Ceferino Giménez Malla martire

L’OSSERVATORE ROMANO Domenica 4 Maggio 1997

Il messaggio dei Vescovi spagnoli


Dal suo sacrificio un invito alla solidarietà e alla tolleranza


La beatificazione è l’occasione propizia per rendere grazie a Dio per la figura di Ceferino Giménez. La sua vita e il suo martirio sono un dono per tutta la Chiesa e soprattutto per i membri del popolo zingaro. L’infinita bontà e misericordia di Dio, rivelate pienamente in Gesù Cristo, si sono riflesse nella persona di Ceferino e, attraverso di lui, illuminano la cultura del popolo del quale era membro.
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Ceferino è una testimonianza semplice, ma inequivocabile, della fede cristiana vissuta in comunione con la Chiesa. In questo tempo di cultura pluralistica, caratterizzato anche dalla confusione nelle convinzioni e nelle pratiche religiose, la sua vita e la sua morte sono un segno di forza e di speranza, e un chiaro esempio di fedeltà. Questo avvenimento comporta una novità: Ceferino Giménez Malla è il primo zingaro che raggiunge la meta gloriosa della beatificazione.

Fu un autentico zingaro, adempitore e maestro dei valori della sua cultura. Con ciò si sottolinea, ancora uno volta, che a ogni uomo viene offerto, all’interno della sua cultura, un cammino di fede e di grazia, che può seguire fino alle più alte vette della perfezione.

Per questo noi Vescovi spagnoli invitiamo in modo particolare i membri del popolo zingaro a seguire l’esempio di Ceferino che, essendo valido per tutti, incarna i valori della sua cultura: il rispetto e l’attenzione per gli anziani e la famiglia, l’amore per la libertà, l’orgoglio delle proprie tradizioni, la pratica della religione e la ricerca della pace. Il popolo zingaro, in questi momenti di particolare difficoltà per lui, a causa del potere assimilatore della società dominante e dello spirito individualistico e consumistico che questa diffonde, deve approfittare di questo evento storico per andare a fondo nelle proprie radici e nelle migliori tradizioni dei suoi avi, e coniugare l’amore per la propria cultura con un atteggiamento solidale con tutta la società.

Per tutto ciò rendiamo grazie anche al Santo Padre che ci permette di venerare pubblicamente Ceferino Giménez Malla, zingaro, laico, sposato e membro di un settore sociale tradizionalmente emarginato, come un modello d’identificazione e di stimolo per l’attività apostolica secolare e familiare, e di sacrificio costante nei compiti quotidiani dell’esistenza. Soprattutto gli rendiamo grazie per il suo interesse nell’offrircelo come modello per il popolo zingaro.

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In questo Anno Europeo contro il Razzismo, cogliendo l’occasione che ci offre la beatificazione di Ceferino Giménez Malla, desideriamo ricordare che qualsiasi integrazione presuppone un compromesso per essere disposti a condividere, a convivere, ad avvicinarsi all’altro, per accettare la diversità e per farlo con un atteggiamento comprensivo e solidale. Noi Vescovi spagnoli desideriamo invitare i responsabili della nostra società a fare il possibile per evitare che dei gruppi di zingari, specialmente quelli

che vivono nei ghetti urbani, subiscano l’effetto doloroso di un’emarginazione che li conduce alle soglie della delinquenza.

La figura di Ceferino rende patente la possibilità di un arricchimento interculturale reciproco. Superando gli stereotipi negativi sul mondo gitano, ci ricorda il contributo positivo che questa comunità e la sua cultura hanno dato alla società e alla cultura spagnole. La sua presenza è significativa, soprattutto nel campo dell’arte, ma anche nel lavoro semplice e quotidiano di molti zingari che, come Ceferino, si sono adoperati nella costruzione di una convivenza fondata sull’offerta della propria identità e sul rispetto per la diversità dell’altro. Prendendo questo modello come referente, ricordiamo con carità al popolo zingaro che, insieme alla difesa della sua cultura, un valore indubbiamente lodevole, è necessario anche saper accettare le esigenze che presuppone la convivenza in una società pluriculturale. La cooperazione, indispensabile per la soluzione dei problemi, richiede la creazione di un clima di fiducia e di dialogo, e per questo sono necessari l’impegno e lo sforzo da parte di tutti.

