Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI
di Antonio Sicari ed. Jaca Book
Don Bosco nasce quando ancora non sono passati trent’anni dalla Rivoluzione francese, l’anno stesso in cui, con il congresso di Vienna, tramonta il mito napoleonico (1815). Già in tutto il secolo precedente (il cosiddetto «secolo dei lumi») la fede ha subito attacchi e irrisioni con una programmata offensiva condotta in nome di una ragione divinizzata che pretende di lottare contro tutto ciò che chiama «superstizione».
Nel secolo XIX l’attacco è ormai mescolato, in modo spesso assai intricato, con le questioni sociali e con le questioni nazionali.
Non è possibile, nemmeno lontanamente, descrivere il tempo di don Bosco: tempo di prima industrializzazione, di moti risorgimentali, di restaurazioni e di rivoluzioni; in ogni caso di turbamenti per noi inimmaginabili. Per facilitare soprattutto i più giovani, possiamo accostate il nome di don Bosco a quello dei suoi contemporanei più prestigiosi.
Quando muore Hegel, il filosofo dell’idealismo, don Bosco ha 16 anni. Comte che vorrà fondare la nuova religione dell’umanità ha 17 anni più del nostro Santo. Feuerbach ha invece 11 anni di più, Darwin 6 anni, Marx 5 di meno, Dostoevskij 6 anni, Tolstoj 13.
In Italia quando don Bosco nasce, Foscolo ha 37 anni, Manzoni ha 30 anni, Leopardi 17, Mazzini 10, Garibaldi 8.
Pio IX, Leone XIII, Vittorio Emanuele II, Cavour, Rattazzi, Crispi, Rosmini gli sono amici.
Lo stesso anno in cui don Bosco muore, nella stessa città, a Torino, Nietzsche viene definitivamente colto da follia.
Molti di questi nomi don Bosco non li ha neppure conosciuti.
Il letterato più celebre che incontrò in due colloqui segreti a Parigi, convertendolo, secondo la testimonianza di don Bosco stesso fu Victor Hugo.
Ma non c’è dubbio che il mondo in cui don Bosco visse era esattamente quello che veniva agitato da tutto questo insieme di influssi. In esso don Bosco fece le sue scelte, coltivò certe idee e ne rifiutò altre, a volte assunse acriticamente certe impostazioni del suo tempo. Sarebbe assurdo immaginarlo diversamente.
In tutto questo ribollire di persone, avvenimenti, idee, progetti, restaurazioni e rivoluzioni tempo in cui la Chiesa è stata considerata qualche volta alleata e più spesso nemica da opprimere, e in cui l’anticlericalismo ha toccato punte inverosimili – si nota tuttavia un fenomeno diverso che già allora fece piegare il capo anche ai nemici: la santità. Una santità abbondante molteplice quella soprattutto dei cosiddetti “evangelizzatori dei poveri”; una santità trasferita nel bel mezzo di una città in rapida evoluzione, una santità che si trascina appresso un flusso travolgente di esperienze e fenomeni soprannaturali.
Si può prendere un episodio della vita di don Bosco e passarlo al microscopio trovando una documentazione non del tutto perfetta. In compenso ce ne sono subito presenti altri mille sostenuti da decine e decine di testimonianze d’ogni genere.
Prendiamo, ad esempio, come punto di riferimento quel 1848 che passò alla storia come l’anno dei grandi turbamenti, l’anno della prima guerra d’indipendenza.
A Torino il seminario si svuota. Più di 80 chierici, in reazione all’arcivescovo, durante la Messa di Natale, si sono schierati nel presbiterio del Duomo con la coccarda tricolore sul petto e, allo stesso modo hanno partecipato ai festeggiamenti per lo Statuto.
L’anno successivo l’arcivescovo è arrestato e imprigionato. In città si scatenano le bande anticlericali che assaltano i conventi. I preti si dividono in preti patrioti e preti reazionari. Il governo intanto prepara una legge per sopprimere tutti i conventi. La legge, che sopprimerà 331 case religiose per un totale di 4.540 religiosi, verrà firmata nel 1855.
Sono solo alcuni gravi episodi tra mille altri; eppure in quegli stessi anni a Torino vivono e operano contemporaneamente amici e collaboratori tra loro san Giovanni Bosco, san Giuseppe Cafasso (il prete dei carcerati e dei condannati a morte, che dirige spiritualmente san Giovanni Bosco), san Giuseppe Benedetto Cottolengo (il prete dei malati incurabili che diceva d’essere il “manovale della Provvidenza”). Per un certo tempo don Bosco gli dà una mano, poi seguirà la sua strada. Il Cottolengo un giorno gli prende tra le dita un lembo della veste e gli dice profeticamente:
«E’ troppo leggera. Procuratevi una veste più resistente perché molti ragazzi si appenderanno a questo abito».
C’è poi una ragazza di vent’anni più giovane di don Bosco. Costui la incontra nel 1864: diverrà la fondatrice delle Figlie di Maria Ausiliatrice: Santa Maria Mazzarello.
Nel 1854 entra nell’oratorio di don Bosco un ragazzo di una rara profondità interiore.
È l’anno della proclamazione dell’ Immacolata: quel bambino è innamorato di questo mistero mariano. Diventa santo a 15 anni: Domenico Savio.
