Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI
di Antonio Sicari ed. Jaca Book
“Noi condanniamo in modo particolare la stolta opinione di coloro che non temono di asserire che i negri non fanno parte della famiglia umana e che non sono dotati di anima umana”.
Era il 3 gennaio 1870 quando queste parole risuonarono nell’aula del Concilio Vaticano I.
Si discuteva il documento sulla fede cattolica e un vescovo del sud degli Stati Uniti chiedeva che questa “condanna” fosse inserita nel testo in discussione, dato che in America circolavano ancora dei libri in cui si insegnava che i negri sono collocati su un gradino della natura a metà strada tra la bestia e l’uomo.
Prima di sorprenderci per un simile dibattito, dovremmo ricordare che nel Mein Kampf di Hitler (un libro di sessant’anni fa, che il nazismo voleva far diventate il nuovo vangelo dell’Europa!) si legge:
“È un peccato contro la ragione, perché è una follia criminale ammaestrare un negro, un essere che è per la sua origine una mezza scimmia, pretendendo di farlo diventare un avvocato”.
Nei testi ufficiali del nazismo tale “scienza della razza” veniva considerata una scoperta pari solo alla rivoluzione copernicana.
E si accusava la chiesa cattolica perché col suo atteggiamento universalistico insegnava dottrine decrepite ed invecchiate. La scienza della razza, spiegavano i protagonisti di allora, non è stata scoperta sui pulpiti della chiesa, e quindi essa non è competente a giudicarne. Di dottrine universalistiche molta gente è morta. Ora sotto il segno dell’idea razzistica il grande processo del risveglia europeo si sta sviluppando” (Rosenberg, Discorso del 6 settembre 1938).
E si denunciava che “tra le grandi potenze che si oppongono irriducibilmente a una comunità di popoli bianchi accomunati dal sangue nordico c’è la Chiesa romana… Così facendo essa prende posizione contro l’Europa” (Nazionalsozilistiche Monatshefte, novembre 1938).
Su questi temi dunque la Chiesa romana lottava ancora nella prima metà di questo nostro secolo, quando certi intellettuali tedeschi spiegavano che bisognava ristabilire nuovamente il concetto giuridico di “schiavo”, applicato non più solo agli individui, ma ai popoli.
Allora levò la sua voce Pio XI:
“Noi non vogliamo separare nulla nella famiglia umana… Gli uomini sono prima di tutto una grande unica famiglia di viventi”. “I figli di tutte le razze sono uomini, non belve o esseri qualsiasi e la dignità umana consiste nel fatto che tutti fanno una sola famiglia, il genere umano. La Chiesa ci insegna a pensare, a sentire, a trattare la cosa in questo modo… È questa la sua risposta alle discussioni che oggi agitano il mondo… Tutti gli uomini sono oggetto dello stessa affetto materno; tutti sono chiamati alla stessa luce…” (Discorso del 28 luglio 1938).
Abbiamo voluto indugiare su questi amari ricordi del nostro recente passato per due motivi: anzitutto perché oggi si osservano nuovi rigurgiti di razzismo, a causa dei recenti fenomeni migratori e, in secondo luogo, per fare ancor più risaltare, in tanta tenebra, la luce di coscienza e l’ardimento del cuore con cui Daniele Comboni, in pieno secolo XIX, si sentì inviato agli sconosciuti popoli dell’Africa misteriosa e impenetrabile, che egli chiamava “il primo amore della mia giovinezza”, per il quale si diceva pronto a dare la vita.
Molti pensano che la Chiesa sia sempre in affannosa rincorsa della modernità e della civiltà, senza nemmeno sospettare che ella si è massa con anticipo di centinaia e centinaia di anni e con una generosità irraggiungibile, di idee, di uomini e di mezzi, su terreni che ancora qualche decennio fa erano ostici e incomprensibili ai padroni del mondo.
Daniele Comboni, più di un secolo fa, portava disegnato sul sua stemma episcopale l’intero continente africano, sormontato dai cuori di Gesù e di Maria, a indicare l’amore di cui egli voleva interamente avvolgerlo.
Ma torniamo per ora a quel Concilio Vaticano I dove il vescovo di Savannah (Georgia) chiedeva la difesa della razza negra.
C’era un altro sacerdote in quella stessa aula conciliare che cercava in tutti i modi di far trattare la “questione africana”: era appunto Daniele Comboni, un missionario che, a tale scopo, si era fatto nominare dal vescovo di Verona suo “teologo” al Concilio.
Egli non si interessava tanto dei dibattiti in corso, anche se li seguiva con interesse, ma cercava il mezzo di convincere quella grande assemblea a un clamoroso intervento in favore dell’evangelizzazione dell’Africa, il continente più trascurato.
Aveva scritto ai Padri conciliati una lettera dove osservava che purtroppo nessun vescovo nero era presente in quell’assemblea e chiedeva con foga:
“C’è qualcuno tra vai che faccia da padre per i Neri, una voce che faccia da interprete per tanti figli di Cam? Ditelo voi, eccellentissimi Padri…!“.
Finalmente era riuscito a convincerne alcuni e il Papa aveva concesso che il tema dell’evangelizzazione dell’Africa fosse iscritto nel calendario del Concilio.
Ma c’era stata nel frattempo la presa di Roma e l’annessione al Regno d’Italia, e l’assemblea dei Vescovi era stata sospesa sine die.
Fu così che il sogno generoso di Comboni, di scuotere la Chiesa intera, restò affidato solo alle sue povere mani.
Questa è la strana vicenda che dobbiamo raccontare: la storia di un uomo che sembrò un sognatore e un visionario ed era invece un profeta.
Le sue idee, i suoi progetti non sono stati realizzati neanche ai nostri tempi e alcuni non lo saranno mai; eppure tutto ciò che si è mosso e si muove missionariamente, a favore dell’Africa, sembra che egli lo abbia anticipato. E molti dei suoi insegnamenti e progetti attendono ancora di essere presi in considerazione.
Ai suoi tempi i cristiani africani erano solo qualche migliaio, mentre oggi sono milioni, ma egli già intravedeva e progettava il risveglio di tutto il continente nero.
Daniele Comboni nasce a Limone sul Garda nel 1831; è il terzo di otto figli, ma è l’unico bambino che riesce a sopravvivere.
Quando partirà missionario, lascerà alla mamma il ricordo di una fotografia, ed ella dirà con umile sofferenza che “di tanti figli gliene è rimasto solo uno di carta“. Ma oggi ha un figlio santo, che le fa compagnia in cielo ed è onorato in terra.
