L’OSSERVATORE ROMANO, Domenica 4 Maggio 1997
Una vita spesa nell’oblazione totale
Florentino Asensio Barroso nacque all’una del pomeriggio del 16 ottobre 1877 a Villasexmir, in provincia di Valladolid, a quel tempo nella Diocesi di Palencia.
Oggi la parrocchia appartiene all’Arcivescovado di Valladolid. Era figlio di Jacinto Asensio González e di Gabina Barroso Vásquez, originari di Villavieja del Cerro (Arcivescovado e provincia di Valladolid).
Avevano una piccola attività commerciale. Ricevette il Battesimo nella parrocchia dell’Assunzione di Villasexmir il 24 ottobre e la Confermazione ad opera del Vescovo di Palencia, don Juan Lozano y Torreira, il 6 giugno del 1878, nella stessa chiesa. La profonda religiosità della famiglia fece sì che Florentino crescesse e fosse educato in un ambiente cristiano, alla qual cosa contribuirono in modo decisivo il parroco, don Santiago Herrero, e il maestro, Nicolás Negro.
Ricevette la Prima Comunione il 1° maggio 1887. Fu allora che iniziò a sentire la chiamata di Dio e decise di entrare nell’ordine agostiniano, anche grazie alla mediazione di suo fratello Cipriano, che emise i primi voti il 24 gennaio 1888 nel noviziato di Calella (Barcellona). Per la sua giovane età i superiori dell’ordine non giudicarono opportuna la sua ammissione e gli consigliarono di iniziare gli studi umanistici nella Diocesi.
Nel Seminario di Valladolid
Realizzò gli studi ecclesiastici nel seminario di Valladolid. A Valladolid ricevette la tonsura clericale, l’ostiariato, il lettorato, l’esorcistato e l’accolitato, i giorni 21 e 22 settembre 1899. Nella stessa città accedette al suddiaconato e al diaconato rispettivamente il 22 settembre e il 22 dicembre 1900. Il Vescovo ausiliare di Valladolid, don Mariano Cidad, gli conferì l’ordinazione sacerdotale il 1° giugno 1901, all’età di 23 anni, con dispensa concessa il 15 maggio 1901, con il titolo servitti Ecclesiae Vallisletanae. Celebrò la sua prima messa solenne a Villavieja del Cerro il 16 maggio, solennità del Sacro Cuore di Gesù.
Il 2 agosto 1901 fu nominato coadiutore della parrocchia di Villaverde di Medina, ufficio di cui prese possesso pochi giorni dopo. Il 27 dicembre gli furono affidate anche le vicine parrocchie di Carrión e di Dueñas, rispettivamente a 3 e a 6 km di distanza da Villaverde. Il 1° aprile 1903 fu nominato cappellano delle Piccole Suore dei Poveri di Valladolid e il 13 prese possesso della cappellania, ufficio che svolse contemporaneamente a quello di responsabile dell’archivio vescovile.
Il 2 gennaio 1905 lasciò la cappellania delle Piccole suore dei Poveri e fu nominato cappellano delle Serve di Gesù, ufficio che svolse per 24 anni e al quale rinunciò solo per motivi di salute. Il suo servizio di cappellano non si riduceva alla celebrazione della messa, ma, prima e dopo la celebrazione, soleva rimanere seduto nel confessionale, dove lo si poteva vedere spesso assorto in preghiera.
Il 1° marzo 1905 l’Arcivescovo di Valladolid, don José M. Cos y Macho, lo nominò suo cappellano familiare e, l’11 ottobre dello stesso anno, suo «maggiordomo». Senza trascurare queste funzioni, proseguì gli studi di scienze ecclesiastiche, laureandosi in Sacra Teologia presso la Pontificia Università di Valladolid e ottenendo il titolo di dottore in Teologia il 29 agosto del 1906.
Quello stesso giorno il consiglio accademico lo propose come professore di metafisica in quell’università. Resse questa cattedra fino al termine del corso accademico 1909-10.
Il 26 agosto 1916 ricevette dalla Congregazione di Seminari la nomina di «claustral», ossia di membro delle commissioni d’esame nella Pontificia Università di Valladolid. Il 30 aprile 1910 fu eletto canonico beneficiato nella cattedrale. L’elezione fu confermata il 2 maggio 1910 e il 6 don Florentino prese possesso dell’ufficio.
La Confessione e la predicazione
Il 4 febbraio 1915 fu nominato amministratore dei fondi dell’Arcidiocesi e delegato di cappellanie.
Il 3 luglio 1918 venne promosso a un canonicato di grazia, del quale prese possesso il giorno 11.