Un altro ragazzino diventerà successore di don Bosco, anche lui proclamato beato da poco: Beato Michele Rua.
Un altro ancora, che passa all’oratorio 3 anni («la stagione felice della mia vita», quando sa che don Bosco è in fin di vita ha allora 16 anni), offre a Dio in cambio la sua giovane esistenza. Diventerà il Beato Luigi Orione, anch’egli fondatore di una congregazione per bambini poveri (è quel prete di cui parlò Silone in un suo celebre racconto autobiografico). Dirà di don Bosco: «Camminerei sui carboni ardenti per vederlo ancora una volta e dirgli grazie».
Un altro giovane prete, don Federico Albert, predica i primi esercizi spirituali a una cinquantina di ragazzi, tra i quali don Bosco vuol scegliere i suoi collaboratori. Oggi anche quel predicatore è un «Beato»
Sono già otto santi ufficialmente riconosciuti dalla Chiesa (per non dire di decine d’altri rimasti anonimi) che si incontrano e si parlano e si capiscono come l’amico incontra l’amico. E attorno a loro che il soprannaturale si ramifica con manifestazioni innumerevoli e commoventi, come se Dio intendesse mostrare mentre la Chiesa soffre per i peccati suoi e altrui e si dibatte in problemi intricatissimi il sangue vivo e caldo che scorre nel suo corpo ecclesiale e lo Spirito che l’anima dentro la sua corporea pesantezza.
Nella vita di don Bosco s’incontra ogni tipo di fenomeni miracolosi: sogni profetici, visioni, bilocazioni, capacità di intuire i segreti dell’anima, moltiplicazioni di pani e di cibo e di ostie, guarigioni, perfino risurrezioni di morti.
Ricorderò solo due episodi che ebbero una gran risonanza per il loro riflesso pubblico nella società del tempo il primo episodio è non solo triste, ma terribile.
Quando il re è indeciso se firmare la legge di soppressione dì tutti i conventi – legge che gli attirerà la scomunica da parte della Santa Sede – don Bosco «sogna» che un valletto di corte gli annuncia:
«Grandi funerali a corte».
Ne parla a tutti i suoi collaboratori. Scrive una lettera al re per avvertirlo “che pensasse a regolarsi in modo da schivare i minacciati castighi, e dl impedire a qualunque costo quella legge”.
Questa la successione dei fatti. L’avvertimento di don Bosco e del dicembre del 1851. Il 12 gennaio 1855 muore la Regina Madre, Maria Teresa, a 54 anni. Il 20 gennaio muore la Regina Maria Adelaide, moglie del re, a 33 anni. L’11 febbraio muore il fratello del re, principe Ferdinando di Savoia, a 33 anni. Il 17 maggio muore l’ultimo figlio del re, di appena 4 mesi.
Il re è furioso con don Bosco. Il 29 maggio, consigliato perfino da alcuni preti, firma comunque la legge.
Ognuno giudichi come vuole, ma i contemporanei restarono allibiti.
L’altro episodio è invece commovente: nell’estate 1854 a Torino scoppia il colera che ha il suo epicentro a Borgo Dora, dove si ammassano gli immigrati, a due passi dall’oratorio di don Bosco. A. Genova ha già fatto 3.000 vittime In un solo mese, a Torino, 800 colpiti e 500 morti. Il sindaco rivolge un appello alla città, ma non si trovano volontari per assistere i malati né per trasportarli al lazzaretto. Tutti sono presi dal panico. Il giorno della Madonna della Neve (5 agosto) don Bosco raduna i suoi ragazzi e promette: «Se voi vi mettete tutti in grazia di Dio e non commettete nessun peccato mortale, io vi assicuro che nessuno di voi sarà colpito dalla peste» e chiede loro di dedicarsi all’assistenza degli appestati.
Tre squadre: i grandi a servire nel Lazzaretto e nelle case, i meno grandi a raccogliere i moribondi nelle strade e i malati abbandonati nelle case. I piccoli in casa disposti alle chiamate di pronto intervento.
Ognuno con una bottiglietta di aceto per lavarsi le mani dopo aver toccato i malati. La città, le autorità, anche se anticlericali, sono sbalordite e affascinate. L’emergenza finisce il 21 novembre. Tra agosto e novembre a Torino ci sono stati 2.500 appestati e 1.400 morti. Nessuno dei ragazzi di don Bosco si ammalò.
Sono solo due episodi utili a far percepire qualcosa del clima in cui viveva don Bosco e in cui vivevano, come in qualcosa di palpabile, i ragazzi e i collaboratori che stavano con lui, attratti non dalla sua magia, ma dalla sua familiarità con Dio. Questa è la spiegazione cattolica. Chi la nega per principio, poi deve necessariamente accumulare mille e una spiegazione alternativa.