A dodici anni, poiché la famiglia è molto povera, ha la fortuna di essere accolto nel collegio per ragazzi non abbienti, ma dotati, aperto a Verona da don Nicola Mazza, un celebre e santo educatore del tempo.
E in quel collegio, in cui gli studi conducono indistintamente o ad alte soglie dell’Università di Padova o ai corsi di teologia del Seminario, si respira a pieni polmoni l’entusiasmo missionario che il Papa del tempo sta infondendo nella Chiesa.
Le missioni erano state gravemente colpite, prima con la soppressione della Compagnia di Gesù, poi con la soppressione di molti ordini religiosi nelle nazioni europee.
Sul finire del secolo XVIII i francesi che occupavano Roma avevano addirittura emanato un decreto di soppressione della Congregazione de Propaganda Fide, che si occupava tradizionalmente delle missioni cattoliche, badando bene a saccheggiarne prima la biblioteca.
Ma Pio VII aveva ricostituito sia la Compagnia di Gesù sia la Congregazione, e da allora i problemi dell’Evangelizzazione avevano ripreso a scuotere la coscienza dei cristiani.
E rinasceva in particolare un interesse per l’Africa.
Nel 1839 Gregorio XVI, un pontefice che molti accusano a torto di chiusura, non solo aveva nuovamente condannato la schiavitù e lo schiavismo (definendolo “opera di gente vergognosamente accecata dalla brama di uno sporco guadagno“), ma aveva anche dato istruzioni perché i preti di ogni razza e nazione venissero preparati in modo da poter accedere a tutte le responsabilità e le dignità ecclesiali, anche all’episcopato, allo stesso modo dei bianchi.
E questo, come abbiamo prima ricordato, accadeva in un’epoca in cui molti pretendevano di negare che i negri avessero l’anima.
Nei collegi di don Mazza l’Africa era una vera passione, tanto che il fondatore veniva scherzosamente chiamato “Don Congo“.
Si discuteva anzi in quegli anni di accogliere a Verona ragazze e ragazzi africani, riscattati dalla schiavitù, per formarli cristianamente con l’intento di consentire poi loro il ritorno in patria come evangelizzatori dei propri fratelli (nel matrimonio o nel sacerdozio).
E così venne fatto, a partire dal 1851, mentre alcuni sacerdoti dell’istituto si preparavano a partire per la “Nigrizia“, come allora si diceva.
Per favorire tale progetto, don Mazza aveva addirittura previsto nei programmi scolastici del suo collegio non solo lo studio delle principali lingue europee, ma anche l’apprendimento dell’arabo.
Agli inizi del 1849 (a diciotto anni, dunque) anche Comboni “si consacrò all’Africa” con un voto personale che doveva innervare e sostenere tutta la sua vita.
Scriverà nel 1867: “Votato all’Africa da diciassette anni io non vivo che per l’Africa e non respiro che per il suo bene”.
Dieci anni dopo insisterà: “Sono ventisette anni e sessantadue giorni che ho giurato di morire per l’Africa centrate: ho attraversato le più grandi difficoltà, ho sopportato le fatiche più enormi, ho più volte visto la morte vicino a me e, malgrado tante privazioni e difficoltà, il Cuore di Gesù ha conservato nel mio spirito (…) la perseveranza, in modo che il nostro grido di guerra sarà fino alla fine: o Nigrizia o morte!”. Come si vede, egli contava addirittura i giorni di vita che lo legavano a tale irrevocabile decisione.
“Nigrizia” era il nome con cui gli atlanti di allora indicavano tutta la zona interna dell’Africa, praticamente sconosciuta, su cui si usavano disegnare solo dei leoni e qualche grosso fiume tracciato a caso.
Di quel continente, i bianchi conoscevano soltanto gli insediamenti sulle coste e alle due estremità (Algeria e Sudafrica), dove il clima è più temperato e sopportabile. Il resto era avvolto “da un buio misterioso“.
In seminario, dunque, Daniele si prepara accuratamente, unendo agli studi di teologia quelli di lingua araba, dei costumi di alcune tribù africane e di fondamentali nozioni di medicina.
Il 31 dicembre del 1854 viene ordinato sacerdote a Trento, nella cappella del palazzo vescovile, da Monsignor Giovanni Nepomuceno de Tschiderer (che Giovanni Paolo II ha proclamato “Beato” nel 1995).
Prima che gli sia possibile partire per l’Africa passano quasi tre anni, ma intanto ha modo di perfezionarsi nell’arte medica. Nel veronese, difatti, scoppia un’epidemia di colera, con centinaia dl vittime. Destinato al paese di Buttapietra, Comboni vi esercita una tale generosa assistenza, da prete e da infermiere, che il commissario imperiale gli riserva un solenne encomio, dichiarando che Comboni “ha dato tutto se stesso a tutti“. Era un buon tirocinio.
Partì verso la fine del 1857, quando l’istituto di don Mazza decise di collaborare alla missione africana, inviando un gruppo di cinque preti, il più giovane dei quali era appunto don Daniele, accompagnati da un volontario laico, un fabbro friulano.
Poiché ad Alessandria d’Egitto c’era da fare una lunga sosta organizzativa, i missionari ne approfittarono per un pellegrinaggio in Terra Santa. Allora il paese di Gesù lo si doveva percorrere a piedi o a cavallo e non mancavano pericoli anche per la vita
La lunghissima relazione che Daniele scrisse ai genitori è un racconto gustosissimo e ricco di colore, ancora oggi utile per conoscere la situazione dei luoghi santi nel secolo scorso, sotto il dominio dei turchi, e le pie devozioni dei pellegrini del tempo.
Ciò che soprattutto traspare da quelle pagine è la fede appassionata di uno che sa di “guardare con i propri occhi e toccare con le proprie mani” le reliquie storico-geografiche dell’avvenimento che poi dovrà annunciare “fino agli estremi confini della terra“. Egli infatti stava per spingersi là dove nessun cristiano era ancona giunto e vibrava di commozione al pensiero di dover essere, per i suoi africani, il legame vivente con I’origine.
Un’origine così santa e così familiare! Ai vecchi genitori scrive significativamente: “La grotta dove nacque Gesù Cristo per metà è larga come il corridoio dove abitate, e l’altra metà è come la vostra cucina… Io baciai quasi tutta la grotta, né sapea distaccarmi…”.