Esentato dall’ufficio di «maggiordomo» si dedicò completamente all’apostolato, soprattutto alla confessione e alla predicazione. Negli anni 1920 e 1935 fu confessore del seminario conciliare di Valladolid e delle reverende Oblate del Santissimo Redentore. Nel 1923 e nel 1935 lo fu anche del Monastero cistercense di las Huelgas e negli anni 1930 e 1935 nell‘Ospedale di Esgueva. In tutti questi luoghi lasciò indimenticabili ricordi di virtù e di santità. Dal 1923 al 1935 fu consigliere del sindacato femminile di via Fray Luis de León, dove diede prova di grande prudenza e discrezione, tenendo conto dei timori esterni e delle tensioni interne di questo sindacato.
Nel 1925 fu nominato parroco della parrocchia del Capitolo Metropolitano di Valladolid.
Dal 1926 al 1935, per incarico dell’Arcivescovo Gandásegui, predicò il catechismo agli adulti nelle messe domenicali delle 11.30 e delle 12.30 nella Cattedrale di Valladolid; queste catechesi fecero epoca.
La predicazione fu uno degli apostolati più coltivati da don Florentino. Preparava i suoi sermoni con cura. Dal febbraio del 1932 all’aprile del 1935 fu direttore dell‘Apostolato della Preghiera in sostituzione dei Padri della Compagnia di Gesù.
Il 5 giugno 1935 il Nunzio, Monsignor Tedeschini, lo propose per l‘amministrazione apostolica di Barbastro, sede vacante per il trasferimento del suo prelato, Padre Nicanor Mutiloa Irurita, a Tarazona. La proposta fu accettata dalla Santa Sede.
L’11 ottobre di quello stesso anno il Nunzio invitò don Florentino ad Avila per comunicargli la decisione della Santa Sede e chiedergli se accettava. Il colloquio avvenne il 12 ottobre, giorno della Vergine del Pilar, come don Florentino stesso ricorda; in quell’occasione egli espresse le sue incertezze al riguardo poiché riteneva la sua preparazione intellettuale poco aggiornata.
Con Bolla dell’11 novembre 1935 fu nominato Vescovo titolare di Eurea di Epiro e il 23 Amministratore apostolico di Barbastro, per decreto del Nunzio e su incarico speciale della Congregazione Concistoriale.
La sua consacrazione episcopale ebbe luogo nella cattedrale di Valladolid il 26 gennaio 1936, domenica della Santa Famiglia. Fra i partecipanti alla cerimonia vi era la delegazione di Barbastro: il canonico Ambrosio Sanz Lavilla, che rappresentava la Diocesi e il capitolo della Cattedrale; Padre Antonio Blanch, claretiano, rettore del seminario diocesano, che rappresentava quest’ultimo e il collegio seminario dei Padri claretiani di Barbastro; don Nicolás Santos de Otto Escudero, che viveva a Valladolid e occupava la cattedra di Diritto canonico all’università, in rappresentanza del comune di Barbastro.
Don Florentino lasciò Valladolid il giorno 13 per recarsi a Saragozza, dove doveva incontrarsi con il suo nuovo Metropolita, don Rigoberto Domenech.
Il soggiorno a Saragozza dovette protrarsi per le notizie che giungevano da Barbastro, dove autorità e gruppi rivoluzionari stavano fomentando disordini per far fallire l’accoglienza che il popolo voleva riservargli. Il suo ingresso in città ebbe luogo, senza manifestazioni di strada, il 16 marzo alle 11.15. Ci fu solo un corteo composto da alcune automobili con il Vescovo Florentino e un piccolo seguito che lo accompagnava. Le automobili si arrestarono dinanzi alla porta della Cattedrale dove lo attendeva un nutrito gruppo di persone.
«Siamo qui» disse il Prelato nel calpestare per la prima volta il suolo della città. L’atto nella cattedrale fu solenne.
L’episcopato
Il suo motto episcopale era: Ut omnes unum sint.
La festa per l’arrivo del Vescovo, anche se si limitò alle celebrazioni nella cattedrale, non fu ben vista dalle autorità. Il 18 maggio, due soli giorno dopo l’arrivo del Vescovo, la giunta comunale prese all’unanimità la decisione di proibire il suono delle campane in tutte le chiese della città. Il giorno 21 comunicò l’ordine al Prelato, ai parroci e agli incaricati delle chiese. Il Vescovo chiese riforma della risoluzione e presentò una supplica il 7 aprile, ma non ottenne nulla. Questa disposizione fu annullata il 5 settembre del 1938, dopo la liberazione della città.