Quando nel 1884 don Bosco venne intervistato da un reporter del Journal de Rome (è il primo santo della storia che sia stato sottoposto a questa tecnica giornalistica inventata nel 1859 da un americano), gli verranno poste, tra le altre, queste domande:
D. Per quale miracolo lei ha potuto fondare tante case in tanti paesi del mondo?
R. Ho potuto fare più di quello che speravo, ma il come non lo so neppure io. La Santa Vergine, che sa i bisogni dei nostri tempi, ci aiuta…
D. Permetta un’indiscrezione: di miracoli ne ha fatti?
R. Io non ho mai pensato ad altro che a fare il mio dovere. Ho pregato e ho confidato nella Madonna…
D. Che cosa pensa delle condizioni attuali della Chiesa in Europa, in Italia, e del suo avvenire?
R. Io non sono un profeta. Lo siete invece tutti voi giornalisti. Quindi è a voi che bisognerebbe domandare che cosa accadrà. Nessun,o eccetto Dio, conosce l’avvenire. Tuttavia, umanamente parlando, c’è da credere che l’avvenire sia grave. Le mie previsioni sono molto tristi, ma non temo nulla. Dio salverà sempre la sua Chiesa, e la Madonna, che visibilmente protegge il mondo contemporaneo, saprà far sorgere dei redentori.
Ma chi era dunque don Bosco?
Per parlare di lui, bisogna cominciare a parlare della madre: una povera contadina che non sapeva né leggere né scrivere, rimasta vedova quando Giovanni ha due anni e che deve lottare a denti stretti, in tempi di carestia e di disgrazia, per tenere unita la sua Famiglia. Ciò che ella conosce é elementare: alcuni brani della Scrittura a memoria e gli episodi del Vangelo; i principi fondamentali della vita cristiana (“Dio vede anche nei tuoi pensieri”); il paradiso e l’inferno; il valore redentivo della sofferenza; uno sguardo fiducioso alla Provvidenza; i Sacramenti e il Rosario.
Ascoltiamo però don Bosco stesso: «Ricordo che fu lei a prepararmi alla prima confessione. Mi accompagnò in Chiesa, si confessò per prima, mi raccomandò al confessore e dopo mi aiutò a fare il ringraziamento. Continuò ad aiutarmi fino a quando mi credette capace di fare da solo una degna confessione».
Ancora don Bosco: «Nel giorno della prima Comunione in mezzo a quella folla di ragazzi e di gente era quasi impossibile conservare il raccoglimento. Mia madre al mattino non mi lascio parlare con nessuno. Mi accompagnò alla Sacra mensa. Fece con me la preparazione e il ringraziamento. Quel giorno non volle che mi occupassi dì lavori materiali. Occupai il tempo nel leggere e nel pregare. Mi ripeté più volte queste parole: Figlio mio, per te è stato un grande giorno. Sono sicura che Dio è diventato il padrone del tuo cuore. Promettigli che ti impegnerai per conservarti buono per tutta la vita…».
Ed è la stessa donna che, quando si parla di una possibile vocazione religiosa del figlio, gli dice: «Se ti facessi prete e per disgrazia diventassi ricco, non metterò mai piede in casa tua».
E il giorno dell’ordinazione sacerdotale: «Ora sei prete, e sei più vicino a Gesù. Io non ho letto i tuoi libri, ma ricordati che cominciare a dir messa vuol dire cominciare a soffrire. D’ora in poi pensa solo alla salvezza delle anime e non prenderti nessuna preoccupazione di me».
Quando avrà appena incominciato a far la nonna dei nipotini datigli dall’altro figlio, con una relativa tranquillità, Giovanni andrà da lei e le dirà: «Un giorno avete detto che se diventavo ricco non sareste mai venuta a casa mia. Ora invece sono povero e carico di debiti. Non verreste a fare da mamma ai miei ragazzi?».
Mamma Margherita risponderà soltanto umilmente: «Se credi che questa sia la volontà di Dio…».
E passerà gli ultimi dieci anni della sua vita (1845-1856) a fare da mamma a decine e centinaia di figli non suoi, ma che quel figlio prete le conduce da parte di Dio, fino a sfInirsi, prendendo forza quando non ne può più da uno sguardo umile e paziente rivolto al crocifisso.
I santi nascono e crescono cosi.
Fin da piccolo Giovanni Bosco ha fatto un sogno che, perfino durante il sonno gli sembrava «impossibile»: cambiare delle piccole «belve» in figli di Dio; e da allora un impulso interiore lo spinge a dedicarsi alla gioventù abbandonata.
Per loro ha voluto ad ogni costo diventare prete, studiando fuori età, sorretto da una memoria prodigiosa, superando umiliazioni e fatiche d’ogni genere.
Negli anni di studio ha trovato tempo per mantenersi o per passione – di fare il pastore, il giocoliere e il saltimbanco, il sarto, il fabbro ferraio, il barista e il pasticciere, il segnapunti al tavolo deI biliardo, il suonatore di organo e di spinetta. Più avanti farà anche lo scrittore e il compositore di canzoni.
Ma preoccuparsi degli altri ragazzi privi di pane, di istruzione e di fede, gli sembrava come egli stesso scrive – « l’unica cosa che dovessi fare sulla Terra ». E questo « fin da quando avevo cinque anni ».
Torino a quel tempo è presa dalla febbre della prima industrializzazione. Gli immigrati si contano a decine di migliaia, nel 1850 si parla addirittura di 50.000 o 100.000 immigrati. Si cominciano a costruire case su case. La città è invasa da bande di ragazzi che si offrono per tutti i lavori possibili (ambulanti, lustrascarpe, fiammiferai, spazzacamini, mozzi di stalla, garzoni…) e non sono protetti da nessuno. Si formano vere e proprie bande che infestano i sobborghi, soprattutto nei giorni festivi in cui non si lavora.