Dopo due settimane, potevano finalmente tornare ad Alessandria e inoltrarsi nel Sudan allora dominio egiziano verso la capitale Khartum. Per raggiungerla dovettero risalire prima il Nilo Bianco, poi attraversare su cammelli il deserto della Nubia e infine procedere ancora in barca: un viaggio di due mesi e mezzo circa.
Ma Khartum doveva servire unicamente da base; infatti vi si fermò un solo missionario, mentre gli altri risalirono il Nilo Bianco per altri milleseicento chilometri.
Il tutto col rischio di essere scambiati per una banda di negrieri e di essere trucidati.
Ma più forte del timore era lo stupore. Daniele aveva l’impressione di contemplare la creazione quasi come era uscita dalle mani di Dio. La bellezza era tale che spingeva a lodare con entusiasmo il creatore.
Le lunghe e minuziose relazioni di questi viaggi, che Daniele inviava ai suoi genitori, come per ripagarli della solitudine in cui li aveva lasciati, sono dei veri gioielli in stile popolare e permettono di scoprire l’Africa segreta con gli echi ardenti dell’esploratore e del giovane apostolo (…).
La fede gioiosa e pura emerge quando racconta del battello incagliato in mezzo al fiume, mentre dalle due rive li osservano due differenti minacciose tribù; mentre i missionari decidono di non usare in nessun caso le armi: “Abbiamo ben dieci fucili, ma il missionario si lascia trucidare cento volte piuttosto che discorrere di difendersi con grave pericolo dell’inimico. Gesù Cristo non avrebbe fatto così. Il capitano della barca avvilito ci dice che non sa che farci“.
E poi racconta della Messa celebrata al mattino, dopo una notte di terrori e di preghiere e di eroici propositi: “Oh, come fu dolce, in quella circostanza difficile, stringere fra le mani il Padrone dei fiumi e il Signore di tutte le tribù e di tutti i selvaggi della terra,..“.
Si sente nella lunghissima lettera, nel grosso volume degli scritti occupa più di ventitré fitte pagine, la voglia di rendere i familiari partecipi di quella sua straordinaria avventura, ma anche la consapevolezza di essere abbandonato esclusivamente nelle mani di Dio, quanto più si immerge in quel mondo sconosciuto, splendido sì, ma a tratti minaccioso.
E anche a questa offerta egli vuole che i genitori si sentano legati: “Io sono martire per l’amore delle anime le più abbandonate del mondo, scrive, e voi diventate martiri per amore di Dio, sacrificando al bene delle anime l’unico figlio“.
Se il martirio di sangue era solo un’eventualità, del resto non troppo remota, la disponibilità a dare la vita doveva invece essere quotidiana. I missionari europei, nelle zone interne dell’Africa, morivano come mosche, a causa del clima terribile e delle scarse risorse mediche.
“Di ventidue missionari della Missione di Khartum, che esiste da dieci anni, annotava Comboni, ne morirono sedici e quasi tutti nei primi mesi“.
Nei cinque anni precedenti l’arrivo dei veronesi, era morta almeno la metà di tutti i missionari presenti nell’Africa centrale.
E la storia si stava ripetendo. I sei veronesi, Daniele in testa, erano caduti già preda di violentissime febbri e si erano risollevati a fatica. Uno di essi morì già in quel primo mese, a trentatré anni. Poi morì anche il collaboratore laico che li aveva accompagnati in quella santa avventura. Poi un altro missionario ancora.
Le lettere ai famigliari lasciano presto trapelare la sofferenza raccontando di malattie e di morte. Dal papà riceve la notizia che la mamma non c’è più, e al papà racconta dei suoi confratelli missionari spirati tra le sue braccia.
Racconta che anch’egli è stato malato fino a ricevere l’Estrema Unzione, ma conclude: “Non vi spaventate. La vita nostra è nelle mani di Dio. Ei faccia quel che vuole: noi l’abbiamo con irrevocabile dono sacrificata a Lui. Sia benedetto. Dalla sera alla mattina qui si muore…“.
Ancora mezzo anno di missione e Comboni si ritrova “indebolito all’estremo, pieno di dolori, soggetto ad affanni penosissimi, e pieno di tutti i sintomi che annunziano vicino il termine della vita” (Lettera 6.4.1859).
E così, mentre in Egitto stavano per iniziare i lavori del canale di Suez, Comboni dovette tornare in patria sfinito.
Accolto nuovamente nel collegio di don Mazza, dovette occuparsi degli studenti di colore. Si accorse così che questi soffrivano e deperivano per il rigido clima degli inverni veronesi, cui non erano abituati. Sembra una considerazione banale, ma proprio da questa osservazione prese corpo quell’idea a cui doveva dedicare poi ogni energia, come vedremo tra breve.
Intanto nella missione abbandonata si insediava un nuovo contingente di missionari francescani austriaci.
In poco più di un anno venne inviato quasi un centinaio di religiosi. Ne morirono trentatré mentre quasi tutti gli altri dovettero essere rimpatriati prima che fosse troppo tardi. A fine anno soltanto tre resistevano in missione.
Quando tutto sembrava finito e gli uomini stavano decidendo di abbandonare l’Africa Centrale, lo Spirito di Dio agì nel cuore di Daniele.
Egli si trovava occasionalmente a Roma, nei giorni in cui la Chiesa si preparava, con un solenne triduo di preghiere in San Pietro, alla solenne beatificazione di Margherita Maria Alacoque, la santa che aveva ricevuto e rivelato al mondo le promesse del Sacro Cuore di Gesù.
Nell’immensa Basilica anche Comboni prega. Ripensa all’amore bruciante di Cristo per gli uomini, sa che quel Cuore divino vorrebbe abbracciarli tutti, sa che i credenti dovrebbero ardere di quello stesso fuoco, ed ecco che a un tratto gli balena in mente “un piano“, un progetto per l’evangelizzazione e la salvezza di tutta l’Africa.
Lavora alla sua stesura per sessanta ore, quasi senza interruzione. Il giorno della beatificazione di Santa Margherita Maria è pronto per consegnare il lungo scritto nelle mani del Cardinale Prefetto di Propaganda Fide.
Il progetto; che presto assumerà il titolo definitivo di Piano per la rigenerazione dell’Africa, si fondava su un principio di metodo:
“l’Africa deve essere salvata per mezzo dell’Africa“.
