S. GIUSEPPE BENEDETTO COTTOLENGO (1786-1842)

II Cottolengo, primogenito di dodici fratelli, nacque a Bra (Cuneo) il 3-5-1786 da un modesto esattore del pubblico erario. Dalla mamma ereditò un tenero amore per i poveri e i malati. A cinque anni fu da lei sorpreso a misurare le pareti di una stanza che sognava di riempire di letti per i sofferenti quando sarebbe stato grande. Crebbe gracile e a scuola non comprendeva nulla ma, dopo una novena a S. Tommaso d’Aquino, divenne uno dei primi della classe. A soli dieci anni propose di vivere alla presenza di Dio e di farsi santo. Trasportato da fervore religioso, di giorno riempiva la casa di canti imparati nella parrocchia di Sant’Andrea e alla sera, al suono di un ferro di cucina, chiamava i familiari a raccolta dinanzi al quadro della Vergine per la preghiera.
Il 2-10-1802 il Cottolengo ricevette la veste talare dalle mani del parroco, quando cioè i francescani lo avevano già iscritto al loro Terz’Ordine. Nel 1805 fu accolto nel seminario di Asti. Dopo due anni esso fu chiuso, 6 il santo fu costretto a continuare in famiglia gli studi fino all’ordinazione sacerdotale che ricevette 1’8-6-1811. Egli risentì della deficienza degli studi teologici nell’esercizio delle confessioni tanto a Bra quanto a Corneliano d’Alba, dove era stato mandato come vice-parroco.

Per questo motivo chiese, con insistenza, di poter integrare i suoi studi a Torino. Nel 1816 vi fu promosso dottore in teologia. Dopo due anni di ministero in patria, nel 1818 fu nominato a Torino canonico della chiesa del Corpus Domini. Per nove anni si dedicò, con uno zelo instancabile, al coro e al sacro ministero. Supplicava il sacrista di lasciare in pace i buoni canonici: “Io sono giovane, diceva, chiamate me per ogni occorrenza. Che ci sto qui a fare se non mi occupo?”.

Divenne presto il martire della confessione, il consolatore dei malati e il soccorritore dei poveri ai quali donava tutto: i compensi delle predicazioni, le elemosine delle Messe, i regali ricevuti dalla famiglia e le elargizioni dei bottegai. Per sollevarne il più grande numero possibile faceva economia di vestiti e di legna persino d’inverno. Qualche volta fu visto dimenarsi tra un angolo e l’altro della stanza per riscaldarsi celiando: “Adesso faccio la bestia feroce”. I torinesi presero presto a chiamarlo il canonico buono, ma il santo continuava a considerarsi il contadino di Bra capace soltanto di piantare cavoli.

Il Cottolengo sentiva, però, che quella non era la sua vocazione. Doveva farsi religioso? Il suo confessore, il P. Fontana, prete dell’Oratorio, al principio del 1826 gli disse apertamente: “Voi non sarete né Filippino, né claustrale, ma un povero sacerdote di Torino, perché Dio vuole servirsi di voi per opere di sua gloria”. Per distrarlo, il Teol. Valletti, superiore della collegiata, gli diede da leggere la vita di S. Vincenzo de’ Paoli. Il Cottolengo capì allora che la sua vera via era quella della carità. La definitiva vocazione gli fu svelata da un pietoso episodio. Nel settembre 1827 la famiglia Gonet, con tre bambini, proveniente da Milano e diretta a Lione, aveva trovato ristoro in un’osteria della parrocchia del Corpus Domini. Già si disponeva a partire quando la moglie, colta da grave malore, morì assistita dal “Canonico buono” dopo che era stata respinta dall’ospedale dei tubercolotici perché incinta, e dall’ospizio di maternità perché malata. Il santo pensò allora di fondare un ospedaletto aperto a tutti gl’infelici. Diede ad esso inizio il 17-1-1828 con quattro letti in alcune stanze affittate nella casa detta della Volta Rossa, dirimpetto alla chiesa parrocchiale. Trovò fiere opposizioni tra i confratelli e i parenti, ma a tutti il P. Fontana ripeteva: “Lasciatelo fare”.

I suoi cooperatori furono il medico Lorenzo Granetti, il farmacista regio Paolo Anglesio e dodici visitatrici dei malati che riunì in casa, sotto la direzione della ricca vedova Marianna Nasi Pullini (+1832), col nome di Dame di Carità, Quando a Torino nel 1831 scoppiò il colera, l’ospedaletto fu chiuso a causa del pericolo del contagio. Il Cottolengo, convinto che “i cavoli, perché prosperino, devono essere trapiantati”, comprò un casetta a Valdocco e vi si trasferì il 27-4-1832 con due suore e un canceroso, adagiato sopra un carretto trainato da un asinello. Ebbe così origine la Piccola Casa della Divina Provvidenza. La prateria, con l’aiuto dei buoni e specialmente del Cav. Ferrero, si trasformò ben presto in un susseguirsi di ospedaletti, asili e orfanotrofi. Il mezzo per portare a termine la grandiosa opera fu una illimitata fiducia nella Provvidenza, invocata con una costante preghiera. Nessuna diretta richiesta rivolse mai alla generosità dei torinesi o della corte. Per non fare torto alla Provvidenza, egli non volle saperne di contabilità o di rendiconti, convinto che “a chi straordinariamente confida, Dio straordinariamente provvede”. Sul suo labbro non risuonavano che le espressioni: “Avanti in Domino, Provvidenza e Deo gratis”.