I primi accostati da don Bosco sono muratori, scalpellini, selciatori e simili.
Molti ragazzi si danno al furto e finiscono, prima o poi, nelle carceri della città.
Anche altri preti giovani del tempo hanno intanto cominciato a preoccuparsi dei ragazzi abbandonati, ma si lasciano trascinare dai problemi politici e la loro opera viene travolta. Uno di essi molto noto a Torino , persuaso di «seguire il popolo», ha condotto i suoi duecento giovanotti a prendere parte alla battaglia di Novara. È una disfatta in tutti i sensi.
Don Bosco non guarda in faccia nessuno, preoccupato solo dei suoi ragazzi. Li raccoglie in un oratorio, se li trascina dietro nella continua ricerca di un luogo abbastanza capace per poterne ospitare un numero sempre crescente. Deve combattere su molti fronti contemporaneamente. I politici sono preoccupati del potenziale rivoluzionario rappresentato da quelle bande di giovinastri che obbediscono, a centinaia, a un solo cenno di don Bosco. L’oratorio è insistentemente sorvegliato dalla polizia. Alcuni ben pensanti «pensano» che l’oratorio sia un centro d’immoralità. I parroci della città sono preoccupati perché vedono distrutto il «principio parrocchiale». Se si deve fare l’oratorio, bisogna farlo nelle parrocchie. L’accusa è: «I giovani si staccano dalle parrocchie».
Don Bosco è messo sotto accusa: i parroci d’altronde pensano ancora a un’epoca tramontata, quando i giovani immigrati si presentavano con un biglietto di raccomandazione del proprio parroco d’origine per essere accolti.
D’altra parte gli oratori parrocchiali – quelli che esistono sono solo festivi e don Bosco li immagina quotidiani, con una compromissione totale del prete. Solo questo fa sì che i parroci sospendano prudentemente il loro giudizio e la loro offensiva.
Insistono però almeno che don Bosco indirizzi successivamente i suoi giovani alle rispettive parrocchie.
Ma sono ragazzi che non si avvicinerebbero mai a una parrocchia, e per di più cosa ancora più seria e sempre difficile da capire per chi sta al di fuori l’oratorio di don Bosco è solo secondariamente una struttura o un luogo. Sostanzialmente l’oratorio è don Bosco stesso, la sua persona, la sua energia, il suo stile, il suo metodo educativo: e questo non lo si può trasportare da una parrocchia all’altra. Per fortuna l’Arcivescovo decide di visitare personalmente l’Oratorio. Passa una giornata piena d’allegria e si diverte di gusto («non ho mai riso tanto in vita mia», dirà). Dà la Comunione a più di trecento ragazzi e poi la Cresima, fiero di tanta gioventù, anche se alzandosi con tutta la mitria picchia energicamente il capo sul soffitto della bassa costruzione.
Per sua decisine tutti i verbali delle cresime vengono raccolti dalla Curia e invitati successivamente ai rispettivi parroci: così l’Oratorio è praticamente accettato come “la parrocchia dei ragazzi che non hanno parrocchia”.
Con una significativa sottolineatura teologica, don Bosco dice che l’abate Rosmini suo entusiasta Sostenitore « paragonava la nostra opera alle missioni che si aprono in terra straniera ».
Un altro versante di lotta per don Bosco è con i cosiddetti «preti patrioti», che tentarono gravemente di politicizzare i suoi ragazzi, per lanciarli nelle lotte risorgimentali.
“Nell’anno 1848 – scrisse ci fu un tale pervertimento di idee e di opinioni che non potevo più nemmeno fidarmi dei collaboratori domestici. Ogni lavoro casalingo doveva quindi essere fatto da me. Toccava a me fare cucina, preparare a tavola, spazzare la casa, spaccare la legna, confezionare camicie, calzoni, asciugamani, lenzuola e rammendarli quando si strappavano. Sembrava una perdita di tempo invece trovai in quell’attività una possibilità d’aiutare i giovani nella loro vita cristiana. Mentre distribuivo il pane, scodellavo la minestra, potevo con calma dare un buon consiglio, dire una buona parola”.
Su un altro versante ancora, la lotta era contro coloro che (ed erano tanti, a un certo punto furono perfino gli amici) si convinsero che don Bosco era veramente e irrimediabilmente impazzito.
Mentre con i suoi ragazzi traslocava ripetutamente da un misero luogo all’altro, don Bosco parlava loro con assoluta convinzione di vasti oratori, chiese, case, scuole, laboratori, ragazzi a migliaia, preti numerosissimi a disposizione.
I ragazzi gli credevano, ripetevano le sue parole. Al contrario, perfino i più affezionati amici lasciavano cadere le braccia: «Povero don Bosco, si è tanto infatuato dei giovani che gli ha dato di volta il cervello».
Tutta Torino parlava del “prete pazzo”. Si cercò perfino di internarlo, con uno stratagemma.
L’ amico più intimo del Santo, un altro prete, piangeva: «Povero don Bosco, è proprio andato!».
“Tutti scrive don Bosco si tenevano lontani da me. I miei collaboratori mi lasciarono solo in mezzo a circa quattrocento ragazzi”.
