiegò una sorprendente attività durante i lavori di costruzione del monastero e operò dei miracoli che hanno dell’incredibile. Al tocco del suo bastone zampillarono acque; al tocco della sua mano si spaccarono pietre; al timbro della sua voce macigni franati dalla montagna arrestarono il loro corso e blocchi enormi di pietra diventarono leggeri come fuscelli nelle mani degli operai. A Giovanni della Rocca fece una volta trasportare per i sentieri scoscesi di una collina due travi, una stava posta sulle spalle e l’altra sotto le ascelle. Egli stesso entrò più volte in una fornace ardente senza soffrirne danno; immerse le mani in acqua bollente senza scottarsi; accese con un soffio le candele dell’altare; fece cuocere dei legumi e della calce senza fuoco. A una paralitica pose le mani sul capo e la guarì dicendole: “Porta delle pietre alla mia fabbrica”.


Durante i lavori Francesco era di frequente seguito da un agnello che chiamava Martinello. Alcuni ghiottoni glielo rubarono e dopo averlo divorato, ne gettarono la pelle e le ossa nella fornace della calce. Appena lo seppe Francesco si recò all’imboccatura di essa e gridò: “Martinello, Martinello, vieni qua”. Immantinente l’agnello gli comparve davanti a prendere il cibo, come d’ordinario, dalle mani di lui. Lo stesso avvenne di una trota di cui si era presa una cura tutta particolare. Il ladro l’aveva già fatta friggere, ma il Santo la rivolle ad ogni costo. Gli fu riportata che era a pezzi, la mise nell’acqua e all’improvviso rivisse. Francesco risuscitò pure diverse persone morte. Suo nipote, Nicola, aveva sovente manifestato allo zio il desiderio di abbracciare con lui la vita religiosa, ma la madre non glielo aveva permesso. Un giorno cadde ammalato e morì. Gli furono fatte le esequie nella chiesa che Francesco aveva costruito, ma al momento di deporlo nella fossa, il Santo ordinò che fosse portato nella sua cella. Davanti al cadavere del nipote pregò a lungo, pianse, poi si distese come Eliseo sopra di lui, e lo restituì alla sorella che, ignara del prodigio, era venuta il giorno dopo per piangere il figlio.


Più sorprendente ancora dei miracoli era la penitentissima vita che Francesco conduceva, la sua continua orazione e unione con Dio. Un giorno tre suoi religiosi lo trovarono in chiesa in estasi, sollevato da terra, con il volto in fiamme e sulla testa tre corone luminose. Mentre pregava apparve a Francesco l’arcangelo S. Michele, con uno scudo al braccio, recante a lettere d’oro la parola Charìtas. Egli la prese come motto del suo Ordine. Un giorno mentre meditava l’amore che Dio aveva mostrato agli uomini con la sua passione e l’invio dello Spirito Santo, andò in estasi, fu trasportato da un serafico ardore sulla punta di un albero dove fu visto piangere e udito sospirare: “O Dio, carità! O Dio, carità!”. Tutta la sua attività fu sempre volta all’estinzione degli odi, degli egoismi, delle ingiustizie sociali e della corruzione, richiamando gli uomini dal rinascente paganesimo alla pratica della vita cristiana.


Austero con sé stesso, Francesco fu tenero all’estremo con i suoi religiosi. Nelle correzioni che era costretto a fare, egli mescolava sempre l’olio della misericordia con il vino forte della giustizia. Di tutti si faceva servo smacchiando e rammendando gli abiti, servendo in refettorio, scopando il convento, zappando l’orto. In esso coltivava una quantità di erbe che poi dava o spediva agli infermi per occultare la sua virtù taumaturgica. Finché visse volle restare per umiltà nella condizione di laico. Iddio gli aveva affidato l’apostolato del miracolo ben più efficace di quello della parola.


Nel 1444 gli abitanti di Paterno (Cosenza) chiesero al santo la fondazione di un convento. Durante i nove anni che egli rimase tra loro a presiederne la costruzione e l’organizzazione, ai prodigi già operati a Paola altri ne aggiunse. Una collina che ostacolava la costruzione della chiesa fu vista abbassarsi in un attimo ad un suo cenno. Più volte sfamò gli operai con quanto sarebbe bastato per una sola persona. In un istante fece nascere e crescere sette alberi di castagno da sette castagne poste sotto terra. Con un cenno spaccò in due un grande albero che ostruiva la strada che conduceva alla chiesa e fece retrocedere di parecchi metri ciascuna metà senza che nè l’una né l’altra seccasse. Un teste oculare assicurò che Francesco guarì in un solo giorno 200 persone.