Nonostante le trappole tesegli dall’autorità municipale, il Vescovo cercò sempre di allentare le tensioni. Collaborò con i suoi averi personali ai piani municipali per sconfiggere la disoccupazione operaia. Per dare lavoro alla gente fece restaurare la cinta muraria del terreno del Palazzo Vescovile, accettando la proposta di chiedere operai all’ufficio di collocamento comunale.
L’anticlericalismo dominò l’orientamento comunale da quando il fronte Popolare assunse il potere a Barbastro. In un consiglio comunale si parlò della convenienza di spiare le associazioni pie e di prendere nota delle predicazioni del Prelato. Era inoltre opportuno vigilare sul comportamento di alcuni individui che si riunivano per la veglia dell’Adorazione Notturna. Si sa che le prediche del Vescovo nella cattedrale venivano ascoltate da agenti dell’autorità municipale appostati dietro le colonne del tempio per poi essere esaminate dalle autorità stesse.
La questione del seminario sembrò risolta nel 1934 con la sentenza del Tribunale di Huesca che permise la sua riorganizzazione e il ritorno dei seminaristi che erano stati accolti a Saragozza. Ma inaspettatamente il Ministero delle Finanze, con un ordine del 21 maggio 1936, notificato il 28 al Vescovo della Diocesi, concedeva al Comune il diritto di proprietà sul Seminario.
Al Vescovo, che pur non perdeva la fiducia in Dio, l’orizzonte appariva oscuro.
Arrestato il 20 luglio, venne fucilato il 9 agosto 1936.
La preziosa eredità del suo ministero episcopale
Don Florentino nel suo breve ufficio di Vescovo operò attivamente su tre fronti.
La problematica operaia era per lui motivo d’inquietudine. L’aver diretto il Sindacato Femminile a Valladolid gli servì per sintonizzarsi con il mondo del lavoro. A Barbastro poté vedere come il settore operaio era vittima di propagande demagogiche e radicali in mano a sindacati organizzati sotto sigle anarchiche.
Compì i primi passi per creare un sindacato d’ispirazione cristiana di ambito nazionale, in seno all’Azione Cattolica, al fine di integrare i diversi gruppi sindacali.
Un altro tema del suo magistero fu la catechesi. Seguendo le istruzioni dell’Enciclica Acerbo nimis (15 aprile 1905) e le prescrizioni canoniche, affrontò immediatamente il tema. Il 26 aprile iniziò la sua catechesi per gli adulti nelle messe domenicali delle 12 nella cattedrale. Il 20 maggio pubblicò una lettera pastorale sulla catechesi, ordinando la costituzione della Congregazione della Dottrina Cristiana in tutte le parrocchie della Diocesi e al contempo redigendo il Regolamento che dovevano seguire.
In don Florentino non poteva mancare l’esortazione alla devozione al Sacro Cuore di Gesù. La pubblicò nel Bollettino Ufficiale alla vigilia del mese di giugno. Era la sua devozione preferita. Non per niente fu per tre anni direttore dell’Apostolato della Preghiera e visitatore abituale del Santuario della Grande Promessa a Valladolid. Esortò alla Comunione, alla devozione eucaristica e a una tenera pietà mariana che diffuse e favorì chiedendo in una circolare pubblicata prima di maggio la pratica del mese dei fiori e la recita del Rosario.
Don Florentino fu animato dal desiderio di essere vicino a tutti, soprattutto al popolo più umile. Il suo motto episcopale era: Ut omnes unum sint. Di questa unità nell’amore parlò il giorno del suo arrivo nel saluto. Fu anche il tema della sua prima lettera pastorale pubblicata l’11 aprile. In essa propose, sviluppò e applicò la dottrina del Corpo Mistico di Cristo e lo fece diversi anni prima che Papa Pio XII pubblicasse l’Enciclica Mystici Corporis Christi, del 29 giugno 1943.
Nella sequela di Gesù Cristo
AMBROSIO ECHEBARRÍA ARROITA
Vescovo di Barbastro-Monzón
La Diocesi di Barbastro-Monzón sta vivendo intensamente la gioia pasquale.
Ha partecipato con esemplare devozione all’arresto, all’aberrante processo e alla morte del Signore. Sa che il Figlio dell’Uomo doveva soffrire e morire per salvare l’umanità. Il dolore della passione si è però tramutato in gioia quando nella Liturgia del Sabato Santo ha visto accendersi il cero pasquale, immagine del Risorto.