Ciò che sconvolgeva era soprattutto una cosa: a chi gli obiettava che la realtà era infinitamente lontana dalle sue descrizioni “case, scuole, chiese ecc.” ed esasperato gli diceva: « ma dove sono queste cose? », rispondeva: « Non lo so, ma esistono, perché io le vedo ».
Intanto i ragazzi crescevano e preoccupavano sempre di più.
« “Devo riconoscere scrive don Bosco che l’affetto e l’ obbedienza dei miei ragazzi toccavano vertici incredibili ». Ma questo rafforzava la voce che don Bosco, con i suoi giovani, poteva da un momento all’altro dare inizio a una rivoluzione.
Bisogna riportarsi al clima politico di allora. Ma d’altronde non aveva quell’uomo straordinario portato fuori dal carcere, sulla parola e senza nessuna sorveglianza, per un giorno di sollievo, più di trecento giovani carcerati, riconducendoli a sera senza che ne mancasse nemmeno uno.
Bisogna anche capire chi era don Bosco per loro. Un episodio lo rivela sufficientemente.
Nel luglio deI 1846 egli ebbe uno sbocco di sangue e svenne, dopo una massacrante giornata passata all’Oratorio.
In breve: è in fin di vita e riceve l’estrema unzione. Resta otto giorni tra la vita e la morte.
In quegli otto giorni ci furono ragazzi che, sotto il sole rovente lavorando sulle impalcature, non toccarono una goccia d’acqua, per chiedere a Dio la sua guarigione. Si davano il cambio notte e giorno al Santuario della Consolata per pregare per lui, dopo aver fatto le consuete dodici ore di lavoro. Alcuni promisero di recitare il rosario per tutta la vita. Altri di restare a pane e acqua per mesi, per un anno, qualcuno per sempre.
I medici dicevano che quel sabato don Bosco sarebbe certamente morto. Gli sbocchi di sangue erano ormai continui, Don Bosco guarì, impensabilmente.
Li ritrovò tutti pallidissimo e senza forze in una cappella. Disse solo: «La mia vita la devo a voi. D’ora in poi la spenderò tutta per voi». E passò il resto della giornata ad ascoltarli uno per uno per cambiare in cose facili e possibili le promesse smisurate che essi avevano giurato a Dio per la sua guarigione.
Non era solo un’affezione romantica, e idealizzata, era frutto di una vita spesa in opere e opere.
Impossibile descriverla. Possiamo solo elencare alcuni dati.
Nel 1847, quando già centinaia di ragazzi frequentano l’Oratorio, alcuni tra loro, che non sanno dove andare perché non hanno casa, cominciano a vivere stabilmente con don Bosco e mamma Margherita.
I primi ospiti sono alloggiati in cucina. Saranno sei alla fine dell’anno; trentacinque nel 1852; centoquindici nel 1854; quattrocentosessanta nel 1860; seicento nel 1862, fino ad un tetto di ottocento.
Nel 1845 don Bosco fonda la scuola serale, con una media di trecento alunni ogni sera.
Nel 1847 un secondo oratorio.
Nel 1850 fonda una società di mutuo soccorso per operai.
Nel 1853 un laboratorio per calzolai e sarti.
Nel 1854 un laboratorio di legatoria di libri.
Nel 1856 un laboratorio di falegnameria.
Nel 1861 una tipografia.
Nel 1862 una officina di fabbro ferraio.
Intanto nel 1850 è nato anche un convitto per studenti, con dodici studenti che diventano centoventuno nel 1857.
Nel 1862 dunque l’oratorio conta seicento ragazzi interni e altrettanti esterni.
Oltre i sei laboratori ci sono scuole domenicali, scuole serali, due scuole di musica vocale e strumentale, e trentanove salesiani che con don Bosco hanno dato inizio a una congregazione religiosa.
Nel frattempo – a seminario diocesano chiuso egli ha curato anche le vocazioni sacerdotali. Al termine della sua vita (1888), da Valdocco saranno uscite diverse centinaia di preti «nuovi» perché provenienti dalle classi povere.
Nel frattempo ancora sempre per i suoi ragazzi don Bosco è diventato scrittore: scrive una storia sacra ad uso delle scuole, una storia ecclesiastica, una storia d’Italia, molte biografie e opere educative. Una cinquantina di titoli. Ha scritto perfino un volumetto sul «sistema metrico decimale ridotto a semplicità»: tale nuovo sistema doveva entrare in vigore nel 1850 e doveva essere insegnato nelle scuole a partire dal 1846, ma il governo non aveva preparato nessun testo. Considera ogni volumetto «un atto di amore» per la Chiesa e per i suoi ragazzi. Un suo manuale di formazione per giovani, piuttosto voluminoso, raggiunse nel 1888 la 118a edizione.
Abbiamo seguito intanto don Bosco fino agli inizi degli anni ’60: manca ancora un quarto di secolo alla sua morte. Per allora avrà inoltre curato la pubblicazione di 204 volumetti di una «Biblioteca della gioventù italiana» (con testi latini e greci), avrà aperto i primi cinque collegi, fondato una congregazione femminile, avrà costruito il Santuario di Maria Ausiliatrice e la chiesa del Sacro Cuore a Roma, avrà fondato 64 case salesiane in sei nazioni e missioni in America Latina, e avrà 768 salesiani. Avrà compiuto viaggi apostolici trionfali in Francia e Spagna, paesi in cui tutti vorranno conoscere «l’uomo della fede» (titolo con cui è universalmente noto).