 

Morì con il Rosario stretto tra le mani


ROMUALDO RODRIGO

Postulatore

Il Pelé ricevette sicuramente durante l’infanzia una profonda educazione religiosa. Gli zingari dicevano che nella sua famiglia si recitava ogni giorno il rosario. Segno della religiosità della famiglia di origine è la sollecitudine con cui fecero battezzare il bambino. Lo portarono in chiesa lo stesso giorno della nascita e adottarono il nome del santo del giorno: Ceferino, che nel calendario romano si celebrava il 26 agosto.

Da piccolo imparò certamente le principali preghiere, perché, a quanto hanno dichiarato le sue nipoti durante il Processo, quando pregava da solo lo faceva in lingua catalana. Questo vuol dire che imparò le preghiere quando era ancora bambino o ragazzo, perché fin dall’età di 19 anni visse a Barbastro, dove non si parlava soltanto lo spagnolo.

Cristiano esemplare amante del Rosario


Non sappiamo quando cominciò il Pelé a frequentare assiduamente la chiesa. Comunque sin dall’inizio del secolo era ritenuto a Barbastro un buon cristiano. Perciò nel 1903 viene ammesso come padrino di battesimo del suo nipote Juan Alfredo, figlio di suo fratello Filippo. Nel 1912 regolarizza il matrimonio che aveva celebrato allo stile gitano con Teresa Jiménez. Da allora cominciò a frequentare sempre con più assiduità la chiesa, fino a diventare un cristiano modello: messa diaria, recita cotidiana del rosario, comunione frequente. Molti testimoni oculari lo ricordano con un cero nelle processioni o accompagnando il Santissimo quando si portava il viatico ai malati. Occupava uno dei primi posti in queste manifestazioni. Spiccava per la sua statura e per il cero che portava.

Amante del rosario, lo portava sempre e lo recitava anche mentre camminava per le strade. Bella la testimonianza di un suo amico, Santos de Otto, tuttora vivente: «Portava sempre con sé il rosario e lo si incontrava di frequente mentre lo recitava. Quando camminava per le strade, da solo o assieme ad altri, lo recitava sempre». Qualche testimone ha riferito che il Pelé recitava sempre il rosario per compiere una promessa fatta alla Madonna che lo aveva guarito di una grave malattia.

 

Laico impegnato tra giovani ed anziani


Il Pelé era, come si direbbe oggi, un laico pastoralmente impegnato. Apparteneva a tutte le associazioni religiose e collaborava con entusiasmo nelle opere di apostolato e di carità della diocesi. Era membro dell’Adorazione Notturna; dei Giovedì Eucaristici e delle Conferenze di San Vincenzo di Paoli. Nel 1926 i cappuccini fondarono a Barbastro il Terzo Ordine Francescano. Presero l’abito di terziari, il Vescovo della città e 114 laici tra i quali c’era il Pelé. Ed era tale il suo prestigio che fu subito eletto come membro del consiglio della fraternità dei terziari.

Al Pelé non non riteneva sufficiente l’opera che svolgeva nelle diverse associazioni religiose, e dedicava molto del suo tempo all’educazione dei bambini: zingari e non zingari. Li accompagnava per le campagne e e raccontava loro storie della Bibbia o della vita dei santi e li esortava a rispettare la natura. Diceva loro: «dovete rispettare gli uccelli, i fiori del campo; non dovete calpestare le formiche, perché sono creature di Dio».

Diceva ai bambini che erano «los huesecitos de Dios» «piccole ossa di Dio». E tutti i bambini gli volevano bene, e tuttora oggi, ormai anziani, lo ricordano con molto piacere.

Uomo di profonda spiritualità


Il primo biografo del servo di Dio, che lo frequentò molto da vicino e che conosceva la sua religiosità, afferma di non sapere chi gli insegnò teologia spirituale, ma che certamente egli possedeva una profonda spiritualità. Non era un uomo superstizioso o di una religiosità superficiale, bensì aveva «convinzioni religiose molto radicate».