I medici del paese sollecitarono il P. Antonio Scozetti OFM., a predicare contro i sortilegi dell’eremita. Vedendo costui che i suoi sermoni lasciavano indifferenti gli uditori, pensò di andare a parlare direttamente a Francesco per esortarlo a porre fine alle sue imposture. Per tutta risposta il Santo prese dal caminetto dei carboni ardenti nelle mani e, senza scottarsi, li offrì al predicatore stupefatto dicendogli: “P. Antonio, per carità, scaldatevi, perché ne avete grande bisogno!”.


Altri conventi Francesco fondò a Spezzano ( 1453 ), Corigliano ( 1458) e Crotone (1460) operando dovunque strepitosi miracoli e rivolgendo talora pie esortazioni ai fedeli perché osservassero i comandamenti di Dio. A certi malati diceva: “Volete guarire davvero? Confessatevi”. A tante donne ottenne la sospirata maternità con una benedizione o mandando loro una candela benedetta. Con due fichi, fatti comparire fuori stagione, rese contenta anche una sterile annosa.


Dalla Calabria Francesco passò a Milazzo (Messina) pressato dalle richieste dei suoi parenti colà residenti (1464). In riva al mare chiese per carità ad un battelliere, diretto con un carico di legname a Messina, di esservi trasportato con i suoi due confratelli. L’avaro si rifiutò e allora Francesco inalberò il suo mantello al bastone, lo distese sul mare, lo benedisse e partì tra le grida di ammirazione dei rivieraschi. Sbarcò vicino al luogo in cui venivano impiccati gli scellerati. Ne trovò uno penzolante da tre giorni dal capestro. Lo fece sciogliere e, appena lo ebbe tra le braccia, gli rese la vita del corpo e dell’anima.


Quando Francesco ritornò in Calabria (1468) per altre fondazioni e per confermare i suoi religiosi nell’osservanza delle austere consuetudini loro lasciate, ricevette la visita di un prelato di papa Paolo II, ansioso di rendersi conto del genere di vita dell’Ordine dei Minimi e dei miracoli del fondatore la cui fama correva per tutta l’Italia. Alla presenza dell’inviato papale, rinnovò egli il prodigio dei carboni ardenti. Tenendoli in mano senza scottarsi, gli disse: “Voi vedete quello che faccio per virtù di Dio. Se, lo ameremo davvero, non crediate che sia impossibile vivere tra le più grandi austerità e penitenze”. Sisto IV pose l’Ordine dei Minimi alle immediate dipendenze della Santa Sede (1474). Alessandro VI riconoscerà (1492) Francesco superiore generale dell’Ordine con la facoltà di preparare le regole definitive. Il santo eremita ne approfittò per estendere le sue fondazioni anche nel napoletano.


Ferdinando I d’Aragona in principio gli fu ostile. Allora Francesco, come aveva già predetto la caduta di Costantinopoli nelle mani di Maometto II, sultano dei turchi (1453), così predisse al suo sovrano il saccheggio di Otranto se non si emendava. La città cadde in potere dei maomettani nel 1480. Essi uccisero col vescovo 800 cristiani. Il generale incaricato di andarla a liberare passò da Paterno per raccomandarsi alle preghiere del santo. Questi lo assicurò che i nemici sarebbero stati ricacciati e che i combattenti sarebbero ritornati tutti sani e salvi. A loro salvaguardia gli consegnò un cero benedetto. L’avvenimento confermò la predizione: soltanto il mulattiere del generale, che si era fatto beffe del cero benedetto, morì di peste.


La fama dei miracoli che Francesco di continuo operava giunse anche alle orecchie di Luigi XI, re di Francia. Siccome era afflitto da una grave malattia e desiderava guarire, supplicò Sisto IV a mandargli il taumaturgo. L’eremita accolse l’invito del pontefice come un ordine del cielo. Del resto, vent’anni prima egli aveva predetto quel viaggio in Francia a dorso di un asinello. Ovunque egli passò fu accolto in trionfo.


A Napoli il re avrebbe voluto averlo suo commensale. Non ci riuscì e allora pensò di mandargli un piatto di pesci stupendi. Appena li vide il santo tracciò un segno di croce su di loro, li fece rivivere e li consegnò al paggio perché li riportasse al re con la raccomandazione di rimettere in libertà i carcerati. Pensando Ferdinando I che il santo potesse avere bisogno di denaro per la costruzione di un monastero in Napoli gli offrì molte monete d’oro. Il santo le rifiutò perché il governo del re non era gradito a Dio e non era accetto agli uomini. Prese quindi una moneta, la spezzò, ne fece uscire diverse gocce di sangue ed esclamò: “Ecco, o re, il sangue dei tuoi poveri vassalli che grida al cielo! Se non ti emenderai la tua casa perderà il regno!”.