In Francia resterà quattro mesi, nel 1883, viaggiando dovunque. Quando giunge a Parigi, Le Figaro scrive che davanti alla sua casa «file di carrozze stazionano tutto il giorno già da una settimana». Il Cardinale Lavigerie Io chiama «il San Vincenzo de’ Paoli dell’Italia».
Un particolare significativo: nel 1883 la tipografia di don Bosco era quella meglio attrezzata di Torino. Nel 1884 alla «Esposizione nazionale dell’Industria, della Scienza e dell’Arte», don Bosco ebbe a disposizione una galleria speciale sul cui ingresso si leggeva a caratteri cubitali la scritta:
DON BOSCO: FABBRICA DI CARTA, TIPOGRAFIA, LEGATORIA E LIBRERIA SALESIANA
Fu il primo prete espositore in una Esposizione nazionale dedicata al lavoro. Dice lo storico che chi leggeva la scritta, prima rideva, pensando di trovare dentro il solito bazar di robe da sacrestia, poi entrava e restava allibito di poter assistere dal vivo all’intera catena di lavoro. Non era mai avvenuto a nessuno di poter assistere a tutto il processo con cui dagli stracci per fare la carta si arriva all’uscita del volume, illustrato con centinaia di incisioni e ben rilegato. Un giornale di Reggio Emilia scrisse che la galleria di don Bosco era una delle poche sempre affollate.
Quest’attività impressionante pone veramente la domanda sul significato storico dell’opera di don Bosco.
Oggi chiunque può permettersi, senza rischio, qualunque banalità e qualunque brutale giudizio quando parla di cose e persone di Chiesa, tanto molti cristiani accettano tutto e condividono tutto: hanno paura di essere trionfalistici; ogni critica e ogni deprezzamento della loro storia va loro bene. A volte si fustigano anche da soli, tanta è la voglia di apparire moderni. Caso mai, se si esagera, sorridono un po’. Dagli oratori salesiani, in questi 125 anni di storia della nostra nazione, sono usciti, formati in tutti i sensi, milioni di italiani. Ma milioni di uomini appaiono «patetici» alle idee di qualcuno, dato che San Giovanni Bosco non aveva posizioni politiche avanzate ne’ intelligenti analisi sociali progressiste.
Semplicemente vedeva il bisogno e interveniva. Ma interveniva su uomini concreti, quelli che la storia la fanno tutti i giorni anche se sembrano «patetici» di fronte alle grandi sintesi storiche dei professori.
In un promemoria che lo stesso don Bosco scrisse a Francesco Crispi si legge:
«Dal registro consta che non meno di centomila giovinetti, assistiti, raccolti, educati con questo sistema, imparavano la musica, chi le scienze letterarie, chi arte e mestieri, e sono divenuti virtuosi artigiani, commessi di negozio, padroni di bottega, maestri insegnanti, laboriosi impiegati e non pochi coprono onorifici gradi nella milizia. Molti anche, forniti dalla natura di un non ordinario ingegno, poterono percorrere i corsi universitari e si laurearono in lettere, in matematiche, medicina, leggi, ingegneri, notai, farmacisti e simili».
Davanti a don Bosco qualcuno storce il naso perché in politica in una situazione politica complessa e violenta preferì astenersi da un lato (gli bastava, come diceva, “la politica del Pater noster”), e dall’altro scelse il principio apparentemente facile di stare col Papa.
Nell’epoca in cui tutti anche gli anticlericali gridavano: “Viva Pio IX”, perché speravano in un Papa liberale, don Bosco insegnava ai suoi ragazzi che bisognava invece gridare “viva il papa”.
Egli era, secondo la sua espressione, attaccato al pontefice “ più che il polipo allo scoglio”.
Interrogato sulla questione romana, perché prendesse posizione, don Bosco rispondeva:
« Io sono col Papa, sono cattolico, obbedisco il Papa ciecamente. Se il Papa dicesse ai piemontesi: Venite a Roma, allora io pure direi: Andate. Se il Papa dice che l’andata dei, piemontesi a Roma e un furto, allora io dico lo stesso. Se vogliamo essere cattolici, dobbiamo pensare e credere come pensa il Papa ».
Le questioni e i personaggi in questione, allora non erano mitizzati come lo sono oggi nei nostri libri dì storia: apparivano come erano con tutta la loro ambiguità, meschinità. D’altra parte ancora, l’opera di quei preti che allora si schierarono politicamente «col popolo, per l’unità» resta nella storia assolutamente irrilevante.
D’altra parte ancora, don Bosco fu l’uomo di cui tutti, Chiesa e Stato, re e pontefice, ministri e cardinali, sapevano di potersi servire quando bisognava assolutamente trovare un accordo.
Quando bisognò risolvere la questione delle diocesi italiane dopo l’unificazione (sessanta diocesi erano senza vescovo), le lunghe trattative ebbero don Bosco come intermediario.
Un altro episodio significativo: fu proprio il ministro Rattazzi che spiegò spontaneamente a don Bosco come fondare una congregazione religiosa, nonostante la soppressione degli ordini religiosi da lui stesso decretata (la famosa legge Rattazzi del 1855). « Rattazzi disse don Bosco volle con me combinare vari articoli della nostra Regola, riguardanti il modo dì comportarci rispetto al Codice Civile e allo Stato ».