Come nelle anime sante, possiamo pensare che fosse lo Spirito Santo a guidarlo. È interessante a questo riguardo la testimonianza di Rufino Vidal, che partecipava con il servo di Dio all’Adorazione Notturna: «Benché non avesse istruzione letteraria, perché analfabeta, tuttavia aveva molta formazione spirituale; la vita spirituale gli veniva da dentro». Una prova della sua profonda spiritualità era la sua rassegnazione cristiana ed il fatto di vedere la mano di Dio in ogni cosa. Riferisce Nicolás Santos de Otto che nei rovesci di fortuna o nelle disgrazie il servo di Dio diceva sempre: «Dio lo ha voluto, Lui lo sa. Lodato sia il Signore».

Amante dei poveri


Il Pelé si distinse sempre per la sua grande umanità, o meglio, per il suo amore per i poveri. Commerciando con i cavalli, arrivò a crearsi con il lavoro onesto una discreta fortuna, ma poi diventò povero perché, secondo le sue nipoti, fu troppo prodigo con tutti.

Quasi tutti i testimoni parlano delle elemosine che il servo di Dio faceva, delle quali molti di loro beneficiarono. José Cortés Gabarre, gitano, nato nel 1908, vide in varie occasioni «che nella sua casa accoglieva mendicanti, dava loro abiti in buono stato e denaro, e tutto questo lo faceva accarezzandoli e trattandoli con affetto».

Trinidad Jiménez, una delle nipoti, afferma che faceva molte opere di carità, e aggiunge: «Quando nevicava, andava per i villaggi a vedere di cosa potevano aver bisogno i gitani poveri, e anche a Barbastro. Andò in rovina dividendo i suoi beni tra i gitani poveri».

José Castellón riferisce che sua moglie lo sgridava per la sua eccessiva prodigalità. Perciò quando dava qualcosa «guardava su per vedere se sua moglie lo sentiva» e diceva «è per evitare problemi con mia moglie… se posso evito il pasticcio».Oppure diceva a colui che aiutava: «Prendi, che non sappia».

Che il suo amore verso i poveri fosse ispirato da uno spirito soprannaturale lo prova il fatto che non faceva distinzioni tra gli zingari e coloro che non lo erano. Aiutava tutti senza distinzione. Gli anziani di Barbastro, dove visse quasi tutta la sua vita il Pelè, ricordano ancora la generosità dello zingaro.

Zingaro onesto e uomo saggio


Il Pelé aveva fama di essere uno zingaro onesto. Commerciante di cavalli, faceva uso di tutte le arguzie lecite in questo genere di trattative, l’esagerazione, la barzelletta, le frasi giocose, ecc., ma non ingannò mai nessuno. Raccontano i testimoni che un giorno cadde nella tentazione di togliere tre anni di età al cavallo che vendette a un cliente. Quella notte non poté conciliare il sonno finché non confessò al cliente che lo aveva ingannato e che il cavallo era tre anni più vecchio.

Una volta, accusato ingiustamente di aver rubato due mule, fu condotto in carcere e ne rimase due mesi rinchiuso. Il caso fu portato in tribunale. Il Pelé, con regolari ricevute, poté dimostrare che aveva comperate le mule ignorandone la provenienza. Il suo avvocato, dopo la lettura della sentenza assolutoria, si permise di dire: «Signor giudice: il Pelé non è un ladro né un imbroglione, è San Ceferino Jiménez Malla, il patrono dei gitani».

Per la sua onestà e la sua saggezza e la sua spiccata personalità godeva di grande prestigio sia presso gli zingari che preso i «pagi», cioè, quelli che non erano zingari. Accettavano i suoi consigli e i gitani lo consideravano loro «capo». In tutta la via Sant’lppolito i vicini avevano fiducia in lui ed erano suoi amici; lo consideravano l’avvocato dei poveri cui ricorrevano molte volte per chiedere consiglio».

Tale prestigio e il suo spirito conciliatore gli conferivano l’autorità necessaria per fare da mediatore nei conflitti che sorgevano tra i componenti della sua razza o tra i pagi. Era considerato come una specie di arbitro e di pacificatore, ed i suoi interventi erano sempre coronati da successo: infatti i litiganti finivano per darsi la mano e diventare amici. Cosi affermano vari testimoni.