Comboni partiva realisticamente da un’esperienza che si era sedimentata nella sua coscienza: gli europei non potevano resistere alle condizioni di vita del continente africano; gli africani soffrivano nelle condizioni di vita del continente europeo, e quelli che riuscivano ad integrarsi divenivano poi incapaci di riadattarsi culturalmente alla loro terra d’origine.
Sia gli uni che gli altri invece avrebbero potuto vivere e incontrarsi lungo le coste, “luoghi in cui l’africano vive e non si muta, e l’europeo opera e non soccombe“.
Era una constatazione di fatto, banale perfino, e anche troppo condizionata dalle circostanze storiche e ambientali di quegli anni.
Ma la circostanza suggeriva una revisione della metodologia missionaria, e la metodologia nuova obbligava a ripensare la stessa teologia.
Il piano era dunque quello di circondare l’Africa: l’intero perimetro del continente nero doveva essere disseminato di “fortini missionari“, cioè di una catena di centri di formazione culturale e professionale, destinati a preparare catechisti, maestri e maestre di scuola, insegnanti di lavori domestici, artigiani (“agricoltori, flebotomi, infermieri, falegnami, sarti, conciatori di pelli, fabbri, muratori, calzolai, commercianti ecc.“) e a promuovere la formazione di giovani sposi cristiani, di preti e di religiosi indigeni. Convenientemente distanziate sull’intero perimetro, dovevano poi sorgere almeno quattro università e alcuni grandi seminari.
Lungo le coste, dunque, in una zona climatica sostenibile per tutte le razze, i missionari europei sarebbero venuti a contatto con gli africani e li avrebbero preparati a diventare essi stessi evangelizzatoti delle proprie tribù dell’interno.
Si sarebbe così creato un doppio movimento: nei paesi europei sarebbero stati preparati i missionari, preti, religiosi e laici, che dovevano anzitutto apprendere le lingue e studiare i costumi africani, i quali poi sarebbero stati inviati a dirigere quella cintura di “scuole“; da questa cintura sarebbero poi partiti verso l’interno dell’Africa misteriosa i missionari indigeni: preti, religiosi, ma soprattutto laici.
Detto così, può sembrare un piano generico; possiamo però intuire la portata rivoluzionaria che aveva sulla mentalità e sui metodi in vigore nel secolo scorso.
In un’epoca in cui l’evangelizzazione sembrava compito esclusivo dei missionari europei, Comboni non solo proponeva di affidarla agli indigeni mentre numerose persone li ritenevano costituzionalmente incapaci, ma la immaginava come opera soprattutto dei laici africani uomini e donne. Questa marcata valorizzazione dell’elemento femminile era allora una novità pressoché assoluta: “Nell’apostolato dell’Africa Centrale io, il primo, ho fatto concorrere l’onnipotente ministero della donna del Vangelo!“, scriverà egli con comprensibile orgoglio nel 1878.
Inoltre, in un’epoca in cui gli obiettivi dell’evangelizzazione erano in gran parte di carattere spirituale, Comboni proponeva un progetto che comprendeva la rigenerazione dell’intero tessuto sociale.
A questo scopo egli chiedeva che tutti gli istituti missionari del tempo, destinati a sostenere l’impresa “dalle retrovie“, cioè dai loro paesi d’origine, si collegassero per far convergere in un unico progetto tutte le forze in uomini, mezzi, istituzioni. Desiderava che tutta la Chiesa si protendesse maternamente ad abbracciare “tutta intera la stirpe dei negri“, la parte più diseredata dell’umanità. Il coordinamento avrebbe dovuto mettere in movimento, a favore dell’Africa, “tutti gli elementi del cattolicesimo“, garantendo che “l’opera fosse cattolica, non già spagnola, francese, tedesca o italiana“.
Val la pena di sottolineare che, secondo il Piano, doveva essere l’Africa stessa a mantenere i suoi missionari, proprio attraverso la rigenerazione dell’intero tessuto sociale anche dal punto di vista economico!
I primi lettori del Piano lo giudicarono subito “gigantesco” e quindi difficile proprio a causa della sua pretesa “sì universale e abbracciante“.
Comboni stesso lo considerava “un affare grandioso e difficile“, ma anche così certo e necessario che non temeva di dire: “Mi pare di essere già padrone dell’Africa!“.
Il biografo fa notare che Daniele si esprimeva più o meno come qualche decennio prima si era espresso, per ben altri scopi, Napoleone Bonaparte.
Il Piano finì quasi subito nelle mani di Pio ix, il quale ne restò Impressionato; il Papa ricevette Comboni in udienza, lo ascoltò a lungo, lo esortò a prendere i primi contatti per saggiare la possibilità di creare quel difficile coordinamento che avrebbe dovuto compattare tutte le forze. Poi gli promise che la Santa Sede avrebbe dato l’appoggio necessario e concluse beneangurante: “Sono lieto che tu voglia occuparti dell’Africa…Lavora come un buon soldato di Gesù Cristo!“.
Comboni raccontò poi che aveva parlato con tanta foga, incalzando il pontefice fino al punto che, a forza di indietreggiare, quasi si era trovato con le spalle contro la parete della camera. A quel punto Pio ix, con le spalle letteralmente al muro, aveva sorriso, e Daniele era arrossito dalla confusione.
Ma non era passato un mese che aveva già discusso del suo progetto con una ventina di cardinali e vescovi e col Superiore Generale dei Gesuiti.
Intanto però era rimasto solo. L’istituto di don Mazza, al quale Daniele apparteneva, non intendeva assumersi la responsabilità di quel piano per il quale si prevedevano “grandissime ed enormi difficoltà“.
Così a trentatré anni Comboni cominciò la sua “vita pubblica” incontrando i responsabili delle principali istituzioni missionarie operanti allora in Europa. Dopo aver trovato sostegno a Vienna e Colonia, decise di recarsi in Francia. Di passaggio a Torino, incontrò don Giovanni Bosco, il santo fondatore dei salesiani, e Alessandro Manzoni. Con ambedue discusse del progetto che tanto gli stava a cuore.
Attraversò le Alpi in pieno inverno su una slitta trainata da quattordici cavalli diretto a Lione, uno dei centri più importanti per il sostegno delle missioni africane.
Il suo piano, tuttavia, non piacque ai capi della “Società delle missioni estere”, la più importante e accreditata istituzione del tempo.
Ritenevano allarmistici i toni del Comboni (perché, a dire che i missionari europei non resistevano in Africa, si sarebbero scoraggiate le vocazioni!), ed eccessiva la fiducia che egli accordava agli indigeni, i quali non potevano diventare buoni maestri e buoni catechisti; inoltre, il progetto di coordinamento sembrava loro “imbarazzante e complicato“.