In pratica gli insegnò abilmente a fare una congregazione che al suo interno fosse governata dalle normalI leggi ecclesiastiche e che al suo esterno rispetto allo Stato fosse governata secondo le leggi civili che regolano le diverse associazioni di mutuo soccorso o altro genere. L’intuizione geniale di «creare una società religiosa che davanti allo Stato fosse una società civile» gliela diede Rattazzi stesso. L’idea sorprese perfino i Vescovi. Nasceva dall’affetto che Rattazzi, anticlericale convinto, aveva per don Bosco.
Ancora, davanti a don Bosco si storce il naso perché egli non contestò l’assetto sociale del suo tempo e le divisioni in classi, ma aiutò i poveri restando dentro quel sistema. Cioè: chiedendo l’elemosina ai ricchi. Anche questa critica significa ragionare solo con i principi e non con i fatti. Certo, mentre don Bosco fondava il suo secondo oratorio, Marx scriveva il Manifesto. Don Bosco aveva un suo giudizio abbastanza preciso sulla situazione, anche se non rifletteva scientificamente sulla vastità internazionale del fenomeno pauperista e dei rivolgimenti che si preparavano.
Ma egli rifiutò di fare il «prete sociale» e il politico perché sentì che la sua vocazione era l’intervento immediato, l’amore che subito si rimbocca le maniche e sì mette al lavoro. C’è chi è chiamato a battersi contro le cause dell’ingiustizia e chi è chiamato a battersi subito contro i suoi effetti. Ad ognuno la sua vocazione: tutte sono importanti, quella di chi riflette e prepara analisi e progetti e quella di chi intanto deve amare, deve accogliere, deve salvare perché i poveri non possono attendere le grandi analisi e i grandi progetti. «Lasciamo agli altri ordini religiosi più formati di noi, diceva, le denunce, l’azione politica. Noi andiamo diritti ai poveri».
D’altra parte, perfino Pertini scrisse di aver imparato nelle scuole salesiane «un amore senza limiti per tutti gli oppressi e i miseri: la mirabile vita del vostro Santo mi ha iniziato a questo amore».
Ed è interessante ancora sapere che alcuni dei primi contratti d’apprendistato fatti in Italia con vere e rivoluzionarie novità sociali sono scritti e firmati da don Bosco.
Un ultimo aspetto non era stato finora mai rimproverato a don Bosco: la sua capacità educativa.
Oggi c’è anche chi accusa don Bosco d’aver avuto una pedagogia «funebre», «regressiva», «un disegno pedagogico quasi ossessivo».
Nel 1920 un celebre pedagogista anticlericale e non credente ma onesto, Giuseppe Lombardo Radice, scriveva ai suoi: «Don Bosco era un grande che dovreste cercare di conoscere. Nell’ambito della Chiesa…egli seppe creare un imponente movimento di educazione, ridando alla Chiesa il contatto con le masse che essa era venuta perdendo. Per noi che siamo fuori della Chiesa e da ogni Chiesa, egli è pure un eroe, l’eroe dell’educazione preventiva e della scuola-famiglia. I suoi prosecutori possono essere orgogliosi».
E ancora: «Don Bosco? Il segreto e in un idea! Le nostre scuole: molte idee. Molte idee può averle anche un imbecille, prete o non prete, maestro o non maestro. Un’idea e difficile; un’idea vuol dire un’anima»
Dopo sessant’anni, quelli che contestano don Bosco hanno evidentemente «moltissime idee». Nel 1877 don Bosco diede alle stampe un breve fascicolo intitolato: Il sistema preventivo dell’educazione della gioventù.
Anzitutto la prima prevenzione era la persona stessa dell’educatore, la sua assoluta dedizione.
«Ho promesso a Dio che fino l’ultimo mio respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani diceva don Bosco. Io per voi studio, per voi lavoro, per voi vivo, per voi sono anche disposto a dare la vita»
«Fate conto che quanto io sono, sono tutto per voi, giorno e notte mattina e sera, in qualunque momento».
La prevenzione comincia a questo livello di dedizione totale del educatore, dedizione che don Bosco intendeva nei termini più concreti possibili, fino a esigere che anche i direttori delle sue case stessero in mezzo ai ragazzi in tutti i momenti, anche ricreativi: dovevano essere visibili, percepibili, incontrabili, familiari.
Allora, in un regime educativo fondato sull’autoritarismo, era una vera e propria rivoluzione, un’impostazione capovolta. La disciplina non doveva essere ottenuta col castigo, ma con la persuasione e non aveva bisogno di «schieramenti»: non aveva cioè come ideale la fila ben ordinata, ma l’assembramento intorno all’educatore.
Il corrispondente di un giornale francese (Pèlerin) nel 1883 scrisse in un suo articolo:
« Noi abbiamo visto questo sistema in azione. A Torino gli studenti formano un grosso collegio, in cui non si conoscono file, ma da un luogo all’altro si va a mo’ di famiglia. Ogni gruppo circonda un insegnante, senza chiasso, senza irritazione, senza contrasti. Abbiamo ammirato le facce serene di quei ragazzi né ci potevamo trattenere dall’esclamare: qui c’è il dito di Dio! ».
