Questo santo dell’Ordine dei Trinitari, soprannominato l’«estatico» a causa dei frequentissimi rapimenti ai quali andava soggetto, nacque il 29-9-1591 a Vich, nella Catalogna (Spagna), settimo degli otto figli che Enrico Argemir ebbe da Margherita Monserrada, entrambi di nobile prosapia, ma decaduti dalla primitiva grandezza. Al fonte battesimale gli fu imposto il nome di Michele. Il padre, notaio e consigliere della municipalità, prima di dedicarsi al proprio lavoro andava ad ascoltare ogni mattina la Messa con i figli più grandicelli e la sera recitava in casa, con la servitù e i familiari, il rosario. Michele, dotato d’eccellente indole e di precoce intelligenza, apprese dai genitori a rivolgere presto la mente e il cuore a Dio, a ubbidire anche al precettore, ad essere paziente coi fratelli, servizievole con i compagni e caritatevole con gl’infelici.
Fin da piccino il santo dimostrò un invincibile orrore al peccato e un vivo desiderio di vita penitente. Si trastullava costruendo altarini, cantando lodi sacre o ripetendo le cerimonie liturgiche che aveva visto compiere in chiesa. Passava lungo tempo del giorno nell’oratorio domestico dove conduceva altri ragazzini ai quali raccomandava di essere buoni e ubbidienti. Più volte fu sorpreso a piangere, mentre baciava il crocifisso, accoccolato in un angolo solitario. Alla lettura della vita dei santi anacoreti, concepì l’idea di ritirarsi a fare vita eremitica nella grotta di Montseny, nei pressi della città, con alcuni compagni infervorati dal suo zelo. Il padre naturalmente vi si oppose. Gli concesse soltanto di osservare il digiuno quaresimale tre volte la settimana, e di distribuire ai poveri quanto sottraeva ai pasti. Michele si applicò pure alle spalle una croce di legno cosparsa di punte di ferro e prese a trascorrere la notte adagiato sovente sopra dei sarmenti con una pietra sotto il capo. Si disciplinava con delle corde e un giorno, mentre i suoi familiari vendemmiavano, s’inoltrò in un bosco per avvoltolarsi in un cespuglio di rovi tanto sentiva prepotente il bisogno di soffrire “per amore di Gesù e a imitazione di S. Francesco”.
Il desiderio di condurre una vita ritirata e crocifissa indusse Michele a bussare alla porta dei conventi di Vich. Fu da tutti respinto per la tenera età. Che fare? Concepì il disegno di emettere, benché non avesse che nove anni, il voto di verginità, nella chiesa delle Domenicane di Santa Chiara. Meritò, con quel gesto, di esser liberato per tutta la vita dalle tentazioni d’impurità.
A quattro anni Michele era rimasto orfano di madre; a undici rimase orfano anche di padre. Il tutore gli fece interrompere gli studi per impiegarlo come garzone in una bottega. Tanto lui quanto i fratelli non volevano che abbracciasse la vita religiosa perché, secondo loro, non s’addiceva al decoro del casato .Guidato dallo Spirito Santo, nel 1603 fuggì a Barcellona a piedi, con la speranza che il Signore avrebbe diretto i suoi passi. Alle porte della città una povera donna ne ebbe compassione e gli offrì ospitalità. Il giorno dopo andò ad ascoltare la Messa nella chiesa più vicina, che era quella dei Trinitari. Mentre pregava, Dio gli fece capire che lo voleva tra quei religiosi. In principio vi fu accolto come chierichetto. Indossò la bianca divisa dei Trinitari soltanto nell’agosto del 1604.
Da quel giorno Michele fece consistere l’essenza della vita religiosa non tanto nei digiuni, nei cilici e nelle veglie, quanto nell’abnegazione della propria volontà. Durante il noviziato fu di tanta virtù da essere additato come modello anche ai religiosi più anziani. Alla sveglia di mezzanotte per la recita del Mattutino fu sempre trovato desto. È tradizione che una notte gli sia apparsa la Madonna e gli abbia offerto un giglio. Trovava la sua delizia nel servire il maggior numero possibile di Messe. All’altare sembrava un serafino e dopo la comunione rimaneva assorto. A volte, riboccante di gioia, si metteva a correre per il giardino, esclamando: “Basta, o Signore, basta!”. A chi lo esortava a reprimere quei suoi trasporti, rispondeva: “È così violento l’ardore interno, che se non gli aprissi un varco, ne rimarrei bruciato”.