Insomma, “per fini santissimi, il mio piano fu gettato a terra“, raccontò Daniele con amarezza e ironia.
Passo allora a Parigi, poi si recò in Germania, in Belgio, in Inghilterra, in Spagna, in Svizzera. Riscuoteva molto interesse; riceveva molte promesse e qualche aiuto economico per aprire una missione, ma era e restava solo, anche se andava intrecciando numerosissime e utili relazioni.
La forza e la decisione però gli crescevano dentro.
Da Londra scriveva a un amico prete: “Mi sento tanto forte che ormai non cedo più. Se il Papa, la Propaganda (Fide) e tutti i vescovi del mondo mi fossero contrari, abbasserei la testa per un anno, e poi presenterei un nuovo Piano: ma desistere dal pensare all’Africa, mai, mai. Non mi scoraggiano né il “cum quibus” (il bisogno di denaro), né il “santo amor proprio” delle Congregazioni (religiose) cui sono affidate le missioni dell’Africa…A suo tempo batterò fuori certo (Cioè: mendicherò) il denaro… Le qualità di un buon battitore e mendicante sono tre: prudenza, pazienza, impudenza. La prima mi manca, ma perbacco la supplisco a meraviglia con le altre due, e soprattutto con la terza!” (Lettera 23.5.1865).
Sapeva che, con l’aiuto di Dio, non avrebbe ceduto davanti a nessun ostacolo e a nessuna sconfessione: “Ho i nervi troppo duri, ho sette anime come le donne. Dirò sempre col cuore: sia benedetto il Signore!” (ivi).
Ma più ancora sapeva che le opere di Dio maturano tutte e solo nella sofferenza e nella contraddizione: “garanzia infallibile della buona riuscita e di un felice avvenire“.
Dopo un nuovo viaggio esplorativo in Africa, nel 1866 torna a Verona, ormai divenuta italiana, proprio mentre il nuovo Regno emana, anche per i territori recentemente annessi, le leggi di soppressione delle congregazioni religiose.
Nonostante la difficile congiuntura, con un vago incoraggiamento da Roma riesce ad aprire in città un piccolo “Seminario per la rigenerazione dell’Africa” sotto la responsabilità del vescovo diocesano. Per sostenerlo fonda una “pia Opera” che raccoglie qualche centinaio di amici, alcuni dei quali nobili e prelati.
Nella mente di Comboni è la prima cellula di quelle molteplici istituzioni europee che dovrebbero raccogliere gli elementi adatti a realizzare la cintura di opere sulle coste dell’Africa.
Le leggi di soppressione furono paradossalmente provvidenziali, favorendo l’ingresso nel nuovo istituto di alcuni religiosi cacciati dai propri conventi.
Comboni può così organizzare la sua prima spedizione missionaria, mettendosi alla testa di quattro religiosi camilliani, due suore francesi e una armena, sedici ragazze africane, schiave riscattate ed educate in Italia.
Al Cairo danno inizio alla prima stazione “intermedia“. Intanto alloggiano in un vecchio convento maronita e sopravvivono con le offerte che vengono dall’Europa. Pian piano nascono le prime scuole. Le necessità economiche si fanno subito impellenti e Comboni deve allontanarsi per una nuova lunga tournée europea.
Qui lo raggiungono in eguale misura onori, riconoscimenti prestigiosi e aiuti da un lato, e innumerevoli “croci“, sospetti e defezioni dall’altro, spesso per colpa dei più vicini collaboratori.
Soprattutto, deve affrontare le gelosie di potenti organismi missionari che si sentono minacciati dalla sua concorrenza. Alla fine giunge la sconfessione da parte di Roma, dove il cardinale prefetto di Propaganda Fide, prima suo amico, va ripetendo a tutti che “don Comboni è un matto, un pazzo da quattordici catene…“. L'”Opera” di Verona rischia di essere smantellata.
Resta per fortuna la fondazione del Cairo. Vi ha già aperto due scuole, e ora, con gli aiuti raccolti in Europa, riesce ad aprirne una terza per ragazze di diverse razze tra cui anche tre fanciulle tedesche. In questa, pero, le maestre sono tutte negre: per i tempi un’incredibile conquista! Ed è una scuola dove si insegnano catechismo, ricamo, lavori domestici, aritmetica, lingua francese, tedesca, italiana, araba e armena.
Comboni era fiero di rispondere così, con evidenza clamorosa, al generale disprezzo con cui musulmani e cristiani consideravano i negri. Scriveva, narrando della sorpresa che quel collegio suscitava al Cairo: “Molti anni di esperienza mi hanno convinto che non solo il musulmano e l’infedele, ma anche il cristiano cattolico di carattere buono e irreprensibile, fatte poche eccezioni, considera gli infelici neri non come uomini, come esseri ragionevoli, ma come oggetti che recano guadagno… Qui il nero come essere ragionevole non ha valore alcuno… E io volli mostrare vieppiù ai popoli, provandolo con un esempio parlante, che secondo lo spirito sublime del Vangelo tutti gli uomini, bianchi e neri, sono uguali dinanzi a Dio e hanno diritto all’acquisizione della fede e alla civiltà cristiana” (Relazione del 6.6.1871).
E ora gli egiziani non soltanto potevano constatare che ragazze negre e bianche venivano formate assieme e accedevano agli stessi livelli di cultura, ma vedevano con i propri occhi, cosa da non credersi!, delle negre che educavano anche ragazze arabe e tedesche.
Era il 1869, l’anno in cui si inaugurava il canale di Suez, alla presenza di re e imperatori europei. Alcuni non mancarono di visitare la scuola. Che orgoglio per Comboni far da guida all’imperatore Francesco Giuseppe e mostrargli le sue maestre nere capaci di intrattenerlo correttamente in tedesco!
Dopo l’avventura del Concilio Vaticano I, di cui abbiamo parlato all’inizio, la Santa Sede impose al missionario di rafforzare anzitutto le basi veronesi del suo Istituto. Era viva, difatti, la preoccupazione per quei collegi che sorgevano al Cairo, diretti da un gruppo raccogliticcio di missionari, diversi per razza, formazione e appartenenze giuridico-spirituali.
Perciò Comboni dovette cominciare nuovamente le sue peregrinazioni per l’Europa per ottenere mezzi con cui aprire le case-madri del suo istituto, una per il ramo maschile che stentava a crescere e una per quello femminile che non esisteva ancora.