A Roma Sisto IV lo ricevette più volte in udienza. Gli manifestò il desiderio che aveva di consacrarlo sacerdote lui stesso, ma il santo si limitò a chiedergli la facoltà di benedire corone e ceri da inviare ai malati e occultare in tale modo il suo potere taumaturgico. Al papa parlò pure del voto della quaresima perpetua che intendeva stabilire come regola nel suo Ordine, ma il pontefice si mostrò restio a concederglielo. Francesco prese allora per mano il cardinale nipote presente, Giuliano della Rovere, ed esclamò: “Santo Padre, ecco colui che mi concederà quello che oggi voi mi rifiutate”. Egli annunciava così l’elevazione alla tiara di Giulio II il quale approvò l’austera regola dei Minimi nel 1505. Tra gli altri principi che fecero visita a Francesco durante la sua permanenza a Roma ci fu pure Lorenzo de’ Medici. Nell’accomiatarsi da lui raccomandò al figlioletto Giovanni di baciare la mano al monaco. A quel gesto il taumaturgo gli disse: “Almeno, figliolo mio, quando voi sarete papa, io sarò santo”.


Francesco sbarcò in Francia (1483) poco lontano da Bormes, in quel tempo in preda alla peste. La sua comitiva si voleva lasciare fuori della città. “Per carità – supplicò allora il santo – lasciateci entrare, Dio è con noi”. Si recò al lazzaretto e con un semplice segno di croce restituì la salute a quanti vi erano curati. Luigi XI mandò il delfino, il futuro Carlo VIII, ad incontrarlo ad Amboise. A Plessis-lez-Tours, dove risiedeva il re, lo ricevette con tutti gli onori, gli si gettò ai piedi e lo supplicò di guarirlo dai suoi mali. “La salute e la vita dei re – gli rispose l’eremita – sono nelle mani di Dio che ha contato tutti i loro giorni. E a lui che bisogna rivolgersi con la preghiera”. Dopo molte penitenze e orazioni gli annunciò che Iddio aveva decretato di non restituirgli la desiderata salute. Luigi XI ricevette la triste notizia, contro ogni aspettativa, con grande rassegnazione e calma. Sotto la direzione di Francesco si preparò al gran passo, che fece il 4-8-1483 secondo le predizioni di lui, riparando le ingiustizie commesse e ricevendo frequentemente i sacramenti.


Il soggiorno di Francesco alla corte di Francia per venticinque anni, ebbe il vantaggio di metterlo in condizione di propagare maggiormente il suo Ordine. Vivente Luigi XI egli si era fatto preparare un semplice eremitaggio nel parco reale. Carlo Vili lo sostituì con un celebre convento (1491) al quale assegnò grandi rendite per il sostentamento dei religiosi.


Si sentiva legato da riconoscenza al santo per le vittorie che gli aveva ottenuto in guerra e per il matrimonio che gli aveva consigliato di fare con Anna, figlia del duca di Bretagna, che portò in dote al monarca la splendida provincia. Francesco fondò, con l’aiuto del re Ferdinando il Cattolico, il convento di Malaga (Spagna), in seguito all’avveramento di una sua profezia.


Avendo saputo per rivelazione che il re, all’assedio della città, in mano dei mori, stava per desistere dall’impresa, scoraggiato, spedì due religiosi suoi a dirgli: “Fatevi coraggio, entro tre giorni Dio vi renderà padrone, della piazzaforte”. Prestò fede il saggio re a quelle parole e, in riconoscenza del trionfo conseguito, fece costruire in Malaga la chiesa di Nostra Signora delle Vittorie e l’affidò ai Minimi.


La notte del 15-1-1507 Francesco udì una voce che lo chiamava al premio eterno. Da quel momento non uscì più dalla cella per moltiplicare le preghiere e le penitenze. Il giovedì santo, dopo aver raccomandato ai suoi religiosi la carità e l’osservanza della perpetua astinenza dalle carni, si fece condurre in chiesa dove ascoltò per l’ultima volta la Messa e si comunicò con la corda al collo, i piedi nudi e le mani giunte. In cella ottenne di essere disteso sopra una grossa croce che si era fatto preparare. Sentendosi mancare le forze, si fece leggere i sette salmi penitenziali, le litanie dei santi e la passione secondo S. Giovanni. Come Gesù anche lui pregò in lacrime: “Nelle tue mani, Signore, raccomando il mio spirito”.


Morì il 2-4-1507 a Plessis-lez-Tours dopo aver mormorato: “Amabile Gesù, buon Pastore, conservate i giusti, giustificate i peccatori, abbiate misericordia di tutti i fedeli defunti e siate propizio a me, misero peccatore”.


Leone X canonizzò S. Francesco da Paola nel 1519. Nel 1562 gli ugonotti ne bruciarono il corpo rimasto fino allora incorrotto.


 


Sac. Guido Pettinati SSP,


I Santi canonizzati del giorno, vol. 4, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 14-21.


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