Nel 1833 il re Carlo Alberto eresse l’opera in ente morale, e nominò il fondatore cavaliere dell’Ordine Mauriziano. Il santo accettò il favore regale dicendo: “Passino i doni ai miei poveri. Io ritengo la croce. Provvidenza e croce sono due cose che vanno unite”. Al termine di quell’anno era già pronto un primo grande ospedale capace di 200 letti al quale ne seguì un altro per tutti i rifiuti della società. I malati li riceveva alla porta a capo scoperto e li affidava alle suore dicendo: “Sono doni di Dio. Siano le vostre gioie preziose”.

Per il servizio di quella cittadella della carità, il Cottolengo istituì nel 1833 le Suore Vincenzine; nel 1841 le Suore della Divina Pastora per la preparazione delle ricoverate ai sacramenti; nel 1839 le Suore Carmelitane Scalze per la via contemplativa; nel 1840 le Suore del Suffragio per i lavori di cucito e le Suore Penitenti di S. Taide, per la conversione delle traviate; nel 1841 le Suore della Pietà per il bene spirituale dei morenti. Ripeteva alle sue più dirette collaboratrici: “Presenza di Dio, occhi bassi, testa alta, abitino al collo e rosario al fianco. Così, in mezzo ad un reggimento di soldati, sarete senza timore”. Per l’assistenza agli uomini istituì i Fratelli di S. Vincenzo, per l’amministrazione dei sacramenti i Preti della SS.ma Trinità, oltre il reparto giovanile dei Tommasini o aspiranti al sacerdozio, sia per le sue opere che per i bisogni della diocesi. A tutti ripeteva sovente: “Non lasciatemi mai, a qualunque costo, la comunione quotidiana! Ciò che tiene in piedi la Piccola Casa sono le preghiere e la comunione”. Difatti, quando era a corto di viveri o di soldi, il santo si inginocchiava ai piedi della Vergine e otteneva infallibilmente quanto gli occorreva.

Gregorio XVI, con un breve, approvò l’opera del Cottolengo, ma il padre dei poveri continuò ad essere l’umile servo della Provvidenza pronto sempre a giocare coi più idioti, a recar fasci di legna o cesti di verdure, a scopare calzando zoccoli di legno o a riordinare stanze rivestito di una vecchia tonaca, convinto di essere capace soltanto di piantare cavoli.

Eppure Iddio gli aveva concesso il dono di leggere nei cuori, di prevedere il futuro e di conoscere le circostanze della sua morte. Non dicevano i suoi contemporanei che aveva più fede lui che tutti i torinesi insieme?

Nel febbraio del 1842 il Cottolengo trascorse parecchie settimane a regolare affari che non sembravano urgenti. Poi visitò tutte le case che aveva fondato, e ovunque lasciò chiaramente intendere che quelli erano i suoi ultimi addii. “Pregate per me, che sono alla fine dei miei giorni”, diceva levandosi la stola dopo il discorsetto di congedo. “Vedete un poco, l’asinello non vuol più camminare, l’asinello non vuole più tirare, vuol farsi compatire. Vi benedico, per l’ultima volta. Ora non posso più nulla per la Piccola Casa, ma giunto in cielo pregherò, e continuerò ad essere il vostro padre, e voi ricordate le parole che vi disse questo povero vecchio”.

Il 21-4-1842 affidò al Canonico Luigi Anglesio (+1881) la direzione della sua opera e poi si ritirò presso il fratello, canonico nella collegiata di Chieri. Morì il 30-4-1842 nel letto che dodici ani prima si era fatto preparare, dopo aver esclamato: “Mi sono rallegrato perché mi è stato detto: “Andiamo nella casa del Signore””. Carlo Alberto, alla notizia della sua dipartita, sospirò: “Ho perduto un grande amico”. Il Cottolengo fu sepolto a Torino nella Piccola Casa dove riposa ancora. Fatti miracolosi resero famosa la sua tomba. Benedetto XV lo beatificò il 28-4-1917 e Pio XI lo canonizzò il 19-3-1934.

Oggi le Suore di S. Giuseppe Cottolengo formano una sola grande famiglia religiosa, di diritto pontificio dal 1959, divise in vari rami con determinate finalità. La famiglia Cottolengo abbraccia circa 3.500 religiose, distribuite in 255 case. “La Piccola Casa continuerà – aveva detto il santo – finché in essa si pregherà e si osserverà la povertà!”.



Sac. Guido Pettinati SSP,

I Santi canonizzati del giorno, vol. 4, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 390-394.

http://www.edizionisegno.it/