La morte crudele di colui che fu Vescovo di questa Diocesi, don Florentino Asensio, zelante Pastore dei suoi diocesani, e quella del rispettato e amato vicino di questa città, lo zingaro Ceferino Jiménez, hanno suscitato un sentimento di sereno dolore durante gli oltre dodici lustri trascorsi dal momento della loro morte.
La certezza che il Vescovo e lo zingaro furono dei martiri della loro fede cristiana è stato il sentimento unanime dei diocesani nel corso di questi sessant’uno anni.
Tuttavia, come nel caso di Cristo, quel dolore si trasforma oggi in gioia e in speranza, poiché la Chiesa dichiara entrambi testimoni dell’amore più grande.
Dal momento della loro beatificazione il Vescovo e lo zingaro saranno riconosciuti martiri di Cristo, come Stefano, Sebastiano, Agueda, Cecilia e migliaia di altri martiri della Chiesa di tutti i tempi. È questa la massima fedeltà al Signore.
Lo zelo di Pastore buono di don Florentino venne interrotto dal martirio a meno di cinque mesi dall’inizio del suo ufficio episcopale. Furono interrotti anche i primi passi improvvisati e occasionali di un catechista della strada, del buon Ceferino, che insegnava ai bambini del quartiere. La predicazione del Vescovo e la catechesi dello zingaro acquisiranno tuttavia una nuova e più feconda dimensione a partire dalla loro beatificazione.
Entrambi predicarono non solo con le parole, ma anche con la testimonianza del dono totale di sé per Cristo. Come il Signore che dopo essere stato innalzato sulla croce iniziò a convincere e ad attirare uomini e donne alla sua causa.
La solennità di Piazza San Pietro a Roma è un eloquente invito a seguire Gesù nella croce di ogni giorno, fino al dono della propria vita, se necessario, se le circostanze lo richiedono.
Zingaro e Vescovo, uniti nella fede, nel martirio e nella beatificazione. Silenzioso e eloquente messaggio. San Paolo ricorda ai cristiani di Colosse: «vi siete infatti spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo…; non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti» (Col 3, 911).
La beatificazione dello zingaro e del suo Vescovo da parte della Chiesa è una solennità e la presenza massiccia di «payos» (N.d.T. per gli zingari spagnoli quanti non appartengono alla loro razza) e di zingari nello stesso luogo e nello stesso atto fa crollare per sempre il «muro» di divisione di etnie e di classi sociali nella Chiesa.
La glorificazione del cristiano Ceferino e del cristiano Florentino è un appello ai cristiani e alla società mondiale affinché scompaiano le frontiere che tradizionalmente hanno separato gli zingari e i «payos» e si creino vincoli di unione, di intelligenza, di solidarietà e di convivenza pacifica.
Se la liturgia della Chiesa canta come «felice colpa» quella che meritò l’apparizione del Salvatore, il dolore della morte dei due grandi uomini che vissero nella nostra città merita di essere trasformato in gioia, allegria e speranza per i tempi nuovi.
«Alleluia! Questo è il giorno che ci ha concesso il Signore, sia nostra gioia e nostra allegria» cantiamo noi che abbiamo conosciuto l’oblazione della vita dei futuri Beati Florentino e Ceferino.
Il cammino verso il martirio
Il Servo di Dio venne a conoscenza del sollevamento delle forze nazionaliste in Africa il 18 luglio. Don Florentino che non aveva una radio, sarà stato informato da qualche persona amica.
La mattina di domenica 19 don Florentino, con animo preoccupato ma pieno di fiducia nel Signore, celebrò la messa nel Collegio delle Figlie della Carità, situato a pochi passi dal Palazzo Vescovile.
Per don Florentino le ore di quel 19 luglio 1936 dovettero essere molto amare.
Nella Messa delle 12 nella cattedrale spiegò il catechismo, come aveva fatto ininterrottamente dal 26 aprile. Conosceva senza dubbio il pericolo che lo minacciava, ma tenne fede alla decisione che aveva preso poco dopo il suo arrivo a Barbastro: predicare personalmente al popolo il catechismo.
Quasi alla stessa ora veniva arrestato il primo sacerdote, don José Martínez Lahuerta, tenore beneficiato della cattedrale.
La prima breccia nel bastione religioso si aprì con gli arresti del 19. Era giunto il momento di attaccare lo stesso capo: il Vescovo.
Pertanto la mattina del 20 un picchetto s’incamminò verso il Palazzo Vescovile, su ordine del comitato locale, per effettuare una minuziosa perquisizione.
Una volta conclusasi, fu comunicato al Vescovo che era agli arresti domiciliari e gli venne proibito di avere qualsiasi rapporto con l’esterno.