Davanti a lui nessuno usava dire delle parolacce e molto meno bestemmiare. Quando qualcuno bestemmiava, il Pelé gli diceva: «Cosa ti ha fatto Iddio. Egli ti ha donato la vita. Guarda, davanti a me non voglio sentir parlare male né di Dio né dei sacerdoti».

Detenzione e martirio del Pelé


Il Pelé fu detenuto proprio per aver cercato di difendere un sacerdote che veniva trascinato ingiustamente in prigione. Perquisito, gli fu trovata una corona del rosario. Questo fatto era sufficiente per incriminarlo. Ai carcerati era proibito pregare, ma il Pelé continuava a recitare il rosario. Gli fu offerta la libertà a cambio della corona del rosario, e lui preferì la morte. Nella mattina del 2 agosto 1936 fu condotto al cimitero e fucilato davanti alle mura, mentre teneva stretta in mano la corona del rosario, simbolo della sua fede, e gridava. Viva Cristo Re!

La sua vita santa e la confessione della propria fede lo avevano fatto meritevole della corona del martirio.

 

La testimonianza cristiana di uno zingaro singolare


EDUARDO T. GIL DE MURO

Era nato zingaro, che è un modo diverso di nascere. Era nato, per grazia di Dio, nel nomadismo abituale degli zingari. Al momento della sua nascita, e ancor prima che nascesse, iniziò a compiersi  in Ceferino Giménez Malla uno dei misteri più trepidanti che segnano la vita umana: quello del proprio destino.

La dura esperienza dei gitani emarginati


Non è la stessa cosa nascere in campagna o nascere in città. Non è la stessa cosa nascere in una casa e in un letto propri o nell’insicurezza delle strade. E, nella Spagna in cui nacque Ceferino Giménez Malla, non era la stessa cosa nascere «payo» (N.d.T. per gli zingari spagnoli colui che non appartiene alla loro razza) o nascere «calò» (N.d.T. gergo dei gitani). Ceferino nacque zingaro. E crebbe come uno zingaro. Sperimentò subito l’angustia e l’incertezza che affliggevano allora la vita dei gitani e che continuano ad affliggerla oggi.

Di modo che la prima cosa che la vita gli impose come condizione esistenziale indispensabile fu quella di accettare questa  realtà iniziale: sei zingaro, accettati come zingaro e cerca di far sì che ciò non rovini la parte migliore della tua vita.

Ciò è importante: l’aspetto migliore di Ceferino Giménez Malla — zingaro per grazia e provvidenza di Dio — fu che non nutrì mai alcun dubbio sul fatto che la vita e la condizione dello zingaro non implicano solo l’enorme dignità di qualsiasi altra condizione e vita umana, ma che costituiscono anche un cammino propizio perché l’uomo zingaro si realizzi conformemente al piano che Dio ha ideato e continua a ideare per ogni creatura.

Ignoro in questo momento quali saranno le virtù di Ceferino che ci verranno proposte come modelli da imitare. Le parole che il Papa pronuncerà al momento della beatificazione potranno rivelarci in cosa consiste l’esemplarità attualissima di El Pelé non solo per gli zingari ma per tutti.

Il sacrificio per la Chiesa


Sarebbe però un peccato che l’albero ci impedisse di vedere il bosco. L’onestà di El Pelé e la sua condotta generosa fino al martirio sono stati infatti fattori importanti nell’edificio della sua vita e nel sacrificio per la Chiesa. Tuttavia, prima di incarnare molte delle virtù che ci verranno proposte, El Pelé fu soprattutto uno zingaro fedele alla sua casta, al suo sangue, alle sue tradizioni secolari, alla sua attività itinerante e al suo modo onesto di svolgere il suo mestiere di zingaro. Il fatto più bello è che, per essere come fu e per agire come agì, El Pelé non dovette stravolgere né il suo cuore né la sua mente. Non dovette cancellare ricordi e traumi. Non dovette rinunciare a nessuna delle sue dure esperienze. Gli bastò esser fedele a se stesso. Gli bastò dedicarsi come uomo — anche come uomo di fede — alla bella missione di essere uno zingaro autentico in un mondo di zingari e di «payos» in cui nessuno gli appariva estraneo o nemico.