Per la vivezza dell’ingegno e la diligenza nello studio, Michele, prima ancora di fare la professione, fu inviato al convento di San Lamberto, presso Saragozza, perché frequentasse quella celebre università. Nel secolo XVI, sotto l’influsso del Concilio Tridentino, anche l’Ordine dei Trinitari si era riformato per opera di S. Giovanni Battista della Concezione (+1613) con l’approvazione di Clemente VIII. Dopo la professione religiosa (1607) Fra Michele, assetato di perfetta abnegazione e di rigida penitenza, chiese di passare alla stretta osservanza. Essendogli stato concesso quel favore, si recò a piedi d’inverno a Pamplona, per rivestire a Oteiza (1608), nei pressi della capitale della Navarra, il ruvido saio dei Trinitari Scalzi. Dopo alcuni giorni fu inviato a Madrid per l’anno di noviziato. Ad Alcalà fece la professione religiosa e a Solana si perfezionò nei consigli evangelici con un secondo tirocinio richiesto dalle costituzioni.
Fu allora che Dio cominciò a favorire il suo servo con doni straordinari. Un giorno, mentre si trovava con i confratelli a diporto fuori del convento e ragionava con loro del paradiso, ad un tratto emise un grido, volò come una saetta sopra un campo di biade e andò a posarsi davanti al tabernacolo, dove rimase a lungo rapito. Da quel giorno i gridi improvvisi, i rapimenti e le estasi si ripeterono di frequente in chiesa, in refettorio, per strada, nonostante la formale proibizione dei superiori, per non turbare la quiete del convento. Per farlo uscire dai sensi bastava parlargli della SS. Trinità, dell’Eucaristia, della Passione del Signore, della SS. Vergine. Un giovedì santo, dopo aver alzato gli occhi ad un grande crocifisso fuori del refettorio, gettò un forte grido e se ne volò ad abbracciarlo. Se prevedeva imminente il rapimento, cercava di distrarsi stropicciandosi con forza le mani e il petto. Non sempre riusciva a sottrarsi a quelle mozioni dello Spirito Santo, e allora trascinava con sé l’oggetto o il confratello al quale si aggrappava. Il suo Provinciale, P. Francesco di Sant’Anna, lo inviò a Siviglia dal P. Mata, esperto maestro di spirito, perché lo esaminasse. Il pio sacerdote confessò di non aver conosciuto in vita sua anima più candida e più infiammata d’amor divino di Fra Michele dei Santi. A conferma di quel giudizio, proprio in quel tempo Gesù concesse al suo servo fedele, assorto in preghiera, il singolarissimo privilegio della sostituzione del cuore con il suo.
Nell’ottobre del 1611 Fra Michele fu mandato a Baeza per lo studio della filosofia e, dopo tre anni, all’Università di Salamanca per lo studio della teologia. Un giorno, mentre un padre agostiniano accennava, nella scuola, alla gratitudine che gli uomini debbono al Sangue preziosissimo di Gesù, il santo si slanciò in alto e rimase una ventina di minuti sospeso sulle teste degli scolari con la braccia aperte e gli occhi rivolti al cielo. Al convento era perciò un continuo accorrere di gente avida di consultare il santo studente. Durante un carnevale, per impedire tanti scandali, concepì un piano ardito. Con sei confratelli vestiti da penitenti, flagellandosi senza pietà, tenendo in mano un teschio e in capo una corona di spine, si recò sulla pubblica piazza, tra lo stupore della gente. Un predicatore salì quindi sopra una panca per ricordare ai gaudenti la vanità dei piaceri terreni. Ad un tratto Fra Michele cacciò un formidabile grido, spiccò un volo fino al crocifisso che si trovava alla testa del corteo e, per un quarto d’ora, rimase sospeso per aria, in estasi. È inutile dire che, a quel prodigio, l’orgia carnevalesca si mutò in una processione di penitenza.