Da questo consolidamento dipendeva il permesso di fondare una missione nell’Africa Centrale, che era il vero sogno di Comboni.
Finalmente, nel 1872, Pio IX nominò Comboni Provicario Apostolico dell’Africa Centrale. In pratica gli veniva riconosciuta autorità su tutti i missionari che operavano nell’immensa zona, ampia quasi “venti volte la Francia“: “la più grande missione dell’universo“, diceva lui con fierezza.
Oggi ci fanno tenerezza i suoi tentativi di trasmettere anche solo un’idea della situazione ai propri illustri interlocutori.
In una lettera al vescovo di Verona si legge: “Poniamo che il moderno Regno d’Italia sia tutta l’Africa, che la Toscana e lo Stato Pontificio da Ferrara a Frosinone siano l’Africa interna o Nigrizia; e che il Tirolo sia l’Europa. Secondo una tale ipotesi, Verona corrisponderebbe a Roveredo, Il Cairo a Venezia, Assuan a Ferrara, Khartum a Pistoia, la tribù dei “dinka” a Firenze, la tribù dei “bari” a Siena, la sorgente del Nilo a Roma… Che cosa abbiamo fatto noi finora? Un solo piccolissimo passo. Abbiamo cominciato nella città di Roveredo un piccolo collegio per allevare missionari per il Regno d’Italia…” (Lettera 21.5.1871). E continua descrivendogli tutta la sua opera e i suoi progetti in “scala ridotta“, a misura italiana.
Allo stesso modo fa sorridere il modo in cui a volte spiegava agli europei le “necessità” dei suoi neri.
Non senza umorismo, scriveva: “Bisogna pensare che su cento milioni di infedeli di cui è composto il mio Vicariato, ce ne sono più di ottanta milioni che vanno nudi completamente, uomini e donne. Ora, per stabilire la fede cattolica, bisogna vestire almeno le donne e un po’ gli uomini. Per vestirli è una spesa enorme, perché una pezza di tela ordinaria costa almeno quaranta franchi… Al momento in cui le scrivo, non abbiamo neanche la biancheria per noi…” (Lettera 31.7.1873).
Dal Cairo i missionari ricominciarono a penetrare nell’interno. Quando raggiunse Khartum, Comboni disse con un sospiro che “aveva finalmente recuperato il suo cuore, lasciato li sedici anni prima“.
Fece allora la sua più celebre omelia: “lo ritorno tra voi per non cessare mai più di essere vostro… Il vostro bene sarà il mio, e le vostre pene saranno pure le mie. Io prendo a far causa comune con ciascuno di voi, e il più felice dei miei giorni sarà quello in cui potrò dare la vita per voi” (11.5.1873).
E nella prima lettera pastorale, dichiarò la sua intenzione di consacrare solennemente al Cuore di Gesù quella sua immensa Diocesi. Ciò che fece con una solennissima liturgia, prescrivendo di ripetere poi la consacrazione in tutte le chiese a ogni primo venerdì del mese.
Si spinse quindi, a dorso di cammello, fino a EI Obeid, capitale del Cordofan, una città popolata in gran parte da schiavi. Il Governatore, che aveva sentito parlare delle idee e del carattere focoso di Comboni, si affrettò a comunicargli che “la schiavitù era stata abolita il giorno prima de suo arrivo“. Diceva questo mostrando la copia del trattato di Parigi del 1856, sulla proibizione della. schiavitù, che aveva tenuto nel cassetto per diciassette anni.
Si sente in tantissime lettere l’angoscia che il missionario provava per quest’infame commercio che era deciso a stroncare in ogni modo.
“A centinaia partono i negozianti di schiavi armati di fucili, e vanno nelle tribù a cacciare i neri, e per rubarne mille ne ammazzano almeno duecento. Si incontrano sulla via questi schiavi a piedi, d’ogni età e sesso, mescolati assieme, ma il più ragazze dai quattro ai vent’anni, vestite come la madre Eva in stato d’innocenza, legate al collo, ora con funi attaccate a una lunga trave che poggia sulle spalle di dieci o dodici di queste infelici in fila, altre legate con le mani di dietro o strette con catene grosse di ferro ai piedi…, e così spinte dalle lance di quei manigoldi, viaggiano a piedi per due o tre mesi facendo dodici o quindici ore di viaggio al giorno… Questa non è che una languida idea degli orrori della schiavitù che imperversa nel mio Vicariato” (Lettera 10.3.1874).
Non era raro che Comboni e le sue suore trovassero con raccapriccio, sui sentieri che percorrevano, i corpi degli schiavi uccisi a bastonate o abbandonati, perché non erano riusciti a reggere il ritmo infernale della marcia.
Benché esistessero da tempo delle leggi contro la tratta dei negri, i principali trafficanti erano proprio i Governatori e i Pascià. Comboni cominciò ad esigere l’osservanza delle leggi, a ripristinare una sorta di diritto d’asilo.
“Io ho dichiarato ai Pascià di Khartum e di Kordofan che quanti schiavi trovo in città o fuori legati ecc., tutti li faccio condurre alla missione e non li restituisco più, tutti quelli poi che si presentano alla missione per denunciare i maltrattamenti che ricevono dai loro padroni… li trattengo e non li restituisco (…). Già a quest’ora ne ho liberati più di 500. ‘Le corna di Cristo, dice a don Mazza, sono più dure di quelle del diavolo’” (Lettera 24.6.73).
E tutti comprendono che tale espressione popolare, che suona un po’ irrispettosa, vuole solo trasmettere la forza con cui Cristo ama e difende i suoi poveri: una forza da cui Comboni si sentiva afferrato.
Ai suoi missionari egli insegnava che la Chiesa non solo doveva riconquistare il suo antico diritto di asilo, ma doveva anche considerarsi, in questo campo, “fonte del Diritto“:
“Nel trattare… gli affari degli schiavi, si ponga ogni studio per conquistare e crearsi di fatto il diritto di asilo, avendo sempre in massima che la Missione Cattolica in quelle tribù è legislatrice; e si applichino nella pratica le regole e lo spirito del Vangelo e della Chiesa, di proteggere cioè e di difendere a tutta possa, al cospetto dei sovrani e dei capi, la libertà e gli interessi spirituali degli schiavi, per ammetterli poi nell’ovile di Cristo” (Lettera 29.6.1877).