Non ho mai creduto che il martirio sia una grazia singolare per la quale non occorre prepararsi in quanto sopraggiunge in modo impensato e violento. Basta che qualcuno venga ferito per difendere la causa di Dio perché sia considerato un martire, il che non mi sembra corretto. Credo che il martirio sia il culmine di un lungo processo nel quale una persona ha sacrificato il meglio di sé. Il martire matura. Matura come maturano i frutti di un albero, sopportando temporali e caldo. Quando il martire Ceferino giunge a far dono della propria vita presso il cimitero di Barbastro, ciò che donò fu il suo ultimo respiro. Tutto il resto — la fede, l’amore, la speranza, la tolleranza, il silenzio e la generosità — lo aveva già donato, in modo da giungere alla morte più «Pelé» che mai.

«La vita non me la toglie nessuno»


Ciò a cui occorre fare attenzione, quando il nome di El Pelé rimbomberà come uno sparo in piazza san Pietro, cuore della cristianità, è che non risulti ammirevole solo per il fatto eroico di aver offerto la sua vita sull’altare del sacrificio supremo, con il nome di Cristo

sulle labbra e nelle mani il rosario della sua vita così piena di misteri di gioia, di dolore e di speranza. El Pelé, nel momento in cui i fucili scaricarono i loro proiettili sul suo corpo maturo, potè dire le stesse parole che disse Cristo: «La vita non me la toglie nessuno. Sono io che la dono». Egli la donò giorno dopo giorno, poco a poco. La donò nella carità

che presiedette ai suoi atti, nell’amore per le cose e per le persone, nella poesia quotidiana del suo modo di vivere, di camminare e di lavorare. La donò nelle celebrazioni del giovedì pomeriggio, alla vigilia dell’Assunzione, nell’assistenza ai poveri delle Conferenze di san Vincenzo de’ Paoli e nel suo francescanesimo come Terziario. El Pelé si sparse come l’olio, come un profumo. Quando gli dissero che doveva morire per Cristo

non gli rimase che mostrare il proprio petto a quanti volevano fucilarlo. El Pelé, per gli zingari e per i payos in questa Chiesa di Dio, cessa di essere un simbolo lontano. Posto al vertice del Regno di Dio, è un modello vivo, uno stimolo cristiano. Ha ottenuto un piccola quadratura del cerchio, che può essere tutto: ha dimostrato — e ora glielo riconosco — che lo zingaro per essere quel cristiano che Dio gli chiede di essere con la grazia e il battesimo, deve essere uno zingaro vero. Uno zingaro leale, legato alla sua tradizione e alla sua cultura, che da lì si lancia nella modesta esemplarità del lavoro di ogni giorno.

San Pelé fu proprio questo. Chiedo scusa per il San Pelé, ma El Pelé lo era.

 

 

Giovanni Paolo II lo additò ai gitani come fulgido esempio di vita cristiana


BRUNO NICOLINI

«Ceferino Giménez Malla, un gitano ammirevole per la serietà e la saggezza della sua vita di uomo e di cristiano»: così lo ha definito Giovanni Paolo II in un discorso rivolto ad un gruppo di zingari, pellegrini dall’Alsazia, accogliendoli il 21 marzo scorso. In tale discorso il Santo Padre propone Ceferino come modello di vita cristiana: «La sua vita fu pienamente realizzata, poiché visse santamente nella fedeltà a Dio e nello stile di vita proprio dei gitani. Morì martire della fede, stringendo al petto il rosario, che recitava ogni giorno con una devozione teneramente filiale a Maria. È un bell’esempio di fedeltà alla fede per tutti i cristiani e soprattutto per voi che gli siete vicini per motivi etnici e culturali».

Così il Papa ci ha preparati ad accogliere il dono divino della beatificazione di Ceferino, che per tutti sarà esempio sublime, amico sicuro, protettore potente per vivere, oggi, la sua fede. Invero Ceferino, nel seguire docile la voce di Dio nella quotidianità del suo essere zingaro e del suo agire da zingaro, diventa modello del vero discepolo di Cristo; ed il martirio manifesta il cambiamento radicale, che si è andato maturando in lui alla sequela di Gesù durante la sua lunga vita, fino a quando il suo cammino si è identificato con il cammino stesso di Gesù, dietro di lui fino alla croce.