Al termine degli studi Fra Michele fu ordinato sacerdote a Faro, in Portogallo. Aveva tanto desiderato quel giorno perché gli permetteva di ricevere quotidianamente Gesù sacramentato. A esercitare il sacro ministero fu mandato a Baeza. Nel 1622 fu nominato superiore del convento di Valladolid, benché se ne ritenesse indegno e incapace. Fra Michele fu un religioso perfetto. Soprattutto la sua obbedienza ai superiori fu sempre pronta, gioiosa e senza riserve anche quando gli vietavano di andare in estasi o gli ordinavano di cibarsi come tutti gli altri, temendo per la sua salute. Il Signore, che non lo voleva per quella via, permise che peggiorasse realmente, motivo per cui, dopo ripetute prove, i superiori gli permisero di continuare a cibarsi di un po’ di pane, di qualche grappolo d’uva passa o di un boccone d’insalata solo ogni tre giorni. Talora giunse a protrarre il digiuno assoluto fino a due settimane. Non gustò altra bevanda all’infuori dell’acqua. Stava persino settimane intere senza bere. La lingua gli si trasformava allora in una specie di sughero, ma invece di dissetarsi, Fra Michele andava magari alla fontana soltanto per poter accrescere lo spasimo della sete alla contemplazione dell’acqua fresca. A chi lo esortava a nutrirsi, rispondeva celiando: “II mio cuoco è Dio”.
Amantissimo della povertà evangelica, Fra Michele si reputò felice anche quando mancò del necessario. Si può dire che nulla possedesse, nulla desiderò, nulla usò come proprio. Per diversi anni prese un po’ di riposo nella soffitta del convento e solo negli ultimi anni accettò, per ubbidienza, una coperta logora. Disponeva di un abito solo, dimesso dagli altri religiosi e rappezzato di sua mano. Non ci fu mai verso di fargliene indossare di nuovi, benché gliene regalassero per venire in possesso di quello da lui usato.
Nella sua incomparabile umiltà Fra Michele diceva che era soltanto capace di pregare. Invece, quando fu eletto Ministro del convento di Valladolid, diede prova di grande abilità nell’affrontare la costruzione di una nuova chiesa senza risorse. Ai suoi religiosi l’impresa apparve pazzesca, ma egli li rassicurò dicendo: “Se siamo buoni, anche se chiudiamo la porta, il Signore ci lancerà il necessario dalle mura dell’orto”. Inflessibile nell’esigere l’osservanza delle regole, sapeva però renderla amabile e gioiosa, come sacrificio fatto a Dio, senza considerazioni umane. Unico scopo della sua vita fu di conformarsi alla volontà di Lui “volendo – diceva – non solo quello che Dio vuole, ma quello che Dio vuole che io voglia”. Era così giunto a una tale unione con la SS. Trinità che non sapeva se mangiava, se beveva, se dormiva o se camminava.
Interrogato dal Provinciale quante ore del giorno dedicasse all’orazione, rispose con semplicità: “Io prego sempre”. Di notte riposava appena due ore sulla nuda terra, ovvero accoccolato su di uno sgabello col volto tra le mani. “Il mio buon Dio – diceva – m’incatena e non mi lascia dormire”. Di solito la sua Messa durava due ore, per i frequenti rapimenti ai quali soggiaceva. Eppure la chiesa era sempre gremita di gente. Una volta, all’elevazione del calice, rimase sollevato per aria circa mezz’ora e un’altra volta, essendo rimasto con le braccia stese in croce, non si accorse che le fiamme di una candela gli bruciavano la mano destra. Più volte fu visto emanare dalla sua persona un celeste splendore e sfolgorargli intorno al capo un’aureola di gloria che abbagliava la vista. L’incendio spirituale dell’amor divino si rifletteva nel corpo con un calore che nulla riusciva a temperare. Un giorno mentre ragionava sul mistero della SS. Trinità col parroco di Marmel, dove si era recato a predicare, dal suo petto si sprigionò come un vulcano di fiamme risplendenti. Ammirato, il parroco lo volle abbracciare, ma cadde svenuto a terra, tant’era grande il calore e il bagliore di quella fiamma.