E non temeva di denunciare in Europa che i consoli generali di Francia e di Vienna, i quali avrebbero dovuto esigere in Egitto l’applicazione dei trattati antischiavitù, “erano tutti comprati“.
Intanto cercava di rafforzare in ogni modo le postazioni conquistate e di spingersi quanto più possibile verso l’interno.
Non mancavano le soddisfazioni e gli entusiasmi. E non mancavano le sofferenze d’ogni genere.
Non erano solo le inevitabili sventure, malattie e morti di alcuni collaboratori, i gravi incidenti e le spedizioni disastrose, ad affliggere Comboni, erano soprattutto le lacerazioni all’interno del suo istituto.
Già nel 1872 scriveva: “Bisogna patire grandi cose per amore di Cristo, combattere con i potentati, con i turchi, con gli atei, con i frammassoni, coi barbari, con gli elementi, coi preti, coi frati, col mondo e con l’inferno“
Ma la situazione tendeva a peggiorare perché i missionari che accorrevano sotto la sua guida avevano provenienze e storie personali diversissime. Accanto al giovane entusiasta e inesperto, c’erano adulti già esperimentati e “fissati” nelle proprie idee e ne propri metodi; c’erano frati di diverse congregazioni e diverse spiritualità, pronti a tutto meno che ad abbandonare i propri criteri; c’era chi cercava solo di sfuggire a difficoltà che aveva avuto in patria; chi nascondeva un passato piuttosto oscuro; chi cercava l’avventura e perfino il proprio tornaconto; chi cedeva alle proprie debolezze e chi si santificava eroicamente.
Così, da un lato c’era la straordinaria personalità di Comboni con gli inevitabili limiti: era un entusiasta, attivissimo, impetuoso, a volte anche caotico nei dettagli, soprattutto nell’amministrazione, sempre pronto a dare fiducia a tutti, anche a chi non la meritava, proteso a un unico scopo al punto da accorgersi troppo tardi delle trame altrui. Si aggiunga che spessissimo doveva assentarsi dalla missione sia per mettere ordine negli istituti-base di Verona, sia per viaggiare in lungo e in largo attraverso l’Europa centrale (“da Madrid a Mosca“) alla ricerca di fondi. E uno dei pochi casi nella storia di un fondatore che inizia un istituto e lo regge vivendo in frontiera, senza potersi curare personalmente delle fondamenta. La vicenda di Comboni è per certi versi paradossale: come quella di un generale costretto a dirigere l’esercito restando sotto il fuoco, in prima linea.
Dall’altro lato c’era alle sue dipendenze quel gruppo composito di missionari tra i quali era facile rinvenire sia i santi che i mediocri. E spesso le stesse persone erano a volte sante, a volte meschine. Nascevano malintesi, ostilità, dissensi, rancori, defezioni, gelosie, calunnie, la cui eco giungeva fino a Roma, inducendo la Santa Sede a prendere informazioni e a fare spiacevoli inchieste.
Comboni soffriva, ma non si lasciava turbare: “Mi hanno combattuto santi e briganti”, diceva. Si difendeva quando glielo chiedevano, ma accettava tutto purché tutti lavorassero a vantaggio dei suoi “poveri neri“.
Non dobbiamo scandalizzarci, perché tra tante scorie brillava anche dell’oro.
Ecco come Comboni racconterà, pochi mesi prima di morire, lo scontro con uno dei suoi missionari più critici: “Allora io conchiusi: ‘Figlio mio, scrivi ciò che vuoi a Sua Eminenza contro di me; scrivi anche a Roma alla Propaganda e al Papa che io sono una canaglia, degno del capestro ecc. Ma io ti perdonerò sempre, ti vorrò sempre bene: basta che tu resti sempre in missione e mi converta e mi salvi i miei cari Nubiani, e tu sarai sempre mio caro figlio, e ti benedirà fino alla morte’. Allora egli mi rispose: ‘Per questo non dubiti, io morirò nella Nigrizia, e dove lei mi destinerà a lavorare per i negri’. Allora io lo abbracciai e gli dissi: ‘Moriamur pro Nigritia’ ” (Lettera 16.7.1881).
Nonostante le calunnie e le resistenze di molti sui collaboratori, fu nominato vescovo. Anzi, a leggere il decreto di nomina, ci si accorge che la nomina intendeva anche riabilitarlo solennemente dopo le accuse subite.
Tornò dunque da vescovo nella sua immensa diocesi e dovette subito affrontare una situazione disperata. Proprio quell’anno una spaventosa siccità aveva colpito il Sudan. Alla siccità era seguita la carestia, quindi la fame, e le epidemie di tifo e di vaiolo. La gente moriva senza pietà.
La popolazione di intere città e villaggi era più che dimezzata. Si beveva la stessa poca acqua che serviva per lavarsi; ci si sfamava con tutto ciò che sembrasse commestibile: dalle suole dei sandali a cani, gatti, topi. Si disseppellivano le ossa di animali morti.
Anche i missionari venivano abbattuti dalla peste uno dopo l’altro.
Comboni restava sempre più solo. In Europa, su tanta tragedia, nessuno sprecava nemmeno una parola.
Avendo quasi tutti i confratelli ammalati, scrive: “Di preti, mi trovo solo, e faccio da vescovo, superiore, pretino, medico, infermiere e becchino“.
Segui un’ondata di paura alla missione: tutti coloro che erano giunti con scarse motivazioni spirituali fuggirono o ritornarono in patria, molte suore furono richiamate in Europa dalle rispettive Congregazioni:
“Ho sofferto di tutto… Le assicuro che Giobbe il giusto ha navigato nelle gioie e nelle delizie in confronto a me. Egli ha avuto più pazienza di me, ma io ho sofferto più di lui”, racconterà poi a una benefattrice.
Vi è forse un po’ di esagerazione per commuoverla, comunque prosegue non volendo certamente mentire “Sono stato quattordici mesi senza poter dormire un’ora sola su ventiquattro“.
Conclude: “Ma per quanto spezzato dalle fatiche dalle amarezze e da tante pene, mi sento un coraggio da leone… L’opera di Dio deve procedere nel cammino della Croce e bisogna ringraziare Dio” (lettera 15.8.1879).
E costretto a tornare nuovamente in Europa nel tentativo di trovare nuove forze in uomini e mezzi.
E come al solito, quando si allontana, ricominciano a circolare le lettere di lamento per quel vescovo sempre in giro per il mondo. Roma, da un lato, lo usa per mille incombenze, dall’altro lo rimprovera per assenteismo. Anche il vescovo di Verona non è totalmente corretto.