La detenzione del Vescovo era stata concordata, ancor prima che nella sede del Comitato locale, nei centri anarchici e in altre sedi di partito. Quando il comitato emanò l’ordine, la cosa era già nota in città.
Ciò accadde fra le 9 e le 10 della mattina. Un gruppo attraversò la piazza, prese via Mayor a destra e dopo pochi passi giunse nella piazzetta della cattedrale, davanti all’ingresso del Palazzo Vescovile.
Il capo della spedizione ordinò ad alcuni suoi uomini di appostarsi ad entrambi i lati del portone. I restanti penetrarono nel chiostro e salirono l’ampia scalinata sulla destra. Lo stesso Vescovo aprì loro la porta.
Il giorno 22 fu arrestato e condotto nel Collegio dei Padri Scolopi. Il Servo di Dio attraversò pregando la porta della sala delle cerimonie dove si trovavano i missionari claretiani, del cui arresto egli era sicuramente a conoscenza, senza poter rivolgere loro uno sguardo o una parola d’incoraggiamento. Padre Ferrer fece il possibile per aiutare il Vescovo in quel momento così difficile.
La sua situazione, per quanto riguardava la vigilanza e la libertà di movimento, era diversa.
Il Vescovo, anche se si trovava in una stanza separata, era a capo di quella tragedia e vedeva e condivideva la sorte dei religiosi.
Fino al 25 luglio, solennità di san Giacomo, celebrò la messa nel piccolo oratorio del collegio, indossando l’abito talare.
Da quel momento in poi gli fu però proibita qualsiasi forma di espressione religiosa e fu messo sotto stretta vigilanza.
Non lo si udì mai dire una parola di condanna contro i suoi persecutori, ma al contrario parole in loro favore.
Per tutta la giornata del 25 luglio a Barbastro si attese l’arrivo delle forze militari dirette al fronte di Huesca; si trattava di soldati fra i quali vi erano molti malavitosi.
Cercavano un pretesto per fucilarlo.
Come motivo per accusarlo scelsero i contatti che aveva mantenuto con alcuni deputati a Cortes. In un primo interrogatorio nello stesso collegio dei padri scolopi, sfruttarono il carattere, ritenuto gratuitamente politico, di quei contatti.
La preghiera, che rappresentò il clima morale nella vita del servo di Dio, fu un supporto e un sedativo per la tensione di quei giorni. Dio era con lui, non aveva alcun dubbio. La morte, già in agguato, esigeva ancora più preghiere.
La sera dell’8 agosto i membri del comitato andarono a prenderlo nel collegio dei Padri scolopi con il pretesto di doverlo condurre al Comune per una dichiarazione.
Il Servo di Dio ebbe però il presentimento di ciò che sarebbe accaduto e chiese a Padre Ferrer l’assoluzione.
Lo consegnarono all’incaricato del carcere, che fu testimone oculare di ciò che lì fecero al Servo di Dio, ordinandogli di non permettere alcun contatto con l’esterno.
Questi poté comprovare, attraverso l’inferriata della galleria che dava sul fiume, che don Florentino era tranquillo e spesso si metteva in ginocchio pregando con il rosario fra le mani.
A Barbastro si rumoreggiava che il Servo di Dio, prima di essere condotto al cimitero, era stato sottoposto a una tortura indicibile, che era stato mutilato. In occasione della traslazione e del riconoscimento della salma del Servo di Dio, tenuto conto del suo stato di mummificazione, fu ritenuto opportuno chiedere un referto medico legale, che fu stilato a Barbastro il 16 aprile 1993 da un gruppo di specialisti.
A livello genitale fu comprovata la scomparsa del sacco scrotale e dei testicoli, e la sussistenza di resti di genitali esterni.
La vittima provò pertanto un dolore violento, che superò con dignità e con forza eroiche.
Quando uscì dal carcere dovette salire le scale, attraversare la piazza e salire sul camion.
Durante il cammino verso il cimitero il Servo di Dio ripeteva: «Che bella notte per me».
Nell’udire questa frase, gli domandarono se sapeva dove lo stavano portando ed egli rispose: «mi portate alla casa del mio Dio e Signore; mi portate al cielo».
La fucilazione avvenne il giorno 9 agosto 1936, verso le due di mattina. Le armi usate furono fucili e schioppi.
Don Florentino morì pregando, perdonando e benedicendo i suoi assassini.
Non morì subito e le sue grida di dolore dovute a una frattura costale multipla, molto dolorosa, furono udite fino a un vicino Ospedale.
I carnefici gli diedero allora il colpo di grazia, sparandogli altre tre volte.