L’apostolato di Fra Michele non si limitò alla preghiera per i peccatori, alla penitenza rigorosa, alle private conversazioni o al ministero delle confessioni, ma si affermò vigorosamente anche sul pulpito. Ai fedeli parlava soprattutto dell’amor di Dio per gli uomini e del mistero dell’Eucaristia, senza indulgere alle ampollosità del tempo. Per salvare anche una sola anima era disposto a tollerare infiniti travagli. Le continue estasi, che lo sorprendevano nel bei mezzo della predica, gli turbavano le gioie procurategli da simile apostolato. Ogni tanto protestava: “Se questa volta mi succede la solita “disgrazia”, non salirò mai più sul pulpito”. Tuttavia, ad ogni invito, non sapeva resistere alla manifesta volontà di Dio per il bene del popolo.
Nobili e plebei, ricchi e poveri, ecclesiastici e secolari, accorrevano a lui come ad oracolo per tutte le loro necessità, senza mai restarne delusi, perché Dio aveva concesso a Fra Michele il dono di scrutare i cuori, di predire eventi lontani e futuri, di sanare gl’infermi con la semplice imposizione delle mani, con un segno di croce o con la lettura di un brano del Vangelo. Ciononostante il santo si considerava “un miserabile, un ingrato, una terra sterile, incapace di far fruttificare i doni ricevuti dal cielo.” Gli riusciva perciò di grande confusione il sentirsi chiamare da tutti “il santo”, vedere la gente inginocchiarglisi davanti e cercare di baciargli il lembo del vestito.
Mentre era Vicario a Baeza, in una conversazione tra amici sulla morte inesorabile e la felicità del cielo, Fra Michele aveva esclamato improvvisamente: “II Signore nella sua infinita misericordia mi ha fatto conoscere che debbo lavorare e predicare molto, fino ai trentatré anni; quindi mi chiamerà a sé mentre sarò Ministro del Convento di Valladolid”. All’approssimarsi del tempo della sua morte, confermò a penitenti e a confratelli che sarebbe morto all’età del Signore. Il lunedì di Pasqua del 1625 fu difatti costretto a mettersi a letto a causa di una febbre violenta che lo colse proprio mentre predicava. Visse ancora dieci giorni in una continua orazione. A chi gli chiese quali grazie desiderava impetrare, rispose: “Domando al Signore anzitutto di soffrire i tormenti e le pene che i martiri e i santi hanno patito e patiranno fino alla fine del mondo, e poi che si formi una sola fiamma dell’amore di cui ardono i beati e gli spiriti celesti e mi consumi il cuore”.
Un confratello gli domandò se temeva la morte. Gli rispose: “Mi turba soltanto il pensiero di morire in un luogo dove si ha troppa stima di me, che sono un miserabile”. Morì il 10-4-1625 dopo aver baciato il crocifisso ed esclamato, sollevando gli occhi al ciclo: “Credo in Dio, spero in Dio, amo Dio!”. Appena si sparse la notizia del suo decesso, una enorme folla fece ressa alla porta del convento gridando: “Vogliamo vedere il santo”. Furono talmente numerosi coloro che desideravano avere qualche pezzettino della tonaca del defunto come reliquia, che i Padri Trinitari dovettero rinnovargliela per ben tre volte. Poco dopo la sepoltura di Fra Michele furono verificati cinquanta miracoli, ottenuti da Dio, per sua intercessione, dai devoti. Pio VI lo beatificò il 2-5-1779 e Pio IX lo canonizzò 1’8-6-1862. Le reliquie del santo sono venerate a Valladolid nella chiesa dell’ordine della SS. Trinità.
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 4, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 54-56.
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