C’è tanta meschinità attorno a questo gigante buono che si agita per la sua povera gente.
Ma comincia a circolare in Italia anche l’accusa più infamante:
Comboni avrebbe una passione morbosa per una suora di origine siriana che lo ha molto aiutato in Africa e che ha chiesto di passare al suo istituto.
Ora ella è nella sede di Verona dove, benché abbia più esperienza missionaria di tutte, si pretende trattarla come una novizia.
Comboni la difende. A chi sospetta, ribatte con fierezza: “Ho sudato e patito per salvare bianchi, neri, protestanti, turchi, infedeli, peccatori e prostitute. Ho questuato da Mosca a Madrid e da Dublino all’India per salvare neri e bianchi, per favorire vocazioni a buoni e cattivi, ho fatto bene a gente che poi mi ha sputato in faccia…, ho questuato e sudato per alimentare poveri, infelici, preti, frati, monache e bastarde, e non suderò e questuerò per Virginia che fu uno dei più fedeli e valenti operai della vigna aspra e difficile dell’Africa, e che sempre mi trattò bene?” (Lettera 19.3.1881).
Così nel difendere una sua singola figlia, egli descrive la larghezza smisurata del suo cuore di apostolo ma per certi individui gretti e sospettosi, questa è una prova in più.
Poté tornare in missione agli inizi del 1881. Le sofferenze causate dalla siccità non erano finite e le risorse economiche si prosciugavano sempre più rapidamente.
In Italia, intanto, continuavano le chiacchiere sulla sua presunta relazione, con grave danno per la suora che veniva per tal motivo osteggiata, guardata con sospetto e trattata con palese ingiustizia Dicevano che era “una piaga della missione“.
Daniele sfida le chiacchiere e la difende a spada tratta. “Io ho sempre salvate le anime e non ne ho perduta mai una… Io, sapendo quanta fiducia Virginia ha posto in me, nel mio carattere di vescovo, di fondatore e di padre non posso e non devo tradirla“.
Arriverà fino a dire: “Dio mi darà premio per quel che ho fatto per Virginia, al pari e più di quello che posso meritare sudando per tutta la vita e morendo per salvare la Nigrizia” (Lettera 24.9.188 1).
Ed è quasi incredibile che un uomo che ha smosso imperatori e cardinali, nobili e intellettuali a favore dell’Africa scriva ugualmente lettere su lettere al Cardinale prefetto di Propaganda Fide per difendere una suora ingiustamente accusata, convinto che dalla salvezza di una sola anima dipende la salvezza del mondo. Ed erano le ultime lettere della sua vita.
“Spero da Gesù il Paradiso per quello che ho fatto per questa povera infelice“, grida in una lettera, sei mesi prima di morire.
Ma grida ugualmente che nel suo cuore “non c’è mai stata altra passione che l’Africa“. “L’Africa mia amante“, scrive un giorno con una dignità che i suoi detrattori neppure sanno immaginare.
La meschinità, tuttavia, non conosce limite, al punto che improvvisamente Daniele Comboni, che si è sempre battuto come un leone, sembra arrendersi. Lui, che non si è mai preso riposo, se ne sta a letto abbattuto, senza più voglia di reagire, fingendo perfino un inesistente mal di schiena. Qualcuno difatti ha riferito al suo vecchio padre di settantotto anni la calunnia della sua relazione con la suora e il povero vecchio “contrastatissimo” ha pianto come un bambino. Gli aveva poi scritto: “Capisco che devo morire con una piaga nel cuore, che Dio ti benedica“.
“Ecco il mio estremo e grande dolore, scrive a sua volta Daniele, che si inveisca contro di me, che mi si denunci al Papa. Sarà un danno per la missione qualche anno di mia assenza dall’Africa per giustificarmi davanti all’infallibile ‘Vicario di Cristo’, che è padre di tutti… Ma disturbare e affliggere un santo vecchio, che non solo mi ha dato la vita materiale, ma più ancora la spirituale, questo è troppo… Sia fatta la divina volontà. Tutto è disposto da Dio che accoglie sempre il gemito degli afflitti e protegge l’innocenza; e mio padre morendo con una piaga ai cuore basata sulla calunnia, sul sospetto e sulla menzogna…, acquisterà una nuova corona in cielo, ove spero fra breve ci troveremo insieme” (Lettera 13.8.1881).
Due mesi dopo aver scritto questa lettera Daniele moriva prima ancora del papà, a cinquant’anni.
Proferendo fino all’ultimo parole di scusa per i suoi detrattori, si dice convinto della loro buona fede, li accetta ancora come collaboratori, mentre la sofferenza lo distrugge:
“Mi trovo qui sul campo di battaglia esposto a perdere, per Gesù e per gli infedeli, ad ogni istante la vita, e mentre sono oppresso e immerso in un oceano di tribolazioni che mi squarciano l’anima” (Lettera 24.9.81).
Forse questo accenno a un campo di battaglia si riferisce a una notizia dell’ultima ora, che ha trasmesso per primo in Europa.
Corre voce che “il Sudan è in piena ribellione, a causa di un sedicente profeta che si dice mandato da Dio a liberare il Sudan dai Turchi e dall’influenza cristiana” (Lettera 13.8.1881).
Era l’inizio della celebre e sanguinosa “guerra santa” del Mahdi che stava per spazzare via dall’Africa centrale ogni traccia di presenza cristiana. Comboni ebbe segretamente notizia dei primi scontri e dei primi massacri delle truppe governative.
“Allegri, conclude, andremo in Paradiso più presto! Viva Gesù“.
Mori dopo due mesi, colpito da febbre nera. Non molto tempo dopo il Mahdi distrusse tutta la sua opera e perfino la sua tomba, tenendo prigionieri i suoi missionari superstiti per diciassette anni.
A poco più di un secolo dalla morte di Comboni, il 10 febbraio 1993, sulla più grande piazza di Khartum messa a disposizione dalle autorità mussulmane forse allo scopo di rendere evidente e ridicola l’esiguità del numero dei cristiani sudanesi, Giovanni Paolo II verrà accolto da un milione di fedeli, che ancora vivono in condizioni di persecuzione. Proprio in quella occasione i vescovi del paese manifestarono al pontefice il loro desiderio di veder santificato Comboni, da loro considerato padre nella fede.
“Noi, dice oggi il vescovo del Sudan, siamo il suo sogno divenuto realtà“.