L’allegria doveva essere la molla naturale che agganciava il soprannaturale: «Devi sapere spiegava il piccolo Domenico Savio a un compagno appena arrivato che qui facciamo consistere la santità nello stare molto allegri».
L’imposizione doveva essere abolita anche là dove era consacrata dall’uso e dall’importanza della questione: allora non c’era ambiente educativo giovanile in cui non fossero obbligatorie la confessione e la comunione.
Don Bosco confessava e comunicava tutti i ragazzi, ma nessuno era tenuto a farlo. Anzi raccomandava sempre di non annoiarli con gli obblighi. Solo incoraggiarli. Semplicemente gli dimostrava che, senza la pace del cuore, non potevano essere veramente felici, veramente ragazzi.
D’altra parte don Bosco era profondamente convinto che senza familiarità con Dio, senza «religione», non è possibile educare.
«L’educazione, diceva, è cosa del cuore e Dio solo ne è il padrone e non potremo riuscire a niente se Dio non ci dà in mano la chiave di questi cuori». E aggiungeva: «Soltanto il cattolico può con successo applicare un metodo preventivo».
Riusciva a convincere di questo perfino qualche protestante che andava a trovarlo per imparare. Le espressioni che possono sembrare «intolleranti» fanno parte appunto di quell’«idea» totalizzante che fa un vero educatore. L’idea che don Bosco ha dell’educatore è totale, totale l’idea della sua attività, totale l’idea del bisogno educativo.
Non c’è un aspetto che egli ritenta di dover trascurare o che sia indegno dell’educatore, sia che si tratti di far da mangiare, o di tagliare un abito, o partecipare a un gioco o insegnare un mestiere, o istruite, o far musica, o pregare o predicare, o confessare, o dare l’eucaristia.
Nel 1884, quando il santo era ancora vivente usci una biografia di don Bosco, scritta da un autore francese. Diceva: « Fino ad ora i fondatori di Congregazioni e di Ordini religiosi si sono proposti un fine speciale in seno alla Chiesa essi vi hanno praticato la legge che gli economisti moderni chiamano la legge della spartizione del lavoro. Don Bosco sembra aver concepito I’idea di far compiere alla sua umile comunità tutto il lavoro ».
Ragione, religione, amorevolezza era un trinomio su cui don Bosco intendeva fondare la sua opera preventiva.
All’educando bisognava offrire tutto intero lo spazio della vita. Soprattutto amorevolezza aveva una connotazione particolare. Si può infatti amare molto e combinare poco.
Scriveva in una sua celebre lettera da Roma, nel 1884: «Ma i miei giovani non sono amati abbastanza? Tu sai se io li amo. Tu sai quanto per essi ho sofferto e tollerato nel corso di ben quarant’anni e quanto tollero e soffro anche adesso. Quanti stenti, quante umiliazioni, quante opposizioni, quante persecuzioni per dare ad essi pane, case, maestri, e specialmente per procurare la salute delle loro malattie.
Ho fatto quanto ho saputo e potuto per coloro che formano l’affetto di tutta la mia vita… Che cosa ci vuole ancora dunque?».
E la risposta era: «Che i giovani non solo siano amati ma che essi stessi sappiano di essere amati».
Ai tempi di don Bosco ciò era talmente vero che un suo ragazzo divenuto adulto rispondeva a chi lo interrogava: «Noi vivevamo d’affetto».
Questa è la genialità di don Bosco: non basta amare, bisogna far vedere che si ama, renderlo percepibile: «Un amore che si esterna in parole, atti e perfino nell’espressione degli occhi e del volto».
E questo esige un’ascesi profonda, un coinvolgimento totale o quotidiano.
Nel 1883 andò a trovarlo un pretino lombardo, incuriosito di ciò che sentiva dire di lui. Diventerà Papa Pio XI, colui che proclamerà «Santo» don Bosco.
Dovette aspettare, perché don Bosco aveva radunato i direttori delle sue case e parlava con loro.
Intanto il pretino osservava. Quasi cinquant’anni dopo ormai Papa raccontava così quell’incontro:
«C’era gente che veniva da tutte le parti, chi con una difficoltà chi con un’altra. Ed egli in piedi come se fosse una cosa di un momento, sentiva tutto, afferrava tutto, rispondeva a tutto. Un uomo che era attento a tutto quello che accadeva attorno a lui e nello stesso tempo si sarebbe detto che non badava a niente, che il suo pensiero fosse altrove. Ed era veramente così: era altrove, era con Dio. E aveva la parola esatta per tutti, così da meravigliare. Questa la vita di santità, di assidua preghiera che don Bosco conduceva tra le occupazioni continue e implacabili ».
Ma questa era appunto una capacità educativa su di sé e sugli altri divenuta ormai santità.
Negli ultimi mesi si trascinava a fatica: «Dove andiamo, don Bosco?» gli dicevano. Rispondeva: «Andiamo in Paradiso»
Fu proclamato Santo alla chiusura dell’anno della Redenzione, il giorno di Pasqua del 1934.
E fu il primo Santo della storia per il quale, il giorno dopo la canonizzazione, anche la Stato tenne una celebrazione in Campidoglio con discorso del ministro della Pubblica Istruzione.
Era anche questo un riconoscimento di come ormai don Bosco appartenesse a tutti. Fino a oggi.