Il Santo Padre, che, con tratto paterno verso quanti gli sono figli, riconosce negli zingari il loro «attaccamento alla fede, alla Chiesa cattolica e al Papa», si fa premura ad orientare la loro vita verso ciò che è essenziale per diventare discepoli di Cristo: «Rinnovate incessantemente la vostra vita di credenti attingendo alla sorgente della Parola di Dio e rimanendo fedeli alla preghiera comunitaria e personale».

La beatificazione di Ceferino, primo zingaro che sarà elevato alla gloria degli altari, si fa evento provvidenziale perché cade in un tempo, in cui gli zingari si trovano davanti ad un bivio. In una situazione di disorientamento e di insicurezza di fronte alle sfide di cambiamento poste da una società complessa, pur con prospettive aperte al loro riconoscimento e alla loro accoglienza, il patrimonio spirituale, che hanno saputo conservare attraverso una lunga esperienza di emarginazione e di discriminazione anche violenta, appare minacciato da influenze disgregatrici insidiose come il chiudersi in espressioni di un rigido fondamentalismo religioso o, al contrario, come il conformarsi a modelli deleteri del consumismo e dell’edonismo.

In questo contesto drammatico il Santo Padre, dopo aver richiamato la necessità di «una nuova evangelizzazione ad ogni suo membro, come ad una amata porzione del popolo di Dio pellegrinante», esorta a ricercare nuove vie di formazione alla fede, che possano garantire un cammino che «vi aiuterà a superare le tentazioni che sono forti oggi: chiudersi in se stessi, cercare rifugio nelle sette o dilapidare il patrimonio religioso per volgersi a un materialismo che impedisce di riconoscere la . presenza divina».

Queste vie per una nuova evangelizzazione implicano la diretta responsabilità delle comunità cristiane locali nella loro vita di fede e nella loro testimonianza di carità. E su tale impegno della missione evangelizzatrice il Papa interpella il popolo di Dio, prendendo ispirazione nella liturgia della grande settimana della passione del Signore e aggiungendo un monito, che in controluce fa intravvedere ombre e omissioni di ieri e di oggi da parte delle comunità cristiane: «La sua morte sulla croce traduce nel modo più chiaro l’amore di Dio per noi. Il sacrificio di Gesù per tutti gli uomini conferisce ad ognuno la dignità di persona amata da Dio. Ogni essere umano deve venire considerato, amato e servito in quanto fratello di Cristo. Quando si ignora questa relazione con il Salvatore, si apre la via alle umiliazioni e al disprezzo, che si cerca di legittimare con ingiuste discriminazioni».

A conclusione del suo breve ma denso discorso il Sommo Pontefice invita gli zingari a praticare il battesimo nella, conversione, vale a dire nella disponibilità a vivere e a morire a motivo di Cristo, cosi rendendo fecondo il germe del martirio ivi racchiuso: «Mediante il battesimo, sacramento della rigenerazione spirituale, partecipate alla morte e alla risurrezione di Gesù; una vita nuova vi viene donata. Pasqua è il tempo del rinnovamento delle promesse del battesimo: fatelo con convinzione e con fiducia nell’amore del Signore. È lui che vi dà la forza e il coraggio nelle difficoltà che incontrerete lungo il vostro cammino».

Ceferino manifesta in modo sublime Cristo nella ricchezza del suo mistero pasquale, della croce e della risurrezione: «Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della suà povertà» (2 Cor 8,9). Di Ceferino, ucciso, spogliato e gettato nella calce viva, non è rimasto più niente se non lo strumento che usava per ferrare i cavalli e il certificato di battesimo per quanto logoro, che portava sempre con sé insieme col rosario, segni concreti a confermare che si può essere zingari e santi secondo il monito dell’apostolo Paolo che ogni uomo si converta, rimanendo nella sua condizione umana.

Ceferino, quale lampada che Cristo stesso ha acceso e che il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II con un atto solenne del suo magistero pone «sul candelabro affinché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa» (Mt 5,15).